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sabato 4 agosto 2007

Ben Jelloun: «L’Occidente ha dimenticato la solidarietà»




Ben Jelloun: «L’Occidente ha dimenticato la solidarietà»


di guido caldiron
9 marzo 2006

La cultura araba, il razzismo francese, la rivolta delle benlieue. Parla lo scrittore nato a Fes, a Parigi da trent’anni, autore di “Mia madre, la mia bambina”, diario degli affetti familiari e del confronto tra civiltà

«Il mondo arabo potrà esistere il giorno in cui sarà unito non dall’irrazionalità religiosa o da passioni oscure, ma da un progetto economico serio, da una moneta unica; unito dall’assenza di frontiere e di visti, dalla libera circolazione dei cittadini e dal libero esercizio della democrazia. Dunque, siamo modesti e lucidi: incominciamo col riconoscere le nostre lacerazioni, i nostri tradimenti, le nostre incompetenze. Prima di accusare gli altri, facciamo pulizia in casa nostra, e cerchiamo di essere degni di coloro che hanno portato la lingua e la cultura arabe all’apogeo delle civiltà». Con un suo breve intervento, intitolato La prigione araba, Tahar Ben Jelloun aveva fatto i conti solo pochi anni fa con quanti fingono di non vedere le dittature e i fondamentalismi che, spesso in nome della stessa “comunità musulmana” o della “nazione araba”, finiscono per opprimere buona parte dei cittadini del mondo arabo. Oggi, con un libro che non potrebbe essere in realtà più intimo e riflessivo, Mia madre, la mia bambina, (Einaudi, pp. 184, euro 16,50). lo scrittore nato in Marocco e considerato da tempo come uno dei maggiori interpreti della narrativa europea, indirizza il proprio giudizio verso l’Occidente e verso quei valori, in particolare la solidarietà, che quest’ultimo avrebbe da tempo messo da parte in nome dell’individualismo più spinto.

Mia madre, la mia bambina è in realtà il diario minuto della malattia della madre dell’autore, Lalla Fatma, colpita dall’Alzheimer. L’omaggio di Ben Jelloun alla donna, la storia commovente della sua fine, i gesti di affetto, di tenerezza, di cura compiuti nei suo confronti, servono però anche a raccontare una storia: quella di una donna coraggiosa rimasta a Tangeri e di un figlio che ha scelto invece di andarsene dal Marocco. Insieme i due rivivono gli anni passati lontano l’uno dall’altra, le esperienze concluse, in particolare dal giovane intellettuale emigrato prima a Londra e quindi a Parigi, e quelle sognate, annunciate come speranze nella casa di famiglia a Fes o a Tangeri. Sul fondo il confronto tra due mondi, due culture, due forme di intendere - sembra suggerirci Tahar Ben Jelloun - perfino gli affetti e le attenzioni più delicate. Quasi una risposta in nome dell’amore e attraverso le carezze agli apologeti dello “scontro di civiltà” provenienti dagli opposti, simmetrici, schieramenti.

Nato a Fes nel 1944, Tahar Ben Jelloun vive a Parigi dal 1971. Autore di romanzi, racconti, poesie e drammi, ha ricevuto il premio Goncourt nel 1987 e nel 1996 il premio Flaiano. Tra le sue opere più note si possono ricordare Creature di sabbia, Le pareti della solitudine, A occhi bassi e Ospitalità francese.


Monsieur Ben Jelloun, in “Mia madre, la mia bambina” lei racconta una storia che non potrebbe essere più intima, eppure si ha l’impressione di avere a che fare con una riflessione profonda sulle sue radici familiari ma anche sul rapporto tra il mondo arabo e l’Europa. Cosa voleva raccontarci insieme all’affetto profondo che ha nutrito per sua madre?

Attraverso la vicenda di mia madre, che è il punto da cui sono partito per questo libro, volevo effettivamente andare più in là e riflettere sul valore della civiltà e le differenze di valori tra l’Occidente e il mondo arabo-musulmano. Penso infatti che se vi è un luogo nel quale alcuni valori fondamentali si sono un po’ perduti, ebbene questo luogo è l’Occidente. Penso ai valori che evoco nella storia di mia madre - anche attraverso il rapporto diretto con lei - vale a dire ai rapporti con gli anziani in una determinata società. Nel mondo africano e in quello arabo la nozione di famiglia, l’idea del rispetto per i genitori e gli anziani è qualcosa di sacro. Qualcosa su cui potrei dire che arriva a fondarsi l’intera società.


Si ha l’impressione che nelle società arabe questa rete informale di relazioni, costruite intorno alla famiglia e agli affetti più intimi, custodisca e garantisca anche spazi di libertà che sono invece spesso negati sul piano pubblico, in termini di diritti della persona. Qual è la situazione reale?

