"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

domenica 5 agosto 2007

Don Milani, no!

Questo post, alquanto ponderoso, sollecita un generoso dibattito, che speriamo avvenga su Solleviamoci. E' vero, ci sono le vacanze estive, siete sempre meno a leggerci (fisiologico) ma speriamo comunque che i pochi, fedelissimi e autolesionisti lettori (si fa per dire) quali siete voi vi mettiate di buzzo buono non solo a leggere ma anche a commentare.
mauro

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di Domenico Savino
11/07/2007

Walter Veltroni


La faccia sarà probabilmente quella di Walter Veltroni, l’anima no: sarà quella di don Milani.
Per forza! Veltroni un’anima non ce l’ha.
E comunque le idee sono poche e ben confuse: siccome adesso fa scuola Sarkozy, che si è affiliato nel governo l’ex socialista Bernard Koucher, per non essere da meno, l’ineffabile Walter vorrebbe nell’esecutivo Gianni Letta, l’eminenza grigia di Berlusconi. (1)
«Se l’accattasse come assessore...», pare sia stato il commento tranchant di un deputato napoletano dell’Unione.
Prove tecniche di Partito Democratico … ovvero rivisitazione da terzo millennio del cattolicesimo in salsa marxista, rimasterizzazione del compromesso storico, riattualizzazione degli equilibri più avanzati, riedizione aggiornata dell’Ulivo.
Così hanno deciso di dargli un’anima: quella di don Lorenzo Milani, appunto.
Per cominciare, insieme a Dario Franceschini, sono andati in pellegrinaggio lassù, nella mitica sede della scuola del priore di Barbiana, dove il sindaco-scrittore, con quel tono sempre sul punto di pronunciare l’aforisma della storia, a metà tra una pubblicità equosolidale della COOP e un verso di Tagore, ha sussurrato: «Il mio viaggio è cominciato da qui».
L’enfasi su Barbiana è il peggior biglietto da visita per un partito della Sinistra che vorrebbe essere nuovo.
Assomiglia ad una cucina Salvarani in laminato plastico del 1963 ed ha lo stesso appeal di Totò diretto da Pasolini: zero assoluto.
I giacobini sono già di per sé una brutta razza, i giacobini cattolicizzanti sono insopportabili.
Dietro il sorriso giovanneo e la solidarietà obbligatoria, ci sono artigli che grondano bontà.
Fuggite finchè siete in tempo.
Sì, perché - si vantano - «i care».
Diceva don Milani: «E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’».
Loro si interessano, si fanno carico di te, della tua vita, dei tuoi pensieri, della tua anima.
Sono generosi: «Il mio problema è il tuo problema» ricorda il donmilaniano Veltroni in visita pastorale a Barbiana.
In realtà il problema sono loro; se ti contagiano è finita.


