"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci
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venerdì 1 luglio 2011

il mondo, Israele, la Palestina e la Freedom Flotilla

Copio dal blog della Stefano Chiarini l'ultimo comunicato stampa:

Il Mediterraneo non è proprietà di Israele – comunicato stampa

Freedom Flotilla Italia – Comunicato stampa 1 luglio 2011

La nave Statunitense “Audacity of Hope” ha deciso di tenere fede al proprio nome ed è salpata, per essere bloccata dopo un quarto d’ora di navigazione dalle autorità portuali greche che hanno intimato agli attivisti di tornare in porto ad Atene minacciando l’equipaggio ed i passeggeri con le armi. Stesso tentativo e stesso esito per la nave canadese Taharir. Intanto una nota del Ministero per la sicurezza interna greco mostra tutta la subalternità del governo di Papandreou alle politiche israeliane, dichiarando che la Grecia vieta alle barche della Freedom Flotilla 2 di salpare per Gaza. Nel mare greco, in queste ore, si sta giocando un vero e proprio braccio di ferro tra i sostenitori del diritto internazionale e quelli del diritto di Israele, diritti che come è dimostrato sin dalla nascita dello Stato di Israele non fanno che confliggere. Come ignora Gianni Letta che risponde alla sollecitazione della Freedom Flotilla Italia con un comunicato dove dice che non è in grado di garantire la sicurezza degli italiani diretti a Gaza “…trattandosi di iniziative in violazione della vigente normativa israeliana”. “Non immaginavamo che tutto il Mediterraneo fosse proprietà di Israele” hanno commentato dalla FF2 gli attivisti internazionali determinati a portare a termine la missione, non solo umanitaria, ma soprattutto politica di fare approdare le navi a Gaza. L’obiettivo è quello di rompere un assedio che si protrae da troppo tempo ai danni di una popolazione che subisce una punizione collettiva, laddove sono proprio il diritto internazionale, le convenzioni e i trattati, nati per salvaguardare le popolazioni oppresse, ad affermare che tutto questo oltre a essere inumano, è fuorilegge.

MOBILITIAMOCI PER FARE PRESSIONE SUL GOVERNO GRECO

Freedom Flotilla Italia indice un presidio davanti all’Ambasciata greca in Via Mercadante a Roma

Lunedì 4 luglio alle 17,00 e invita alla mobilitazione in tutta Italia

Invitiamo tutte e tutti a scrivere all’ambasciata di Grecia in Italia, all’indirizzo gremroma@tin.it, a telefonare al n. 06-8537551 e ad inviare fax al n. 06-841592Inserisci link7.

Per adesioni: roma@freedomflotilla.it

Contatti: 333/5601759 – 338/1521278

Sono indignata. Non basta l'arrendevolezza e l'indifferenza colpevole del nostro governo o le minacce della Clinton agli Americani, non basta la campagna di bugie sperticate messa in atto da Israele, non bastano neanche i sabotaggi che le navi della Flotilla subiscono misteriosamente, (non una sola...), non bastano gli appelli al "restare umani" (o tornare ad esserlo, o diventarlo che dir si voglia) che ogni persona di buona volontà rivolge ai propri "rappresentanti al governo", non basta neppure che un giornalista americano dichiari che le accuse dell'IDF non hanno basi sicure. Non basta nemmeno che intanto Israele inasprisca le condizioni di vita dei prigionieri Palestinesi, no, adesso Israele si mette pure a fare pressioni indebite quanto ricattatorie (ovviamente con l'aiuto dei suoi fedeli alleati americani e pure di qualche europeo, forse con la coscienza ancora sporca... ammesso che la coscienza certi individui ce l'abbiano). Non è nemmeno sufficiente che ci siano ebrei che sostengono il boicottaggio di Israele e la Flotilla.










Eggià. Israele ha il diritto di difendersi, evidentemente anche in modo preventivo e in ogni parte della terra. Se domattina il Mossad vi bussa alla porta e vi arresta perché esponete la bandiera della Freedom Flotilla 2, non stupitevi e non proclamate il vostro essere italiani: Israele deve difendersi... mica può perder tempo in quisquilie come i Diritti Universali dell'Uomo!

Una "fonte informata" mi ha detto, in una discussione su Facebook, che già sono state trovate armi a bordo delle navi della Flotilla, che la Palestina non appartiene ai Palestinesi, che Allah è un impostore e che come gli Ebrei son stati perseguitati nel corso dei secoli, ora viene perseguitato Israele... sempre di antisemitismo si tratta (se vi fidate della mia traduzione bene, altrimenti leggetevi l'originale in inglese). E se anche qualche Ebreo e/o Israeliano non la pensa come lei, non importa, perché lei si basa sui fatti mentre c'è gente che non vuole capire. Ma capire cosa? Che un popolo che un tempo subì una persecuzione durissima (non la sola, certamente, ma non è neppure stato l'unico a sperimentarla) non ha imparato niente dalla sua storia, visto che da vittima è diventato carnefice, e neppure dei suoi ex aguzzini, ma di altri che non c'entravano proprio nulla ed erano solo nel posto sbagliato al momento sbagliato?

Ancora con questa storia dell'antisemitismo... l'accusa di "antisemitismo" in questo contesto è ignorante e falsa: "semiti" sono determinati popoli, tra cui sì gli Ebrei, ma anche gli Arabi ed i Maltesi, per esempio (non lo dico io ma Wikipedia), quindi essere antisemita vorrebbe dire automaticamente essere anche contro gli Arabi, quindi contro i Palestinesi...

Quanto all'essere antiebraica, altra accusa ricorrente, anche questa è una scorciatoia facile ma inesatta. Io posso anche essere agnostica, ma non vedo perché dovrei starmela a prendere con gli Ebrei e non con i Cattolici (ad esempio), che oltretutto conosco meglio. E poi non m'hanno fatto nulla, gli Ebrei. Sono, quello sì, decisamente antisionista ed aborro le politiche del governo israeliano, ma d'altra parte sono in ottima compagnia, se un Rabbino sostiene che lo stato di Israele deve essere smantellato...


Che dire poi dell'affermazione (presuntuosa, a mio avviso) che Allah è un impostore? Non mi pare un grande esempio di tolleranza... allora preferisco essere agnostica e non riconoscere alcuna divinità senza per questo denigrare quelle altrui (come faccio io) piuttosto che pretendere di avere la verità in tasca. Perché poi è questa convinzione di essere gli unici nel giusto a causare intransigenza, odio e fanatismo. Altro che pace... al massimo, come scrisse un tale, "fanno il deserto e lo chiamano pace". Appunto.

Quanto poi al fatto che la Palestina non è dei Palestinesi, mi sembra la stessa cosa che i coloni americani sostenevano nei confronti dei nativi Indiani d'America... perché faceva loro comodo, non perché fosse una verità, ma siccome loro erano più forti, ecco che "la Storia" ce li presenta come legittimi portatori di libertà e democrazia... e scusate se la cultura indiana era molto più democratica di quella a stelle e strisce!

Fate in fretta a leggere tutto, che tra pochi giorni potrei essere oscurata... potenza della democrazia. E leggete anche il post di Loris, che vi ricorda anche gli appuntamenti di "Genova 2001-2011: loro la crisi, noi la speranza"



















domenica 13 gennaio 2008

ABOU KASSIM LIBERO! PETIZIONE



di Pier Piero

Petizione: Abou Elkassim Britel libero e vivo!

La petizione per l'immediata liberazione di Kassim è appena stata inserita sul sito di petitionOnline. E' rivolta al Governo italiano, alla Commissione europea e al Parlamento europeo.

Chi, sin d'ora, vorrà sostenerci inoltrando subito la propria adesione, sarà al nostro fianco tra i primissimi firmatari del documento.

Invitiamo tutti a diffondere ovunque la voce di Kassim.

Di seguito, il testo del documento.

Abou Elkassim Britel, nato in Marocco e cittadino italiano dal 1999, è in sciopero della fame dal 16 novembre 2007 in un carcere marocchino.

Dopo quasi 6 anni di ingiusta detenzione chiede di essere liberato: non ha commesso reati.

Da marzo 2002 Kassim ha subito: extraordinary rendition, arresti arbitrari, detenzioni segrete con torture e violenze di ogni genere, un processo affrettato ed iniquo, carcere duro.

Il Parlamento europeo nella sua Risoluzione n° 2006/2002 (INI)/feb 2007: « 63. condanna la consegna straordinaria del cittadino italiano Abou Elkassim Britel, che era stato arrestato in Pakistan nel marzo 2002 dalla polizia pakistana ed interrogato da funzionari USA e pakistani, e successivamente consegnato alle autorità marocchine ed imprigionato nella prigione di "Temara", dove è ancora detenuto; sottolinea che le indagini penali in Italia contro Abou Elkassim Britel erano state chiuse senza che egli fosse incriminato; 64. si rammarica che secondo la documentazione trasmessa alla commissione temporanea, dall'avvocato di Abou Elkassim Britel, il Ministero degli Interni italiano all'epoca fosse in "costante cooperazione" con servizi segreti stranieri in merito al caso di Abou Elkassim Britel dopo il suo arresto in Pakistan; 65. sollecita il governo italiano a prendere misure concrete per ottenere l'immediato rilascio di Abou Elkassim Britel ».