Credo che il rispetto nei confronti dei genitori e degli anziani, insieme alla solidarietà familiare, giochino ancora un ruolo fondamentale in quelle società perché la nozione di “individuo”, così come la conosciamo in Europa, non è ancora molto diffusa. Mi spiego: l’individuo in quanto tale, la sua personalità, il suo carattere soggettivo, non hanno ancora oggi lo stesso peso delle sue origini familiari o della sua appartenenza a questa o quella tribù. In Occidente assistiamo invece al pieno trionfo dell’individualismo, con le sue virtù, certo, ma anche con le sue derive e i suoi rischi. Quando parlo dei rischi di questo modo di pensare, faccio riferimento agli anziani morti durante l’estate del 2003 (vedi articolo che segue il post, n.d.m.), secondo me più a causa della solitudine in cui vivevano che per il caldo torrido che si registrò allora.


Dopo aver scritto “La prigione araba” qualche anno fa, lei ha scelto oggi di misurarsi con quella che considera come una crisi di valori dell’Occidente. Con quale spirito ha affrontato questo tema?

Con uno spirito di tolleranza e di rispetto... La nozione di rispetto ha perso la sua importanza nel mondo occidentale, nel senso che è stata rimpiazzata dall’applicazione delle leggi. Quando oggi qualcuno pronuncia un insulto razzista o aggredisce un anziano in un paese europeo, interviene la legge. Mentre invece nelle società arabe sono nozioni morali come la vergogna o il giudizio critico della comunità a colpire chi compie simili atti. E’ perciò questo spirito di fondo a differenziare maggiormente i due modelli di società.


Oggi si parla molto, e spesso in modo sbagliato, di “Occidente”. Per lei che è nato in un paese arabo come il Marocco, ha scelto di vivere a Parigi e di scrivere della cultura musulmana in francese, che cosa vuol dire questa parola?

Che cosa è per me l’Occidente? Credo di aver preso dall’Europa e dall’Occidente ciò che ha di meglio da offrire, vale a dire parole dal significato importante, se non fondamentale, come libertà, creatività. Questo oltre a gran parte del mio bagaglio culturale. Tutto ciò non mi ha però mai impedito di coltivare anche la critica di quegli aspetti dello stesso mondo occidentale che considero sbagliati. Credo infatti che l’Occidente stia attraversando, in particolare negli ultimi decenni, una profonda crisi di valori. Stiamo assistendo a una sorta di crisi progressiva che passa per la perdita di molti valori che hanno sempre caratterizzato il mondo occidentale. Penso alla Francia, il paese in cui vivo, che è attraversato da una crisi gravissima. Nelle scuole, là dove vengono formati i cittadini del futuro, capita sempre più spesso che gli insegnanti vengano aggrediti fisicamente da alcuni dei loro allievi, ragazzi talvolta poco più che adolescenti. Qualcosa di assolutamente impensabile ad esempio in Marocco. Ecco, mi sembra che un clima del genere segnali una crisi vera, un’assenza di solidarietà tra le generazioni che, in una società dominata dall’egoismo e dall’indifferenza verso gli altri, non annuncia certo nulla di buono. Da questo punto di vista non so se l’Occidente potrà invertire la tendenza, ritrovare i propri valori migliori.


Una ventina di anni fa lei scrisse un libro, recentemente ristampato nel nostro paese, intitolato “Ospitalità francese”, nel quale offriva un quadro davvero fosco del razzismo d’oltralpe. Oggi come le sembra la situazione?

Quando scrissi quel libro mi interessava spiegare come la storia della Francia contenesse diversi elementi, spesso anche contraddittori. Nel senso che il paese dei Diritti dell’uomo ha tenuto a battesimo anche il razzismo. Partendo dal 1894 con l’affaire Dreyfus, che ha fatto da detonatore per la ripresa dell’antisemitismo nel paese, ho seguito la storia di Francia per individuare ogni grumo di razzismo presente in questa società. E questo fino ai giorni nostri. C’è chi pensa che il razzismo possa rappresentare un momento, una fase momentanea della lunga storia di un paese. Mentre invece personalmente ritengo che si tratti di qualcosa che resta incollato addosso a una cultura o a una civiltà, qualcosa della cui esistenza non ci si deve dimenticare mai. Così, anche in modo volutamente brutale o fastidioso, ho scelto di ricordare a tutti che se esistono i francesi che lottano contro il razzismo, esistono però anche coloro che partecipano alla sua creazione, e non solo sul piano simbolico ma con atti concreti. Al punto che oggi in Francia penso si possa parlare apertamente di una banalizzazione del razzismo. Qualcosa di cui la politica sembra spesso non rendersi conto.


In Francia le discriminazioni sembrano avere diversi volti. Cosa ha letto nella recente rivolta delle banlieue?

Il governo e le autorità di Parigi si sono mostrati sorpresi per quanto accaduto nelle banlieue. Non hanno capito davvero lo spirito di questa rivolta che io considero una sorta di richiesta d’aiuto da parte di giovani che, credo sia importante ripeterlo sempre, non sono immigrati, ma cittadini francesi a tutti gli effetti. Dei giovani francesi che non si sentono né amati né considerati dal resto del paese e che bruciando delle macchine sembravano dire “metteteci in condizione di vivere qui in modo normale, da cittadini veri”.

