"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

martedì 7 agosto 2007

Sindacati: leadership a perdere


Così potenti così arroganti


di Bernardo Giorgio Mattarella

Non rappresentano gli interessi generali. Ma godono di una forte rendita di posizione. Che danneggia il Paese


Un 'assemblea della Cgil

I sindacati dei lavoratori sono sotto accusa
. Si rimprovera loro di coprire comportamenti fraudolenti, come gli scioperi formalmente mascherati da malattie collettive; di opporsi a misure che comportano sacrifici nell'immediato e benefici maggiori nel lungo termine, come la ristrutturazione di imprese in crisi; di tutelare interessi parziali a danno di quelli generali, per esempio quando ostacolano l'irrogazione di sanzioni disciplinari ai dipendenti pubblici assenteisti.

Questi fenomeni derivano in parte da una sproporzione tra potere e rappresentanza: i sindacati rappresentano solo alcuni cittadini, ma prendono decisioni che riguardano tutti e gestiscono risorse che appartengono a tutti. Gli esempi della sproporzione sono numerosi. Per la riforma delle pensioni, il governo ha ricercato il consenso dei sindacati, che rappresentano alcuni degli interessati (lavoratori e pensionati), e ha trascurato altri interessati, come le imprese, i contribuenti e, soprattutto, i lavoratori futuri (non a caso, Confindustria lamenta che, a differenza di quella trilaterale degli anni Novanta, la concertazione attuale è solo tra governo e sindacati). La legge finanziaria per il 2007 consente ai datori di lavoro di regolarizzare i lavoratori assunti in violazione della legge, ottenendo uno sconto sui contributi arretrati ed evitando le sanzioni, ma a condizione di aver concluso un accordo con i sindacati. Il Memorandum sul lavoro pubblico e sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che riguarda i servizi resi ai cittadini, dispone di materie che non dovrebbero essere negoziabili, come i concorsi pubblici: esso è stato sottoscritto pochi mesi fa dal ministro della Funzione pubblica e dai sindacati, ma nessuno ha consultato gli utenti.

Questa sproporzione ha precise ragioni storiche e, nel passato, è stata utile. In Italia vi è sempre stata una forte attrazione tra sindacati e pubblici poteri: un secolo fa si discuteva seriamente di riorganizzare lo Stato intorno alla rappresentanza degli interessi professionali; l'ordinamento corporativo fascista inserì i sindacati nell'organizzazione pubblica; in età repubblicana le grandi confederazioni hanno conquistato un notevole peso politico, tutelando gli interessi più deboli e spesso facendosi meritevolmente carico di quelli generali. Inoltre, il ritardo dello sviluppo di associazioni di consumatori e utenti ha indotto i governi ad assumere i sindacati come interlocutori, rappresentativi dell'intera società civile. Di qui la concertazione sociale. Di qui anche le tante leggi che attribuiscono ai sindacati il potere di designare componenti di organi pubblici, di porre norme valide per tutti, di condizionare l'adozione di atti amministrativi, di gestire risorse e uffici pubblici. Tutto ciò vale, in misura minore, anche per le associazioni dei datori di lavoro.

Queste ragioni storiche si vanno esaurendo e gli effetti negativi della sproporzione si acuiscono: la base sindacale rispecchia sempre meno l'articolazione della società e coincide sempre meno con le categorie più deboli; la frammentazione e competizione tra sindacati rende poco conveniente, per il singolo sindacato, farsi carico degli interessi generali, rischiando di perdere iscritti. Il potere sindacale è spesso utilizzato a vantaggio di alcuni, poco meritevoli, e a danno di tutti. È anche un potere invadente, come dimostrato dai contratti collettivi del pubblico impiego, che sconfinano regolarmente in materie che sarebbero riservate alla legge. Ed è un potere spesso incoerente: i sindacati criticano l'affidamento di funzioni amministrative e servizi pubblici a privati (che può determinare risparmi ed efficienza), ma sono i principali beneficiari dell'esternalizzazione in materia fiscale e previdenziale, con i Caf e gli istituti di patronato. I quali costituiscono veicoli di finanziamento pubblico dei sindacati, legittimo ma poco trasparente, e strumenti di proselitismo agevolato: attratti dall'assistenza fiscale gratuita (ma in realtà pagata dallo Stato), ci si iscrive al sindacato.

Come rimediare, senza rinnegare il ruolo positivo che i sindacati hanno storicamente avuto e possono ancora avere? Si potrebbe cominciare applicando la Costituzione. La quale offre indicazioni importanti sia sul rapporto tra interessi generali e interessi di singole categorie produttive, sia sui sindacati. Sul rapporto tra interessi generali e settoriali, la Costituzione prevede il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel), retaggio delle vicende storiche menzionate. Questo organo non ha mai avuto un ruolo importante, anche per il modo in cui i suoi componenti vengono scelti: quasi una sinecura per esponenti politici o sindacali in carica o a riposo. Ma è interessante ciò che la Costituzione prevede: ne fanno parte i rappresentanti 'delle categorie produttive', e non solo dei lavoratori dipendenti; esso può fare proposte e dare pareri, ma la successiva decisione spetta al potere politico. Dunque, va bene la concertazione, ma tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti e distinguendo tra le responsabilità di chi rappresenta tutti e quelle di chi rappresenta alcuni.