Il donmilanismo è la malattia infantile del cattocomunismo, l’utopia al potere che si nutre di suggestioni, il populismo teologico, il clericalismo laicista, il messianismo incalzante.
E’ un vortice: non ne esci vivo.
Pazienza che ad apprezzare don Milani gareggino il presidente della Camera Bertinotti nel suo discorso di insediamento o il ministro Fioroni, appena assunto il dicastero della Pubblica Istruzione, ma se anche Berlusconi ha ricordato che «Lettera a una professoressa» è un libro che a suo avviso sarebbe ancora attuale, vuol dire che la situazione è seria (o che Berlusconi in realtà non sapeva di cosa parlava).
I dossettiani di solito vanno pazzi per don Milani.
Il professor Alberto Melloni è uno di loro.
Scrive: «Se fosse vivo avrebbe ancora la tonaca, portata come una divisa antiborghese, e sarebbe di tre anni più vecchio del Papa. Assai diverso dalle belle foto che gli scattò un giovanissimo Oliviero Toscani. Ma lo si riconoscerebbe a orecchio, per l’inconfondibile uso della parola. Una parola infuocata e violenta, esigente, viva di tutti i registri compresi fra l’iperbole sconcia e la deaggettivazione, pensata come un tutto in cui non c’è separazione fra lingua sacra e lingua profana. Una parola colta e radicalmente evangelica, amata come sa farlo un israelita e consegnata con lo zelo del rivoluzionario a chi ne è stato privato». (2)
Quella di Melloni è la risposta piccata ad un tabù infranto.
Già, perché don Milani, con Papa Giovanni, Dossetti, La Pira, Lazzati, Pertini, Berlinguer, Nilde Iotti e altri «santini» del dopoguerra è per tutti i progressisti di questo Paese un’icona sacra:
ci tenevano pure Enrico Mattei, ma ora che Luca Tedesco ha scoperto che era un fascista della prima ora, forse lo ameranno un po’ meno.
In un bell’articolo su Il Corriere (3), Giovanni Belardelli, parlando proprio dello scritto più famoso di don Milani, «Lettera a una professoressa», ha bruciato l’icona: «Quel libro, grazie al suo stesso successo, favorì anche la diffusione di alcune idee deleterie che avrebbero avuto effetti negativi sulla scuola italiana: a cominciare dalla convinzione che bocciare qualcuno costituisse un atto di intollerabile discriminazione sociale, messo in opera da insegnanti che si facevano docili esecutori del volere dei ‘padroni’, interessati ad aumentare la disponibilità di manodopera a buon mercato. […] Fu anche in virtù dell’ enorme suggestione esercitata da ‘Lettera a una professoressa’ che nel nostro sistema di istruzione si accreditò l’idea che la selezione per merito costituisca uno strumento per perpetuare le differenze sociali. Un’idea del tutto errata: solo una scuola capace (anche) di selezionare in base al merito può svolgere la funzione di ridurre le disuguaglianze derivanti dall’ ambiente familiare e sociale di provenienza. Ma tuttavia un’idea che, diventata quasi un luogo comune, è stata all’ origine di misure - come l’ eliminazione degli esami di riparazione e l’ introduzione di crediti formativi di fatto inesigibili - che hanno contribuito alla crisi della scuola. […] Furono proprio alcune di queste idee, invece, che trovarono una diffusione larghissima, diventando una sorta di ariete per distruggere, come allora si diceva, la scuola e il sapere ‘di classe’. Anche per questo, appare davvero fuori luogo che si continui a citare quel libro di quarant’anni fa come fosse portatore di una positiva, e ancora attuale, rivoluzione pedagogica».


Don Lorenzo Milani (1923-1967)


Partorire il Partito Democratico sulla tonaca di Don Milani non un’operazione di archeologia politica, è per un cattolico, o sedicente tale, una follia, una lucida follia.
L’idea che esista un popolo di Sinistra intrinsecamente cristiano che attende solo la proclamazione di un Vangelo depurato dalle scorie sovrastrutturali della «storia» per aprirsi al Mistero del Dio incarnato, che sarebbe stato oscurato dalla struttura clericale alleata dei «padroni», è il precipitato di scarto del più deteriore dossettismo, che presuppone l’esistenza inesistente di un popolo comunista col cuore di Peppone di Guareschi: è una finzione scenica.
L’idea poi che il cattolicesimo democratico potrebbe trovare appagamento nell’inveramento storico di una società «più umana» relegando nella sfera personale della scelta religiosa ogni istanza metafisica è cosa che confonde il regno di Dio con il «mondo a venire» di certo messianismo e riduce al nulla il senso e il mistero dell’Incarnazione.
Credere che bastino - per dirla con Mario Palmaro - poche parole che annacquano il cristianesimo (libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, diritti, fraternità, ambiente, pace, umanità, ambiente, cosmopolitismo, universalismo, antirazzismo…) per potersi dire cristiani, significa non avere imparato la lezione della «storia» e scambiare Gesù Cristo per Voltaire o Diderot.
Pensare poi che il «regno» della libertà, dissoltasi la sanguinaria utopia comunista col crollo del muro del 1989, sia da riscoprire negli «immortali principi» della Rivoluzione francese di due secoli prima e nelle sue licenziose libertà, è cosa che farebbe oltretutto torto all’ethos del vecchio militante comunista di base.
Scambiare le libertà, la democrazia e i diritti per il luogo di sintesi della dialettica tra cristianesimo e comunismo, tra cattolicesimo e modernità è un tradimento doppio e simmetrico che da un lato crocifigge, senza speranza di resurrezione, la «libertà» del cristiano alle libertà del diritto positivo e dall’altro l’idealismo del vecchio militante comunista di base, svelando l’immane inganno della menzogna marxista, ora che è dimostrato come la «libertà dal bisogno» è stata realizzata assai più dall’opulenza della società dei consumi che dalla teoria e prassi della rivoluzione proletaria.