La sua innocenza è provata anche dalle conclusioni della magistratura italiana che ha archiviato l’indagine su di lui « rilevato che gli ulteriori accertamenti disposti, intercettazioni telefoniche ed accertamenti bancari, non hanno fornito alcun supporto all'accusa », (9745/06) set.06

Kassim attua questa forma di protesta estrema dopo che lui e sua moglie, innumerevoli volte nel corso di questi anni, si sono rivolti con fiducia sia alle autorità italiane che marocchine senza risultato alcuno, anzi durante lo sciopero della fame un trasferimento ha peggiorato le condizioni di reclusione.

Ogni ora che passa aggrava la situazione: la sua vita è ormai in grave pericolo. Insieme alla debolezza fisica aumenta anche la sua determinazione.

Chiediamo insieme di salvare la vita di Abou Elkassim Britel rendendogli al più presto la dovuta libertà:

- al Governo italiano un passo concreto e deciso per la liberazione di Abou Elkassim Britel,

- alla Commissione europea ed al Parlamento europeo un’efficace azione a sostegno di queste richieste urgenti, in considerazione dell’art. 2 dell’ACCORDO EUROMEDITERRANEO di associazione UE-Marocco, in vigore dal 2000: « il rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali dell’uomo, quali enunciati nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ispira le politiche interne e internazionali della Comunità e del Marocco e costituisce elemento essenziale del presente accordo ».

Per favore, inserite nome e cognome, solo così la vostra adesione sarà valida, grazie.

Sottoscrivi

http://www.petitiononline.com/kassim/petition-sign.html


http://www.kassimlibero.splinder.com/
http://www.giustiziaperkassim.net/

fonte: http://www.forum.rai.it/lofiversion/index.php/t187777.html

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Qui si piange e si pensa, ragazzi e ragazze. Occhio :)


As salam alaykum wa rahmatuLlah. Non ha a che fare col matrimonio islamico, il video che vorrei che tutti (soprattutto i non musulmani) vedeste.

Ha a che fare con una dolcissima, sincera all' inverosimile e pia donna, che ha scelto l'Islam grazie a Dio, il Quale lo ha posto nel suo cuore per mezzo dell' amore più grande della sua vita: sua figlia (che all' epoca dei fatti aveva sette anni!).

Spero davvero che lo guardiate, non vi costa niente a parte un po' del vostro tempo, ma forse vi farà riflettere, se Dio vuole. E vi aiuterà a capire il perchè sempre più persone decidono di abbracciare questa meravigliosa religione. In lingua inglese.

As salam alaykum wa rahmatuLlah.



Jazaki Allahu khairan alla sorella Nabila che ce lo ha inviato. In lingua inglese.


fonti: http://an-nisa.splinder.com/
http://sistersinblog.splinder.com/post/15484071/Qui+si+piange+e+si+pensa%2C+raga

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mercoledì 28 novembre 2007

«Manganelli dice: giù di forza»

L’inchiesta di Genova. L’ex questore nelle telefonate: parla di un’azione comune contro i pm

Colucci intercettato. Il capo della polizia: frasi mal riportate

Il capo della polizia Manganelli (Ansa)
GENOVA - Manganelli «è arrabbiato e dice che devono fare un’azione comune per essere pesanti contro i magistrati», «il capo dice che devono andarci giù di forza », e ancora «Manganelli stamattina mi ha detto: dobbiamo darci una bella botta a questo magistrato, mi ha accennato che qualcuno sta già prendendo delle carte non troppo regolari». Francesco Colucci, questore di Genova durante il G8 del 2001, parla così con un funzionario del ministero dell’Interno, con un collega e con Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova. Non sa di essere intercettato.

Colucci commenta il fatto che egli stesso e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, dimesso da pochi giorni, sono indagati per falsa testimonianza. È accaduto infatti che il 3 maggio Colucci, chiamato a testimoniare sulle telefonate intercorse la notte della Diaz con De Gennaro, abbia modificato la sua precedente versione negando di aver parlato con il capo della polizia a proposito dell’intervento del portavoce Roberto Sgalla nella scuola. Risultato: Colucci è accusato di falsa testimonianza, De Gennaro di averlo istigato a mentire, reato poi contestato anche a Mortola. Nelle intercettazioni che fanno parte del fascicolo relativo alla falsa testimonianza, non ci sono telefonate di Manganelli né di De Gennaro. L’ex capo della polizia e l’attuale compaiono solo nelle parole del molto loquace Colucci. Lo schema, secondo i magistrati che hanno da poco depositato l’avviso di conclusione delle indagini, è questo: De Gennaro fa pressione su Colucci perché cambi la sua testimonianza, Colucci lo fa, scoppia il caso, Colucci telefona a destra e a manca euforico spiegando come Manganelli (non ancora capo della Polizia) la voglia far pagare ai magistrati.

Il prefetto Manganelli ieri ha dichiarato che quelle frasi sono «un tradurre liberamente e con linguaggio inappropriato la mia manifestazione di affetto e di vicinanza a un collega in difficoltà». Nel faldone c’è anche la telefonata fra Mortola (indagato nel processo Diaz per le false molotov) e Maddalena, l’ispettore del Viminale incaricato di investigare sulla sparizione delle molotov dall’ufficio corpi del reato della Questura. Maddalena relaziona a Mortola sulle indagini in Procura. Insomma, una partita avvelenata fra Procura e Polizia, o almeno questo starebbero a dimostrare intercettazioni e atti depositati.

Erika Dellacasa
28 novembre 2007

fonte: http://www.corriere.it/cronache/07_novembre_28/genova_manganelli_53481ba8-9d89-11dc-bac3-0003ba99c53b.shtml

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Colucci telefona a un funzionario indagato per motivi diversi e nasce il coinvolgimento del capo della Polizia

E il questore confidò al collega
"De Gennaro vuole un'altra versione"

di MASSIMO CALANDRI


Dopo il blitz alla Diaz


GENOVA
- "Il capo dice che sarebbe meglio raccontare una storia diversa...". Il cellulare intercettato dagli investigatori è quello di uno dei 29 imputati per il blitz alla scuola Diaz. Appartiene ad un alto funzionario della Polizia di Stato, indagato dalla Procura di Genova anche per una seconda vicenda che non sarebbe legata ai procedimenti del G8. Ed è per questo motivo che, a sua insaputa, i carabinieri tengono sotto controllo il telefono. Dall'altro capo del filo c'è Francesco Colucci, nel 2001 questore nel capoluogo ligure, chiamato a testimoniare nel processo sulla sciagurata irruzione del 21 luglio. E' Colucci che parla. Il "capo" cui fa riferimento è Gianni De Gennaro.

Comincia così, un paio di mesi fa, la vicenda che ha portato all'iscrizione nel registro degli indagati del capo della polizia italiana. Che secondo i magistrati avrebbe "suggerito" al suo sottoposto di fornire ai giudici una versione meno scomoda su quanto accaduto sei anni or sono nel capoluogo ligure. Un'altra "verità" per quella sciagurata notte, costruita a tavolino così da spazzare via anche le piccole ombre.

La seconda parte va in onda lo scorso 3 maggio, quando l'ex questore di Genova si presenta puntualmente nell'aula di tribunale dove si celebra il processo a 29 tra agenti e super-poliziotti. E' protagonista di una sconcertante testimonianza, farcita di silenzi, contraddizioni e "non ricordo". In alcune occasioni fornisce versioni differenti da quelle date in precedenza ai magistrati, in particolare nel corso di un interrogatorio dell'ottobre di sei anni fa.

Una storia diversa, appunto. Enrico Zucca, il pubblico ministero che lo interroga, sembra perdere la pazienza. Lo incalza e Colucci arrossisce, chiede scusa: "Ho sbagliato forse nel parlare". "La mia affermazione forse è stata un po' sprovveduta, superficiale". "Mi correggo, sono stato impreciso". Racconta di aver chiamato il prefetto De Gennaro su consiglio di Ansoino Andreassi, allora numero 2 della polizia italiana, per avvertirlo dell'imminente perquisizione nella scuola. Giura di aver telefonato lui, di sua iniziativa - e non su ordine del capo - , all'addetto stampa del ministero, Roberto Sgalla. S'impappina quando il pm denuncia l'esistenza di un fonogramma che parla di una seconda perquisizione, nell'istituto di fronte a quello del massacro. Ricorda che a parlare del ritrovamento delle due molotov, portate dalla polizia e falsamente attribuite ai no-global, furono Spartaco Mortola o Nando Dominici (allora rispettivamente capo della Digos e della squadra mobile genovese), mentre prima aveva detto un altro nome: Giovanni Luperi, che era vice-capo dell'Ucigos.