Sui sindacati, premesso che essi rappresentano alcuni ma decidono per tutti i lavoratori, l'articolo 39 della Costituzione stabilisce: che essi possono farlo soltanto attraverso rappresentanze unitarie, composte in modo da rispecchiare la rappresentatività dei vari sindacati; e che, per farlo, devono avere un ordinamento interno democratico. Il secondo requisito non dovrebbe spaventare le grandi confederazioni. Il primo forse sì, perché la misurazione della rappresentatività favorisce chi attualmente è sottorappresentato e danneggia chi gode di posizioni di rendita. È anche per questo che i sindacati si sono sempre opposti all'applicazione di questa norma (ingiustamente criticata anche da tanti studiosi). Ma, in tempi di crisi di rappresentatività, difendere le posizioni di rendita è sempre più difficile.

*Bernardo Giorgio Mattarella è docente di diritto amministrativo, autore con Pietro Ichino del disegno di legge sull'efficienza della pubblica amministrazione
(03 agosto 2007)

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Leadership a perdere

di Massimo Riva

Il rifiuto dei sindacati di accettare la riforma pensionistica, arroccandosi in difesa degli interessi immediati di pochi lavoratori, dimostra le difficoltà e lo spiazzamento politico di chi guida le organizzazioni dei lavoratori
Guglielmo Epifani

Forse mai come ora il movimento sindacale si è trovato a essere protagonista centrale della stagione politica. Di sicuro, però, mai come ora esso sta facendo venire in piena luce le sue debolezze e i suoi limiti nel reggere la parte di primo attore che le circostanze gli hanno assegnato. Anzi, accade proprio che le fragilità e le divisioni interne all'organizzazione sindacale si rovescino all'esterno, diventando a loro volta un fattore di ulteriore e pesante condizionamento della vita economica e sociale del Paese.

La vicenda dell'incompiuta (per l'ennesima volta) riforma previdenziale costituisce al riguardo un caso esemplare perché denuncia, in primo luogo, l'incapacità dei maggiori sindacati di alzare il tiro delle loro ambizioni al di là della realtà immediata e contingente. Le aspettative di vita dei lavoratori italiani stanno ormai raggiungendo e presto supereranno la soglia dell'ottantesimo anno di vita? Sì, come tutti sanno. In conseguenza è in atto un processo demografico in forza del quale, nell'arco di venti, trent'anni, gli italiani ultrasessantacinquenni saranno la larga maggioranza della popolazione? Altro incontestabile sì. Negli altri paesi industrializzati a noi consimili in Europa si è proceduto a un significativo innalzamento dell'età pensionabile? Ennesimo sì.

Soltanto in Italia, viceversa, il movimento sindacale si rifiuta nei fatti di prendere le misure di questa realtà e cerca di resistere adogni aggiustamento delle regole in difesa sostanzialmente degli interessi immediati di una parte numericamente minoritaria di lavoratori, quelli più prossimi alla soglia del pensionamento. A ben vedere, infatti, questo e soltanto questo è stato e continua a essere il nodo cruciale attorno a cui ruota tutta la virulenta contesa politica contro le proposte del governo per il superamento del famigerato scalone Maroni. Non può certo dirsi che simili posizioni siano indice di lungimiranza politica e, soprattutto, sociale.

La confederazione che più delle altre si trova oggi a soffrire questa sorta di impotenza a dialogare con la generalità dei lavoratori, in particolare giovani, è la Cgil di Guglielmo Epifani. È un fatto che il suo sia un compito reso ancora più arduo dalla fronda interna del sindacato dei metalmeccanici, diventato al tempo stesso punto di riferimento e arma di lotta per i Giordano e i Diliberto impegnati coi loro partiti in un evidente tentativo di spiazzamento politico del sindacato. Ma di sicuro non è la prima volta che la Cgil si trova ad affrontare simili insidiosi attacchi dal mondo della politica. Nella storia recente basta ricordare la sfida sui diritti dei lavoratori apertasi pochi anni fa tra Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati. La differenza è che allora il vertice Cgil seppe fronteggiare i tentativi di condizionamento, tenendo unito il fronte dei lavoratori senza concessioni alle minoranze più agguerrite.

È di questa capacità di leadership che oggi si sente la mancanza. Un sindacato che si ritrae e rifiuta l'ostacolo, quando è chiamato a condividere oneri e onori di riforme dirette alla generalità dei cittadini, alla lunga si condanna all'emarginazione dall'agenda politica del Paese.

(03 agosto 2007)

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Da loro non mi farei difendere

di Michela Murgia
Lo ammetto: da precaria in un call center l'ultimo posto dove avrei pensato di andare a farmi difendere sarebbe stato il sindacato. Come me la pensavano anche i miei precari colleghi e non c'è da stupirsi, visto che il contratto a progetto, ricattatorio per sua natura, scoraggia volentieri qualunque tentativo di negoziazione organizzata. ...
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fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Leadership-a-perdere/1707268

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