Liberazione, 9 marzo 2006

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Quando l'anziano diventa un peso per la società

di Tahar Ben Jelloun


E' stato detto e ripetuto: la canicola è pericolosa per le persone anziane. Quando si allea con la solitudine diventa assassina. Una società che non ha più amore, o quanto meno rispetto, per quella categoria d'età, è già una società in declino. Le acquisizioni di democrazia e libertà e l'emergere di un'individualità responsabile ed egoista a poco a poco hanno portato, se non alla sua condanna, alla negligenza verso quell'età inutile detta quarta età. In una società mercantile, una persona che non è più redditizia è una persona di troppo. Non si osa dirlo, ma non si fa nulla per manifestarle un pò di considerazione, come qualche gesto gratuito, una presenza, una parola, insomma un'attenzione che gli dia conforto. Non si è ancora raggiunto un livello di cinismo tale da potersi sbarazzare senza scrupolo dei vecchi. Se ne incaricano il clima e la natura. Ma ecco che il progresso della medicina, la prevenzione, il sistema di pensione anticipata, tutto prolunga la vita.
Il problema è che cosa fare di questa vita in più. Non si tratta ora di sapere come occuparla, ma di come trattarla, come vivere con essa, con quali sentimenti e in quali disposizioni d'animo. E' una questione di cultura e di educazione. Dio sa se il mondo arabo e africano sono pieni di problemi, ma se c'è un aspetto su cui non transigono è la considerazione per genitori e nonni, con i quali hanno un legame che sentono sacro e doveroso. L'Islam raccomanda di meritare la benedizione dei genitori, così come anche quella dei professori. Uno hadit (cioè un detto del profeta) afferma addirittura che "il paradiso si trova sotto i piedi delle madri" e una preghiera recita: "che Dio sia misericordioso con chi mi ha insegnato qualcosa".

Vegliare sugli anziani è più che riconoscere un debito nei loro confronti: è dare l'esempio ai bambini. L'esistenza degli ospizi, indipendentemente da quanto possano essere confortevoli, è una realtà che si è imposta con la logica dei vivi: la casa è fatta per la famiglia che vive, non per quella che declina e impiega del tempo a morire. Lo spazio è prezioso, il tempo è contato. L'affettività diventa una memoria piena di buchi. Ricordo il film di Dino Risi "I Nuovi Mostri", in cui Alberto Sordi una domenica porta fuori la madre, le offre un gelato e poi la porta in un ospizio dove lei non ha nessuna voglia di andare. Il figlio indegno abbandona la madre in un moritoio e se ne va fregandosi le mani, dicendo tra sè "e anche questa è fatta!". Fatico a immaginare dei Siciliani o dei Corsi che trattino i loro genitori a quel modo, mentre nei paesi nordici non si sviluppano i legami filiali e si privilegia l'individuo nella sua libertà e anche nella sua solitudine.
Quest'estate le stravaganze del clima hanno tolto il velo posato sulle relazioni familiari. Dimenticate, o quasi, le sofferenze di quelle persone abbandonate al loro naufragio, si partiva per le vacanze leggeri, senza l'ingombro di vecchi e vecchie che necessitano di essere assistiti, aiutati e magari anche un pò amati. Ecco che cosa è successo: 63 corpi hanno aspettato a lungo, nel silenzio più assoluto, che qualcuno, vicino o lontano, andasse a reclamarli e non si è presentato nessuno. Corpi che avevano vissuto, riso, ballato, goduto... Erano già morti da vivi e non lo sapevano.
Il cineasta giapponese Ozu ha raccontato il dramma dell'abbandono in "Viaggio a Tokyo": una coppia parte da Kyoto per andare a trovare i figli che vivono nella capitale. Grossa delusione: i figli non sono più disponibili a trascorre un pò di tempo con i genitori. Quando la madre si ammala e tutti i figli si riuniscono, uno di loro fa un commento terrificante: "spero che non siamo venuti fin qui per niente". Quello era il Giappone degli anni Cinquanta. Oggi la situazione è diffusa. Non c'è posto per i vecchi. Dicono che alcuni, sentendo arrivata la loro ora, preferiscano andare a morire su per le montagne, offrendo in tal modo il loro corpo agli uccelli da preda. Altri sono per la "dolce morte": una pillola in un bicchiere di latte. E' una saggezza che bisogna imparare e fare propia.
Quanto è accaduto quest'estate in Europa non è la conseguenza di un errore politico di destra o di sinistra. E' inutile prendersela con i dirigenti politici.
La responsabilità, quella vera, quella profonda che dobbiamo guardare in faccia, è quella di ogni cittadino, di ogni famiglia che vive nella convinzione che le persone anziane siano un peso per la società e che spetti allo Stato occuparsene. Lo Stato ha fatto quello che ha potuto ma ha dimenticato o non ha saputo parlare della solitudine, la più profonda, la più silenziosa, quella che uccide, quella che un giorno conosceranno i figli di oggi che non avranno saputo essere generosi e solidali con i loro genitori e con i loro nonni.

La Repubblica - venerdì 5 settembre 2003
(traduzione di Elda Volterrani)

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