Terzo capitolo: Colucci viene iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza. Lo stesso accade per Gianni De Gennaro, che secondo la Procura deve rispondere di averlo indotto e istigato a mentire. I pm genovesi avrebbero voluto ascoltare il prefetto l'undici giugno. Il capo della polizia ha chiesto un rinvio: la nuova data dell'interrogatorio è ancora da fissare.

La notizia dell'avviso di garanzia a De Gennaro getta benzina sul fuoco delle polemiche e delle tensioni tra difensori e pubblica accusa, che in aula sono fortissime. La Procura smentisce in maniera secca qualsiasi collegamento tra l'inchiesta sulla falsa testimonianza di Colucci e quella su di un'altra imbarazzante storia legata al G8: la sparizione dalla cassaforte della questura di Genova delle due molotov, prova "regina" dei falsi commessi dalle forze dell'ordine. Non ci sono nuovi indagati, precisano gli inquirenti. Ma secondo i bene informati sarebbero state intercettate altre chiamate di funzionari: super-poliziotti che uscendo dal tribunale, dopo essere stati ascoltati in aula, se la prendevano con i magistrati. E concordavano la linea difensiva dei colleghi, convocati nei giorni successivi.

Carlo Di Bugno, legale di Luperi, ammette di aver verificato nei giorni scorsi - e come lui altri avvocati - la posizione dei suoi clienti. "Non ci risultava nulla di nuovo. Ma qui ogni giorno c'è una sorpresa. Se poi ci si mette ad ascoltare le telefonate dei testimoni dopo un interrogatorio durante il processo, state pur certi che si possono scrivere addirittura romanzi". Di Bugno ha chiesto ufficialmente di inserire nel fascicolo del procedimento-Diaz tutte le dichiarazioni rese da Francesco Colucci. "E' il modo migliore per fare chiarezza, per dissipare tutte le perplessità e scoprire se ha davvero mentito", spiega. Secondo altri, la mossa obbligherebbe i magistrati a scoprire le proprie carte rivelando gli elementi di cui sono recentemente entrati in possesso: i pm Zucca e Francesco Cardona Albini si sono riservati di esprimere un parere sulla richiesta nel corso della prossima udienza, in programma mercoledì.

(22 giugno 2007)

fonte: http://www.repubblica.it/2007/06/sezioni/politica/sostituzione-de-gennaro/inchiesta-questore/inchiesta-questore.html

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ULTERIORI APPROFONDIMENTI QUI'

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lunedì 26 novembre 2007

«Giuliani? 1 a zero», trovati i poliziotti degli insulti al G8

 scuola diaz carlo giuliani genova g8
Una poliziotta in servizio a Genova e un agente toscano. Sono loro le due persone che, nelle concitate ore dei disordini a Genova durante il vertice G8 del luglio 2001 inneggiarono alla morte di Carlo Giuliani, autori delle telefonate choc (tra la sala operativa e gli agenti in strada) emerse con la pubblicazione delle registrazioni di alcuni scambi di battute dalla sala radio della questura alla strada. Lo ha scoperto l'indagine interna avviata per volere del capo della polizia Antonio Manganelli.

La notizia è stata anticipata dal quotidiano genovese «Il secolo XIX». Tra le frasi pronunciate dai due agenti: «Speriamo che muoiano tutte quelle zecche» e «Tanto è già uno a zero per noi» in riferimento all'uccisione di Giuliani.

L'agente donna, in questo momento, è in congedo per motivi personali, il poliziotto, invece, era a Genova come “rinforzo” ai colleghi liguri. Entrambi saranno sottoposti all’indagine della questura genovese, per la quale in quei giorni prestavano servizio: si occuperà della vicenda il questore di Genova Salvatore Presenti che richiederà alla procura della Repubblica le registrazioni delle telefonate.

A portare alla luce i responsabili di quelle frasi vergognose, un’indagine interna voluta dal capo della polizia Antonio Manganelli che, spiega, aveva sentito «la necessità di una verifica urgente e accurata su quelle telefonate». Si riconferma così, la posizione di Manganelli su quanto avvenne in quei giorni del 2001, per nulla innocentista. Nella sua deposizione come testimone nel 2002, l’attuale capo della polizia aveva raccontato di aver risposto così a un De Gennaro soddisfatto di come si era svolta l’irruzione alla scuola Diaz: «Io credo che tu abbia visto un altro G8, gli dissi... Noi ne usciamo male e insomma, a me non sembrano pregresse, quelle ferite. Io ne ho viste tante – aveva detto – mi spiace dirlo al registratore, ma ne ho anche fatte tante... ma la bustina in tasca allo spacciatore... insomma, l’avevo vista nei film, ma non credevo potesse succedere».

Pubblicato il: 26.11.07
Modificato il: 26.11.07 alle ore 13.51

fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=70903

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domenica 25 novembre 2007

Russia, repressione a San Pietroburgo

Scontri tra polizia e manifestanti La repressione contro i manifestanti a San Pietroburgo


SAN PIETROBURGO (25 novembre) - Decine di oppositori sono stati picchiati e arrestati dalle truppe antisommossa russe a San Pietroburgo prima che si svolgesse una manifestazione non autorizzata contro il presidente Vladimir Putin, a una settimana dalle elezioni. Le truppe antisommossa hanno preso a manganellate un gruppo di militanti dell'estrema sinistra, i nazional-bolscevici del movimento dello scrittore Eduard Limonov, che poi sono stati caricati su un furgone e portati via. Gli incidenti hanno causato l'arresto di una cinquantina di manifestanti, tra cui il leader locale del partito di opposizione Iabloko, Maxim Reznik. Successivamente l'oppositore liberale russo Boris Nemtsov ha annunciato di essere stato rilasciato dopo essere stato brevemente fermato dalla polizia.

Ieri a Mosca vi erano stati incidenti analoghi ad una marcia anti-Putin durante la quale era stato arrestato (e poi condannato a cinque giorni di carcere) uno dei leader del movimento di opposizione Altra Russia, l'ex campione di scacchi Garry Kasparov. Tra i manifestanti picchiati e arrestati a Mosca c'è anche l'iscritto al Partito radicale Serge Konstantinov, già arrestato per manifestazioni antiproibizioniste, a favore della Georgia e in occasione del Gay Pride della primavera scorsa. Il leader storico dei radicali in Russia, Nikolaj Khramov, tra i presenti in piazza ieri, è invece irrintracciabile.


fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=13781&sez=HOME_NELMONDO

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sabato 17 novembre 2007

Arabia Saudita, violentata ma condannata a carcere e frusta



sentenza shock in Arabia SauditaRIAD (Arabia Saudita). E’ stata violentata da sei uomini ma per lei è giunta comunque una condanna a sei mesi di carcere e 200 frustate. I suoi aguzzini, invece, hanno avuto pene da due a nove anni di reclusione. La decisione arriva da un tribunale saudita, ieri riportata dal quotidiano palestinese “al Quds al Arabi” edito in Gran Bretagna.


La 21enne, che all’epoca dei fatti aveva 19 anni, è stata ritenuta colpevole di essersi fatta trovare dagli stupratori mentre era “appartata con un uomo”. Un reato gravissimo in Arabia Saudita, che ha consentito ai sei uomini di evitare la pena capitale prevista in questi casi. Il suo avvocato, Abdul Rahamn al Laham, è stato addirittura sospeso dalla professione e dovrà anche sottoporsi a “una commissione educativa” ordinata dal ministero della Giustizia. La giovane non ha nemmeno l’appoggio della sua famiglia, che si ritiene “caduta nel disonore”.


La storia risale a due anni fa. Un uomo iniziò a telefonare alla ragazza per chiederle di incontrarla. Lei, dopo alcuni rifiuti, gli inviò una sua foto. Poi, dopo essersi fidanzata con un altro uomo, scelto dalla sua famiglia per il matrimonio, chiese la restituzione della fotografia, fissando un appuntamento con il misterioso ammiratore. L’aggressione avvenne proprio mentre era in auto “appartata” con lui: sei uomini, armati di coltelli, la sequestrarono e portarono in una fattoria fuori città, violentandola e scattando delle foto con il suo cellulare. Quelle stesse foto che usarono per ricattarla: se avesse rivelato l’episodio loro le avrebbero inviate a tutti. Tornata a casa, la ragazza tentò il suicidio con delle pillole che però le provocarono solo un malore facendola finire in ospedale. Confessò, a quel punto, ciò che le era accaduto ma il suo promesso sposo non la ripudiò. Questa è stata l’unica fortuna da lei avuta. Assieme al fidanzato riuscì a rintracciare uno degli stupratori, che lavorava in un mercato del pesce, denunciandolo. Purtroppo, una volta in aula, da vittima è divenuta imputata, con i giudici che l’hanno ritenuta colpevole.

Lei, adesso, riconosce quella che fu una sua ingenuità, è consapevole che non doveva incontrarsi in auto con quell’uomo, ma ritiene che per la sua “colpevolezza”, qualora ci sia stata o meno in base alle leggi del suo paese, abbia già pagato con la brutale violenza subita.


fonte: http://www.pupia.tv/notizie/0001705.html

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L'OPINIONE DI ADRIANO

LA GUERRA CONTRO LE DONNE
Dall'Algeria all'Afghanistan

di ADRIANO SOFRI

CHISSÀ se si vedono ancora, sui voli che da Teheran o da Riad vengono in Europa, le meravigliose metamorfosi muliebri. Appena in cielo, passeggere imbozzolate nel chador come crisalidi andavano alla toilette, e ne uscivano farfalle, in abito corto, tacchi, gioielli, trucco vivace e capelli sontuosi. In Arabia Saudita è stata ora annunciata la concessione del diritto alle donne, purché siano sposate e abbiano compiuto i 35 anni, di guidare le automobili: forse "già dal prossimo anno". Un Ramadan del traffico: potranno guidare dalla mattina al tramonto. Non è poco, per un paese così petrolifero, e pilastro dell'intero sistema di alleanze occidentali nel mondo islamico. Nell'Afghanistan in mano ai talebani - già appoggiati dagli Usa per contorte convenienze geopolitiche - le donne sono state cancellate dal paesaggio esteriore. Prigioniere di guerra, nelle case, e nei burka che le infagottano, carceri portatili con una grata per respirare.

Le loro calzature non devono far rumore quando camminano. Guerra di riconquista, perché fino a due anni fa la maggioranza di quelle donne erano studentesse e insegnanti e impiegate.
In Algeria gli stupratori e squartatori grossisti pretendono di dedurre dal Corano il trattamento delle donne come bottino di guerra: denudate - altro che velo - violate e fatte a pezzi. I negrieri del Sudan di Al-Turabi vendono una giovane cristiana dinka a 40-50 dollari; non per una volta: per sempre. Delle donne vetrioleggiate del Bangladesh questo giornale ha scritto per primo. I ritagli di giornale che ho messo insieme sulla mia branda dicono la seguente notizia: che nel mondo si combatte una guerra per le donne e contro le donne.

L'idea sistemata da Samuel Huntington (Bernardo Valli ne ha appena trattato qui) che nel mondo sia in corso una guerra di civiltà e di culture è vera, e forse ovvia. L'eventuale conseguenza "separatista" di quella idea, che la nostra "cultura" debba trincerarsi nella propria superiorità minacciata, è meschina e velleitaria. Ma anche l'obiezione (di Edward Said, per esempio, se non sbaglio) che dà per avvenuta, con il mercato globale, l'"omologazione" del mondo e delle sue culture, è frettolosa e pretestuosa. Basta guardare appunto alla libertà delle donne. Non penso alla distanza fra culture tradizionali e rivendicazioni femministe. Piuttosto, al diritto delle donne di vestirsi con un vestito scelto da loro, forse colorato, di decidere della propria capigliatura, e di camminare in una strada facendo risuonare i loro passi.
Nel nostro mondo, la differenza fra ricchi e poveri non si riduce, e anzi diventa più scandalosa. Ma non c'è un'ideologia a rivestirla: né il socialismo, né il comunismo, né il terzomondismo.

Non è in nome del comunismo che i capi della Cina dichiarano che la Cina non sarà mai una democrazia all'occidentale - cioè una democrazia. L'Islam (benché esistano mille Islam) è ora la bandiera degli zelatori di questo confronto di "civiltà", di modi di vita, di costumi. La sua posta cruciale è la condizione della donna. Dietro il disprezzo per la "modernità", il fanatismo che prende a pretesto la religione, la paura dello sradicamento e dell'umiliazione del proprio passato, una parte del mondo tradizionale combatte per conservare, puntellare, restaurare dove ha vacillato, la signoria dei maschi sulle donne. In alcuni paesi questo scenario è brutalmente evidente: l'Afghanistan appunto. In Algeria si chiama guerra civile l'assalto degli islamisti terroristi alle libertà civili e delle donne in primo luogo, e il cedimento del potere a un Codice di Famiglia patriarcale e vessatorio: contro, c'è una coraggiosa e lucida resistenza di donne.

In Iran - che è forse il paese cruciale per il destino di questo scontro - le donne non hanno la forza di rovesciare la manomissione maschile, ma le donne che agiscono dentro il regime islamico provano a piegare la separazione forzata loro imposta in un separatismo autogovernato: un secondo mondo per loro, con il loro football, il loro giornale quotidiano, le loro organizzazioni, il chador rivendicato e la lacca e il rossetto sotto il chador. In Bosnia, dove "musulmane" erano le libere donne di Sarajevo e di altre città, sono stati i serbi ortodossi a ordinare e perpetrare gli stupri di pulizia. Altre parti del mondo, dove l'emancipazione femminile era stata più precoce e rozza, come nell'ex Urss, o dove un islamismo di tradizione era stato annacquato dalle imposizioni politiche, come in Albania, sono diventate esportatrici all'ingrosso, con le buone e con le cattive, di prostituzione al mercato occidentale.

Se questa mappa sommaria, comunque rettificata, ha una corrispondenza reale, si capisce che enorme disastro sia stato il Sexgate. A un altro (non più Terzo) mondo, che lo guarda soprattutto nella vetrina della condizione della donna e della sessualità, l'Occidente ha esposto un'immagine culminante di sé, quella su cui si gioca la leadership della sua potenza guida, tale da rovesciare la proposta apprezzabile della sua cultura e della sua libertà. Non è questione di "antiamericanismo". Non si può che stare dalla parte degli Stati Uniti, se si è affezionati alla libertà, e se, intanto, si ha la fortuna di godere della propria. Faremmo bene a ricordarci sempre - a toccarci ogni mattina increduli, per rassicurarci che siamo tutti interi - di appartenere a quella beata minoranza dei popoli contemporanei in cui non è messa a ogni istante a repentaglio l'incolumità fisica, l'elementare habeas corpus.

Da qui non finisce, ma comincia la discussione. C'è un'America della libertà personale e dei diritti civili; e c'è un'America del fondamentalismo moralista (e della pena di morte). Nel Sexgate lo stolido comportamento di Clinton e la superstizione ossessiva dei suoi nemici hanno offuscato e avvilito l'America dei diritti e delle libertà. Clinton l'ha tradita non quando ha mentito, ma quando ha accettato che si indagasse sulla sua vita privata e intima: e che gli si stampigliasse, senza ricami, la lettera scarlatta sulla giacchetta. Opporsi a quella invadenza avrebbe meritato fino la rinuncia alla presidenza: e, probabilmente, gliel'avrebbe conservata, e illesa. I suoi nemici, il procuratore speciale Starr in testa, non si sono fermati davanti all'indecenza, e alla confessione della propria frustrata ipocrisia. Per loro merito, il Congresso degli Stati Uniti ha prodotto una parodia incruenta delle lapidazioni di adultere e di adulteri che fanno spettacolo pubblico in Iran. (Bisogna, si sa, scegliere pietre non troppo piccole, che non facciano male, e non troppo grosse, che facciano finire troppo presto la cosa).

Il Sexgate ha offerto al mondo tradizionale lo spettacolo pubblico della famiglia di Clinton, o della complicità speciale fra madre e figlia esemplata nella cura per i corpi di reato della signora Lewinsky. Il mondo tradizionale, che non immagina di mettere in discussione la padronanza maschile sulle donne, e che risponde alla torbida minaccia (e lusinga) della libertà delle donne scrutata nello specchio e nel teleschermo dell' Occidente, muovendo alla riconquista delle proprie donne e facendole prigioniere, trova nel Sexgate una conferma inaudita dei propri giudizi e dei propri pregiudizi. Lo sdegno, lo scandalo, la derisione, devono attraversare quel mondo islamico (e non solo) al di là delle divisioni tante e profonde che lo segnano. Il Sexgate vi diventa la chiave di interpretazione della storia contemporanea. Clinton, che aveva al suo attivo meriti come l'intervento, tardivo ma benedetto, in Bosnia, e la mediazione israelo-palestinese, e a suo carico l'omissione di soccorso e di riconoscimento del genocidio dei tutsi in Ruanda, ha visto le sue iniziative internazionali tramutate irreparabilmente nella "guerra di Monica". Alla "guerra di Monica" fu ascritto il bombardamento di risposta sul Sudan e sull'Afghanistan, dopo le stragi di Nairobi e Dar es Salaam. Alla "guerra di Monica" è stato ora ascritto il bombardamento dell'Iraq. Per questo è del tutto superfluo discettare se Clinton sia stato o no influenzato da un tentativo di elusione alla vigilia dell'impeachment nello scatenare l'intervento. Un miliardo e passa di musulmani, e molti altri, non hanno dubbio che sia così, e tanto bastava.

Dunque l'America ha finito col dare al proprio ruolo di gendarme del mondo (di cui il mondo ha un gran bisogno, e non ha oggi né la capacità né la volontà di dotarsi altrimenti: certo non col Consiglio di Sicurezza) la faccia di una civiltà dominata dall'invadenza dei poteri, dalla maniacalità e dalla fobia sessuale, e dall'ipocrisia universale. In tal modo scendendo proprio sul terreno su cui si muovono (in maniera non dichiarata e spesso non consapevole) la rivolta islamista come l'offesa vissuta dall' Islam di fronte alla prepotenza occidentale. Bell'affare. Il regime iracheno, che fu a lungo un nazionalsocialismo laicista, e non obbliga le donne a indossare l'abbaya, benché di recente il suo tiranno sia diventato pio e timorato di Allah come un mullah, è il beneficiario passivo di questa situazione grottesca e tragica. Perché ora la solidarietà delle "masse arabe e islamiche" con l'Iraq non è più solo quella dell'Islam contro il resto del mondo (che era, la contrapposizione in blocco dell'Occidente all'Islam, il pericolo da sventare: come spiegò poco fa su queste pagine Jean Daniel) ma quella del mondo onorato e rispettoso dei padri contro la "guerra di Monica".

La decisione di sconfinare nel primo giorno di Ramadan ha coronato l'intempestività dell'impresa. E c'è poco da consolarsi col machiavellismo a basso prezzo per cui i leader arabi e islamici, anche quando fanno la voce grossa, stanno dalla parte del compromesso: come se fossero solo burattinai delle loro folle, e non potessero finire a gambe all' aria.
Non so come si potrà tornare indietro da questa rottura. Certo, non lo faciliteranno alcuni mesi di pubbliche udienze su sigari e sottovesti al Senato americano. Intanto, potremmo anche noi guardarci un po' meglio nel nostro stesso specchio. Nella nostra parte di mondo, guerre alle donne sono fuori corso, se Dio vuole. Resta, come certe malattie sorde che non riescono a sfogarsi nella febbre alta, il pulviscolo di omicidi contro donne, fidanzate da cui si è stati ripudiati, mogli separate o no, e di violenze domestiche. Non siamo neanche noi all'altezza dello spettacolo delle nostre libertà. E non abbiamo ancora scoperto davvero che anche l'immigrazione dell'altro mondo nel nostro è fatta di uomini e di donne.

La Repubblica, 23 dicembre 1998

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giovedì 15 novembre 2007

Guantanamo, sul web manuale segreto del lager

guantanamo camp delta


I cani che minacciano i detenuti, gli «oggetti di comfort», come la carta igienica, dati in premio a chi tra loro si comporta meglio, la manipolazione psicologica. L'orrore di Guantanamo è in un manuale denominato «Camp Delta Standard Operating Procedures», datato marzo 2003 e cont rassegnato come «Unclassified/for Official Use Only». Si tratta di un manuale che illustra anche il codice in base al quale i militari regolano l'accesso della Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) alle centinaia di presunti terroristi stranieri detenuti nel campo americano sull'isola di Cuba.

A svelarne i contenuti non è stato il Pentagono, che anzi si è rifiutato di commentarlo, ma Wikileaks.org, il sito web di Wikipedia dedicato ai documenti riservati, più o meno ufficiali.

Tutti possono leggere le 238 pagine in cui la macchina di Guantanamo è descritta attraverso le istruzioni date ai carcerieri sotto il cui controllo, da quattro anni, passano centinaia di «nemici combattenti», il termine coniato dall'amministrazione americana per sottrarre al giudizio di una corte ordinaria gli accusati di terrorismo. Per anni le associazioni dei diritti umani hanno chiesto di vedere il documento, invano.


 Detenuti del carcere di Guantano

«Ciò che mi colpisce», può dire Jamil Dakwar, direttore del programma per i diritti umani dell'Unione americana per le libertà civili, «sono le indicazioni dettagliate su come gestire tutti i tipi di situazione: dall'accoglienza alla rasatura, fino alla sepoltura dei detenuti».

Il documento, siglato dal generale Geoffrey Miller, sottolinea, tra l'altro, l'importanza dell'uso dei cani per intimidire i detenuti, abitudine americana in Iraq documentata dalle foto di Abu Ghraib. Una sezione intitolata «Deterrenza psicologica» suggerisce di far «passeggiare i Mwd(Military Working Dogs) per la strada principale del campo durante i turni d'aria per mostrare la loro presenza fisica ai prigionieri».

Miller è uno convinto di questi metodi, corrispondendo d'altronde alla convinzione dell'ex comandante dell'esercito statunitense in Iraq, Riccardo Sanchez, che intendeva far leva sulla «paura che gli arabi hanno dei cani». Ciò che preoccupa di più Dakwar è, però, la procedura di comportamento prevista nel manuale quando ai cancelli di Camp Delta si presenta la Croce Rossa, l'unica organizzazione internazionale autorizzata a visitare i detenuti. Eccola:

- Unrestricted access: i medici possono visitare il prigioniero e porgli domande;

- - Restricted Access: le domande al prigioniero riguardano solamente la sua salute;

- - Visual Access: il detenuto può essere solo osservato;

- - No Access: nessun accesso, vietato qualunque tipo di contatto.


Pubblicato il: 15.11.07
Modificato il: 15.11.07 alle ore 14.15

fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=70618

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sabato 10 novembre 2007

Cristo si è fermato a Capanne

DAL BLOG DI BEPPE GRILLO
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9 Novembre 2007

Capanne.jpg


Le droghe sono vietate ovunque in Italia tranne che in Parlamento. Il cittadino non parlamentare che fa uso di hashish è un delinquente da punire. Aldo Bianzino è stato arrestato per coltivazione di canapa indiana nel suo orto. Era un falegname. Viveva con la famiglia a Pietralunga, sulle colline vicino a Città di Castello. Nel carcere di Capanne è stato pestato a morte. Il medico legale ha riscontrato 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Lascia una moglie e un figlio, aveva 44 anni e non aveva mai fatto male a nessuno. Un fisico esile, capelli biondi come quelli di un altro falegname finito in croce. Aldo è invece finito prima in cella di isolamento e poi al cimitero. E’ stata aperta un’inchiesta per omicidio volontario dal giudice Petrazzini. Il blog seguirà attentamente i prossimi avvenimenti e si recherà a Pietralunga.

La morte di Aldo ha due cause. La prima è la detenzione per chi fa uso di canapa indiana. La seconda l’impunità di chi disonora la divisa e si comporta peggio dei criminali.
La prima ragione è assurda, riempie le carceri di tossicodipendenti e di consumatori occasionali. Giovanardi, compagno di partito di Mele donne-coca-champagne, su questo non è d’accordo, lui vuole quattro anni di carcere per un grammo di hashish (leggi l’intervista).
L’uso di canapa indiana va liberalizzato. Ci sarebbero meno pusher, meno finanziamenti alla criminalità organizzata, non più carceri che scoppiano.
La stessa Cassazione ha ribadito che la mini coltivazione domestica di canapa non costituisce reato se essa “non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale”.

Siamo al ridicolo.
La violenza istituzionale sta diventando un vizio mortale, dopo Aldrovandi, Bolzaneto e Scuola Diaz.

Riporto dal sito Il Pane e le Rose:
“Dunque Aldo è stato sottoposto ad un pestaggio mortale da parte di guardie carcerarie, mentre si trovava in isolamento, probabilmente in conseguenza del fatto di aver dato in escandescenze. Il pestaggio da parte di personale dipendente dal Ministero di Grazia e Giustizia emerge, ancora una volta, essere una pratica corrente all’interno del Carcere per i detenuti che creano problemi. Esso è praticato da personale specializzato che utilizza tecniche professionali finalizzate ad evitare denunce sulla base di superficiali riscontri medico legali. Dobbiamo immaginare nella loro compiutezza formale i dispositivi che stanno dietro questa pratica:
vi sarà un manuale – riservato - dove viene descritta la procedura da seguire nel pestaggio; vi saranno percorsi di formazione con esperti che insegnano la tecnica ed i gesti più opportuni e ne supervisionano la messa a regime, un percorso di training, una valutazione attenta delle attitudini e delle capacità di chi è chiamato ad applicare materialmente, nel lavoro di tutti i giorni, la tecnica..”.
Se quanto riportato fosse vero, suggerisco che il massaggio carcerario sia praticato anche alla popolazione parlamentare che fa uso di droga in aula, in ufficio o negli alberghi della capitale.

Invito tutti a partecipare alla Manifestazione nazionale per Aldo Bianzino a Perugia sabato 10 novembre 2007.


fonte: http://www.beppegrillo.it/2007/11/cristo_si_e_fer.html

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domenica 28 ottobre 2007

Von Wernich: ll diavolo confessore







di Maurizio Clerici


Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare le voci dei sopravissuti alle squadre della morte dei generali P2. Imputato il cappellano militare Christian Von Wernich. Le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo ( se non di pentimento ) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava di quale inferno il sacerdote era stato protagonista.. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del colpevole indifferente, ma Von Wernich insisteva nel rappresentarsi come luogo comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla tortura non avendo segreti da raccontare. Li invitava a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni credente che si inginocchia - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei torturatori.

L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32 casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo è stato il primo repressore a spiegare con quali parole di consolazione Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morire sull’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. “Rassegnati, Dio lo sa”. Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava dagli insetti maligni la nuova società. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non sopportavano l’oppressione armata.

Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale, la Chiesa annuncia procedure che gli statuti vaticani contemplano per decidere il destino di un prete del quale si conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano ? Parole preparate da tempo; poche righe che deludono: “Il Vangelo di Cristo impone a noi discepoli una condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio”. Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich rimpicciolisce nella deviazione personale, pecora nera lontana dall’impegno della comunità ecclesiale.

Ed è vero, ma il silenzio della comunità ecclesiale resta il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti sacerdoti alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata, data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna spiegazione su “omissioni ed azioni” che tormentano il clero argentino, ma anche sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine, e non solo delle americhe. Non hanno saputo affrontare il passato prossimo con la lealtà che obbliga la loro missione. Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67 anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga, Martin Elizaide non ha indicato quanto finirà. A Von Wermich è consentito ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito di esercitare la funzione ministeriale.

Si apre un tempo paradossale. Von Wermich può continuare a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con Dio; potrà distribuire la comunione agli altri torturatori chiusi nella stessa prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo proibirà per sempre o “la contrizione palese per il male commesso” potrà risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa Woytila aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre. Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è tornato a celebrare dopo la lunga punizione. Loro colpa aver accettato un ruolo politico come è successo in altre regioni, anche in Italia. Baget Bozzo (don Gianni per i ragazzi ormai bianchi del ’68) era diventato parlamentare europeo nel nome di Craxi: gli hanno benevolmente imposto la proibizione del predicare in pubblico. Nel privato restava il prete di sempre. Nessuna sanzione radicale.

I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature, dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte? Fedeli ai doveri pastorali o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare? Fino al processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile la Chiesa non ha detto niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari e i vescovi amici dei vescovi militari siano stati all’oscuro. Possibile che i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, si siano limitati ai sussurri? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia l’impegno che impone la fede. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi argentini si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000 chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Alla messa della domenica nella cattedrale castrense di Santiago, vecchi e nuovi militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.

La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che oggi (solo oggi) imbarazzano le coscienze. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei generali “i cui membri appaiono assai bene ispirati”. Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi (cardinale romano) assistono alla cerimonia di insediamento del generale Videla. Laghi è il solo diplomatico straniero presente. Perché? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe scatenate nella repressione: “l’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla nazione… impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare il diritto fin dove si potrà”. Anche Benelli, sostituto Segretario di Stato Vaticano, si dichiara “soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale”. Paolo VI era stanco, malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto.

Anche Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle Madri di piazza di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires tranquillizzava il Vaticano ma le madri alle quali avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per sopravvivere lavorano come perpetue o inservienti in collegi religiosi e parrocchie. Ed è così che Giovanni Paolo II, e non un vescovo argentino, pronuncia per primo la parola “desaparecido”. Tardi, purtroppo: 30 mila morti.

Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino ( Venezuela compreso ) si delineano Chiese che non si capiscono. Tanti preti e qualche vescovo fra le vittime. Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente stradale che la polizia definisce “immaginario”. Due suore francesi violentate, torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. L’essere riconosciuto colpevole non ferma la sua carriera: l’indulto del presidente Menem gli permette la divisa immacolata di capitano di vascello. I vescovi Karlic e Novak non sopportano: precedono il mea culpa ufficiale invocando perdono per il male che la Chiesa “non ha impedito, sopportato e in qualche caso aiutato”.

Il regime cade eppure certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre 1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II. Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera riconosciuti colpevoli dell’uccisione di migliaia persone, ma perdonati e rimessi in libertà dalla legge che “riappacifica il paese”. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace assistita dal vescovo Jorge Casaretto (71 anni, origini genovesi) si preoccupa del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense popolari, bussato alle porte che contano.

Von Wernich appartiene all’altra Chiesa. Il suo ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che hanno trasformato la confessione in un gadget della tortura. “Era difficile”, sospirava qualche anno fa il vescovo Laguna, portavoce della conferenza episcopale, nella sua stanzetta di Morelos. “Difficile restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura”. Difficile, ma non impossibile. Cambiando latitudine ecco la storia del cardinale di Praga Miloslav Vlk. Il socialismo reale avevo imposto l’ateismo trasformando la devozione religiosa in un “sentimento privato”. I preti dovevano lavorare per vivere. Per i credenti una sfida andare a messa mentre mani curiose annotavano i nomi sul registro dei sovversivi. Il giovane prete Miloslav Vlk lavava vetri agli angoli delle strade. Ogni tanto perdeva tempo a discorrere coi passanti. Lo racconta nel libro di Sara Regina (edizione San Paolo: Da lavavetri a cardinale). Chi lo avvicinava voleva confessarsi lontano dagli occhi delle polizie. Col secchio d’acqua in mano, Miloslav Vlk ascoltava e assolveva chiudendo nel cuore le loro parole. Qualcuno dovrebbe mandare il libro a Von Wernich e a chissà quanti cappellani militari dell’altra America (ma non solo). Magari capiranno.

mchierici2@libero.it


Cortesia dell'Unità

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lunedì 15 ottobre 2007

Birmania: Gambari prosegue i colloqui, la giunta gli arresti e le torture



15/10/2007 13:44


L’inviato Onu ha iniziato dalla Thailandia un nuovo tour asiatico, cercando sostegno contro la giunta. Nei giorni scorsi altri arresti e notizie di torture.

I democratici birmani commentano con delusione l’immobilismo mondiale. L’Ue adotta nuove sanzioni con valore soprattutto simbolico.


Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Dalla Thailandia l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari definisce “estremamente inquietanti” le notizie degli arresti di leader studenteschi e democratici effettuati dalla giunta nel fine settimana. Ma la popolazione si sente sempre più sola e disperata, constatando il sostanziale immobilismo della diplomazia mondiale.

Gambari visiterà Thailandia, India, Cina, Malaysia, Indonesia e Giappone cercando sostegno contro la giunta, il cui commercio è per il 90% con questi e altri Paesi della regione ed è proseguito, indifferente alla repressione di queste settimane.

Il 12 ottobre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha infine detto che “deplora con forza” la repressione in corso e ha chiesto alla giunta “un dialogo” con l’opposizione democratica. Ma il leader Thant Shin è comparso alla tv di Stato e ha liquidato la dichiarazione rispondendo che il Paese deve seguire la propria strada per una lenta riforma democratica, da tempo indicata delineata ma con scadenze mai precisate. Ha persino espresso “profondo rammarico che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu abbia rilasciato una dichiarazione contraria ai desideri della popolazione”.

Intanto popolazione e dissidenti esprimono “delusione”. “Cina e Russia – commenta Han Thar Myint, portavoce della Lega nazionale per la democrazia, principale partito d’opposizione - hanno impedito una risoluzione più vincolante per il Myanmar”, mentre proseguono “arresti, detenzioni e torture” dei dimostranti non violenti.

Dalla Thailandia, Aung Htoo del Consiglio dei legali birmani osserva che la giunta ha commesso “crimini contro la popolazione” e che l’Onu “deve adottare azioni concrete verso il Myanmar, se vuole davvero aiutare la popolazione”. Più duro Soe Tun, leader del gruppo Studenti generazione 88, che commenta che la dichiarazione Onu non offre alla popolazione “alcuna protezione legale” contro la violenza dei militari e la gente ha sempre più paura, mentre “dissidenti e monaci sono torturati in carcere e nemmeno la Croce Rossa può visitarli”. Si parla di “violenze sessuali” dei soldati contro le donne arrestate.

Intanto oggi i ministri degli Esteri dell’Unione Europea discutono sanzioni più dure verso la giunta: si attende un divieto di importazioni di metalli, gemme e legno e una dichiarazione di sostegno a Gambari. L’Ue già ha vietato i viaggi e congelato le attività finanziarie verso il Paese. Non sarà vietato però alla compagnia petrolifera francese Total di sfruttare il gas del Paese.

fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10560&size=A

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India, Cina e Asean, gli “amici” del regime birmano

27/09/2007


I crescenti scambi commerciali coi Paesi confinanti, rendono improbabili le sanzioni contro le violenze della giunta birmana. Thailandia, India e Cina, interessati alle riserve di gas naturale, preferiscono generiche esortazioni ad abbassare i toni, per mantenere “la stabilità” della dittatura e del loro traffico.


Roma (AsiaNews) – Mentre l’Onu, gli Usa, l’Unione Europea si affannano a trovare mezzi per fermare l’escalation di violenza nel Myanmar, i Paesi confinanti sono solo preoccupati che i loro rapporti economici con il regime non subiscano troppe scosse. La Cina ha chiesto oggi alle due “parti” , l’esercito e la folla, di abbassare i toni ed evitare di compiere gesti che possono mettere in crisi “la stabilità e il progresso” del Myanmar.

La preoccupazione per la “stabilità”, unico elemento che garantisca “il progresso” economico e gli scambi, è alla base anche degli interventi dell’Asean (Associazione dei Paesi del sud est asiatico) e dell’India.

Da 10 anni il Myanmar è parte dell’Asean, e questo ha permesso alla dittatura di aprire il suo Paese al turismo e al commercio, ricevendo in cambio un trattamento molto tollerante. L’Asean infatti ha sempre preferito un atteggiamento di “non interferenza” negli affari interni dei membri e nel caso del Myanmar ha addirittura coniato l’espressione “impegno costruttivo”. Questo ha permesso ai Paesi membri dell’Asean di mettere mano alle risorse forestali e al gas naturale, di cui è ricco il Myanmar. In cambio, i Paesi dell’Asean hanno revocato ogni appoggio e ospitalità alle ribellioni etniche contro la giunta. La Thailandia in particolare, grazie alla sua tolleranza verso la giunta e l’intolleranza verso i ribelli, ha un volume di affari ai confini col Myanmar pari a 104, 3 miliardi di bath (circa 2,3 miliardi di euro). Il commercio, cresciuto del 5% dallo scorso anno, vede la Thailandia esportare benzina, attrezzature per la pesca, motocicli, materiale da costruzione in cambio di gas naturale.

Le grandi riserve di gas naturale (circa 2500 miliardi di metri cubi), pari all’1,4% delle riserve mondiali, rendono appetibile la compagnia della giunta, al di là della sanguinosa immagine internazionale. Il Paese, oltretutto, manca di capitali e di infrastrutture per l’estrazione e la diffusione. Questo è il motivo fondamentale per cui l’India continua a mantenere uno stretto rapporto con il governo del Myanmar, fin dagli anni ’90, quando la giunta ha soppresso le elezioni vinte dalla leader democratica Aung San Suu Kyi. A tutt’oggi l’India invia tecnici, ingegneri, esperti e ha perfino il 30% delle azioni in diverse pattaforme di estrazione off-shore.

New Delhi progetta da tempo un gasdotto di 950 chilometri attraverso il Bangladesh, ma finora le difficoltà esistenti con Dhaka hanno convinto Yangon a vendere il gas alla Cina. La spesa prevista per il gasdotto è di 1 miliardo di dollari.

Proprio mentre questa settimana andava rafforzandosi la protesta dei monaci e dei civili a Yangon, Murli Deora, ministro indiano del petrolio, ha visitato la ex capitale e la nuova, Naypydaw, per discutere con la giunta militare nuove occasioni di cooperazione e firmare nuovi contratti di esplorazione in mare.

L’India, conosciuta come la più grande democrazia al mondo, ha subito le critiche di molti attivisti anche a Delhi che chiedevano a Murli Deora di sostenere “non il petrolio, ma la democrazia”.

Per accattivarsi la giunta – e per cercare di far concorrenza alla Cina, anch’essa affamata di energia, anch’essa in buonissimi rapporti con la dittatura militare – l’India offre al Myanmar anche armamenti anti-guerriglia.

Un diplomatico indiano, interrogato ieri sulle vie per influenzare la giunta a non compiere un massacro contro la popolazione, ha dichiarato: “Non possiamo interferire negli affari interni del Paese… E poi, ci sono anche nostri interessi nazionali in gioco”.

fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10418&geo=&theme=&size=A

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giovedì 11 ottobre 2007

Birmania: il video dell'orrore

MONACI TORTURATI FATTI SPARIRE NELLA NOTTE

GUARDA IL VIDEO

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IL PUNTO




I monaci rivoluzionari


Da più di un mese in Birmania è in corso una serie di manifestazioni di piazza contro la sciagurata decisione del 15 Agosto scorso da parte della giunta militare al potere di raddoppiare il prezzo della benzina e di quintuplicare il prezzo del gas per uso domestico, facendo così lievitare anche i prezzi delle tariffe dei trasporti pubblici e dei beni di prima necessità, medicinali compresi, e aggravando ovviamente le già disastrose condizioni economiche in cui versa la stragrande maggioranza del popolo birmano.

La giunta non ha dato alcuna motivazione per tale dissennata decisione, ma c’è chi dice che sia un pretesto per alimentare le proteste e quindi procedere a un nuovo giro di vite contro chi si batte per il ripristino della democrazia. E’ purtroppo un fatto assodato da tempo in questa giunta il suo mix micidiale di violenza repressiva e pura idiozia. Oltre a derubare il Paese delle sue risorse naturali (gas, petrolio, legname e pietre preziose) svendendole all’estero per poi importare il prodotto raffinato a prezzi insostenibili a lungo termine, i generali al potere sono pure circondati da uno sciame di indovini che influenzano le loro decisioni che puntualmente si rivelano un disastro per il Paese dal punto di vista economico e sociale.

Già nel 1987 un indovino aveva convinto l’allora leader della giunta Ne Win a dichiarare l’annullamento del valore delle banconote, perché secondo questo idiota le banconote divise in decimali sarebbero state causa di sventure per il Paese. E così da un giorno all’altro milioni di birmani si ritrovarono sul lastrico, visto che non esisteva (e non esiste in pratica neanche oggi) un sistema bancario degno di tal nome e tutti i risparmi erano in contanti e tenuti in casa. Ovviamente non era stata data la possibilità ai birmani di cambiare le vecchie banconote con le nuove che, sempre secondo il consiglio dell’indovino, sarebbero dovute essere suddivise per i multipli di nove. Allucinante. Dopo qualche anno si è però tornati ai decimali.

L’ultimo esempio dell’idiozia dilagante tra i generali al potere è stata la decisione presa un paio di anni fa di spostare la capitale da Rangoon - Yangoon secondo la nuova denominazione decisa dai generali, che hanno anche cambiato il nome del Paese nell’odierno Myanmar - in una località scelta al centro del Paese ma nel bel mezzo della foresta, nel nulla. Tutti i funzionari che lavoravano nei vari ministeri di Rangoon sono stati obbligati a trasferirsi, altrimenti sarebbero finiti in carcere. I lavori per costruire da zero il palazzo del governo, i ministeri, gli uffici amministrativi vari, l’aeroporto e le nuove case per i dipendenti pubblici erano già cominciati anni prima nel silenzio assoluto delle autorità. Nessuno ne sapeva niente.

Il nome scelto per la nuova capitale è Naypyidaw che vuol dire “Il posto dove vivono i re”, altra grande idea del leader della giunta, il 74enne generale Than Shwe. Naturalmente c’è una spiegazione più razionale a tutto ciò: la paura dei generali di subire un’invasione armata straniera. Rangoon è infatti molto più vulnerabile di una roccaforte situata nel cuore della foresta. Ma fin quando i generali avranno le spalle coperte da Cina e India, i loro maggiori sponsor, ciò non si verificherà mai.

Le proteste di questi giorni sono partite dall’iniziativa del Gruppo della 88-Generation Students, formato dagli ormai ex studenti che nel 1988 si sollevarono contro la giunta per il ripristino della democrazia ma furono repressi nel sangue, arrestati e torturati in massa. Già un paio di giorni dopo la prima manifestazione tredici importanti attivisti della 88-Generation sono stati arrestati e spariti nel nulla, ma si segnala almeno un altro centinaio di arresti che si aggiunge al migliaio circa di detenuti politici già in carcere da anni; molti attivisti poi si sono dati alla clandestinità.

Ma agli studenti e agli attivisti politici della NLD - la National League for Democracy, il partito di Aung San Suu Kyi - si sono aggiunti i monaci, che anche negli anni scorsi si erano fatti portabandiera di marce e manifestazioni di protesta contro la giunta.

Nonostante “l’invito” del regime a non unirsi alla protesta, migliaia di monaci sfilano ogni giorno da una pagoda all’altra a Rangoon, Mandalay e in molte altre località della Birmania protetti da un cordone di gente che sempre più numerosa scende in piazza. Marciano con la ciotola del cibo capovolta in segno di rifiuto e disprezzo del regime, soprattutto dopo le sue mancate scuse per le violenze commesse contro alcuni monaci il 6 Settembre a Pakokku in risposta al sequestro di una ventina di soldati tenuti in ostaggio per poche ore dai monaci nel loro monastero e al rogo di qualche auto dell’esercito e polizia nei pressi dello stesso monastero.

Nei giorni scorsi la “Federation of All Burma Young Monks Unions” ha emanato un comunicato esortando il popolo birmano a unirsi coraggiosamente ai monaci e agli studenti nella protesta.

Anche un importante poeta, Aung Way, ha esortato tutti gli artisti e poeti birmani a unirsi alla protesta. Ma se agli studenti, ai monaci, agli intellettuali e a gran parte popolazione si unissero anche i soldati semplici e gli ufficiali di grado inferiore dell’esercito, forse questa volta al regime per sopravvivere non basterà aver ingaggiato le solite squadracce di picchiatori e paramilitari che sono già entrate in azione negli ultimi giorni.

Infatti quasi ogni famiglia birmana ha un proprio membro nell’esercito o nella polizia ma solo la cricca legata ai generali del SPDC - State Peace and Development Council, il nome della giunta al potere - si è veramente arricchita alle spalle del resto del Paese. Per ora non c’è ancora stata la solita brutale reazione sanguinaria del regime e non è ancora stato dichiarato ufficialmente lo stato di emergenza, ma a Rangoon e dintorni sono arrivati molti soldati di rinforzo armati di tutto punto e c’è chi dice che lo stato d’emergenza sia stato dichiarato in segreto nella nuova capitale Naypyidaw per autorizzare le autorità regionali e locali a mantenere sotto controllo le dimostrazioni anche sparando alla folla se necessario. Si dice anche che in qualche ospedale di Rangoon e zone limitrofe sia stato dato l’ordine di mandar via tutti i pazienti.

Non si sa quindi ancora che piega prenderanno gli eventi ma queste proteste, che continuano ogni giorno da più di un mese, rappresentano un fatto molto importante e andrebbero sostenute da tutti i cosiddetti Paesi civili e democratici.

Per esempio sospendendo immediatamente il corso di formazione in diritto umanitario, diritti umani e diritto dei conflitti armati previsto in Ottobre presso l'Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo, con la partecipazione di funzionari del regime birmano; un corso organizzato e finanziato dal nostro Governo in barba al divieto di ospitare nei Paesi UE funzionari della giunta militare con un grado superiore a caporale.

Così, tanto per cominciare in casa nostra.

Enrico Sabatino

fonte: http://www.canisciolti.info/news_dettaglio.php?id=8995
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Birmania: traballa il regime militare

Una protesta di massa mette in pericolo il sanguinario regime



di Alberto Madoglio

Le proteste di massa che da giorni stanno infiammando diverse città di Myanmar (la Birmania), hanno costretto tutti i mezzi d’informazione a interessarsi delle sorti di un Paese del quale fino a poco tempo fa non si erano mai preoccupati.


La nascita della dittatura militare

Alla fine della seconda guerra mondiale è iniziato nel Paese un vasto movimento popolare, diretto dalla Lega delle Persone Antifasciste (un fronte popolare in cui partecipava anche il locale Partito Comunista), il cui principale dirigente era Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, Lnd, conosciuta all’estero come la maggiore esponente dell’opposizione al regime militare e oggi agli arresti domiciliari), che dopo una lotta di due anni ha posto fine alla dominazione inglese.

Aung San è stato assassinato nel 1947. Nel 1962, dopo un lungo periodo di instabilità e di mobilitazione studentesche, vi è stato un golpe militare che ha instaurato una feroce dittatura.
Da allora, la giunta militare al potere, lungi dall’avere intrapreso una sorta di "via birmana al socialismo" (come tutta la stampa borghese vorrebbe farci credere), ha ridotto in miseria e schiavitù cinquanta milioni di cittadini, proibendo partiti politici e sindacati indipendenti.

Oggi il Paese, pur essendo molto ricco di materie prime, specialmente petrolio, gas, legname pregiato e pietre preziose, è uno dei meno sviluppati del sud est asiatico. Il governo destina il 40% del bilancio annuo statale al mantenimento dell’esercito (che con mezzo milione di soldati è uno dei più imponenti al mondo), col risultato che la maggior parte della popolazione di quella che un tempo era soprannominata la “scodella di riso dell’Asia” (per il fatto di essere uno dei maggiori produttori del nutrimento fondamentale per centinaia di milioni di persone del continente), è oggi sottoalimentata.
In questa situazione di cronica miseria, ha preso fuoco la miccia che ha innescato le proteste di questi giorni.

L’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità sul mercato mondiale, che si è verificata nel 2007 (causata dalla speculazione finanziaria e dalla crescita economica di Paesi come Cina e India), ha avuto pesanti conseguenze. L’innalzamento generale dei prezzi, verificatosi a gennaio, è stato affrontato dalla giunta militare con la decisione in agosto di raddoppiare il prezzo della benzina, del gasolio, e di quintuplicare il prezzo del gas naturale.
Così, da un giorno all’altro, un lavoratore che di norma guadagna 1000 kyrat al giorno, si è visto costretto a spenderne 800 per poter usare i mezzi pubblici (come racconta La Repubblica del 27 settembre).


L'inizio delle proteste

Le sporadiche e isolate proteste iniziate a febbraio si sono via via estese, fino ad arrivare alle imponenti manifestazioni che abbiamo visto nei telegiornali e che hanno interessato i maggiori centri del Paese, come l’ex capitale Rangoon (ora ribattezzata Yangon) e Mandalay.
Da quanto si riesce a sapere, tra i manifestanti vi sono molti giovani, studenti, e “lavoratori in generale” (sempre per usare la terminologia della stampa borghese).

Al momento, nelle manifestazioni un ruolo centrale è giocato dai monaci buddisti. Ammonta a circa mezzo milione il numero di religiosi, ed è interessante notare come le differenze di classe attraversino questa organizzazione. Le alte gerarchie che ricevono dai militari lucrosi finanziamenti che permettono loro di avere un’esistenza agiata, sostengono il governo. Sono invece i giovani monaci che partecipano attivamente alle mobilitazioni in quanto colpiti direttamente dagli effetti della crisi economica in atto poiché vivono a più stretto contatto con la maggioranza della popolazione e traggono di che vivere dall’elemosina che questa elargisce loro.
Hanno assunto, col passare dei giorni, posizioni più radicali. Se in un primo tempo gli slogan facevano appello alla riconciliazione nazionale, oggi rivendicano la cacciata dei militari e la fine della dittatura, per mezzo dell’azione di massa (che, aggiungiamo noi, essendo per ora "non violenta", e cioè priva di autodifesa, è per questo facilmente reprimibile).
Diversamente l’Lnd ad oggi avanza una proposta di accordo con i generali, per arrivare ad una “transizione morbida” alla "democrazia" e in questa partita stanno cercando di entrare prepotentemente anche le maggiori potenze mondiali.

Europa e Usa si dimostrano, a parole, i più duri e conseguenti oppositori del regime, mentre Cina, India e Russia al momento ritengono di "non dover interferire" nella politica interna del Paese. La posta in gioco, come sempre, non è fra "democrazia" e "dittatura" (due termini astratti dietro cui si nasconde di tutto), ma per il controllo delle risorse.

I Paesi imperialisti cercano oggi di scalzare Russia, Cina e India da ruolo di partner privilegiati della Birmania; mentre questi ultimi vorrebbero un mantenimento dello status quo che ha permesso loro negli anni di fare investimenti per diversi miliardi di dollari. In particolare è la burocrazia restaurazionista di Pechino ad avere le maggiori mire sul Paese, anche per la posizione strategica che la Birmania ha come porta di nuovi investimenti verso occidente per la Cina.


Dove va la Birmania?

Mentre scriviamo
il finale della lotta in corso non è ancora stato scritto. La repressione ha avuto inizio, ma la protesta non sembra essere diminuita di intensità. Circolano voci per cui alcuni reparti militari si sarebbero rifiutati di partecipare alla repressione, e che al contrario si sarebbero uniti ai manifestanti. Questo dimostra che la posta in gioco è molto alta, e che entrambi gli schieramenti hanno iniziato una lotta che terminerà solo con la sconfitta sostanziale di uno dei due contendenti.

Per evitare un nuovo 1988 (cioè la feroce repressione e una recrudescenza della dittatura che vi fu dopo un altro periodo di lotte contro il regime), ma per evitare anche che della situazione tragga giovamente solo l'imperialismo nel sostenere un rinnovamento del regime o un regime nuovo comunque posto sotto il suo controllo (magari travestito da democrazia parlamentare), è indispensabile che la classe operaia birmana, in alleanza con i contadini poveri, si organizzi in maniera indipendente. Non saranno infatti né il piccolo clero buddista, né la Lnd, né tantomeno l’imperialismo o le nuove potenze emergenti, a farsi paladini delle rivendicazioni della popolazione sfruttata.

Anche stavolta, come sempre quando le masse popolari si mobilitano, anche se inizialmente senza un programma e persino guidate da religiosi, l'imperialismo è allarmato. Ciò che più teme è di non riuscire a controllare le manifestazioni e di perdere il controllo della situazione. Teme appunto che le masse oppresse si organizzino sulla base delle loro esigenze di classe: che sono inconciliabili con gli interessi dell'imperialismo.

Ciò che serve -e manca drammaticamente fino ad ora anche in Birmania- è allora un
partito rivoluzionario basato su un programma transitorio, che si costruisca in queste grandi lotte, che ne organizzi la crescita e l'autodifesa (non mandando masse inermi di fronte ai fucili), che abbia come parole d’ordine la nazionalizzazione senza indennizzo della terra e delle grandi imprese di estrazione di materie prime del Paese, e la creazione di una democrazia basata sui consigli di operai e contadini poveri, capace di dirigere le masse verso una reale vittoria, in una prospettiva socialista.

fonte: informa@alternativacomunista.org

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