Pensare che questo sia il giudizio che la «ragione della storia» ha espresso in maniera inappellabile significa una sola cosa: ammettere che «non possiamo non dirci hegeliani» e che dunque il mondo migliore è quello della liberaldemocrazia che ha vinto, giacchè in questa logica «ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale».
E la nuova dialettica da cui ripartire verso una sintesi ulteriore sta solo all’interno dell’attuale punto di arrivo della «storia»: liberal o conservatori, democratici o repubblicani.
Chiaro allora che da noi, nella periferia dell’«impero» a stelle e strisce, sia Veltroni il leader naturale del Partito Democratico.
Al Lingotto, nella Sala Gialla, - come ha ricordato Gian Antonio Stella - ha blandito la Chiesa e rivendicato la laicità dello Stato, ha riconosciuto i valori del Family Day e i diritti dei gay, ha parlato della «lotta contro la precarietà» e reso omaggio a Massimo D’Antona e a Marco Biagi, ha esibito suor Giuliana del Cottolengo e fatto tradurre in simultanea il suo discorso per i sordomuti (polically correct: audiolesi). (4)
C’è stato spazio per tutto e per il suo contrario, tenuti insieme col mastice della retorica buonista, con l’uso sapiente delle citazioni ad effetto, col tono tranquillizzante non dell’eversore del sistema, ma del razionalizzatore dello stesso.
Ma lo sfondo era l’America, evocata in un articolo di venti giorni prima sull’Espresso (5), l’America di Roosevelt e del New Deal, quella dello sbarco in Normandia, l’America di Kennedy e di Luther King, del Civil Right Act e della Beat Generation, che oggi trova i suoi interpreti in Barack Obama e Hillary Clinton.
E’ una storia già scritta.
Per dirla con il Guccini dell’album «Amerigo», «Erano ideali alla cogliona fatti coi miti del ‘63, i due Giovanni e pace un po’ alla buona, Ramblas di Barcellona, la prima crisi dura dentro in me...». (6)
E’ l’inganno che possa esistere un’America buona, cui contrapporre l’America cattiva, quasi che la guerra in Vietnam non fosse iniziata sotto i democratici, che la crisi di Cuba non fosse stata innescata sotto la presidenza di Kennedy, che le bombe su Belgrado o i Cruise su Bagdad di Clinton fossero buoni e quelli di Bush padre e figlio cattivi, quasi che la pena di morte sia un delitto e i milioni di aborti no, quasi che i battisti democratici non condividano, seppure in modi diversi, la stessa visione provvidenziale di quella nazione degli evangelici teocon.
L’America è l’America e chi guarda all’America come modello non ha alternative.
Al massimo può oscillare tra le due facce della stessa America: liberal o liberista.
Per non cadere nell’inganno veltroniano, forse i suoi ingenui e idealisti sostenitori dovrebbero un po’ riascoltare Gaber: «Non c’è popolo che sia più giusto degli americani. Anche se sono costretti a fare una guerra, per cause di forza maggiore, s’intende, non la fanno mica perché conviene a loro. Nooo! E’ perché ci sono ancora dei posti dove non c’è né giustizia, né libertà. E loro… Eccola lì… PUM! Te la portano. Sono portatori, gli americani. Sono portatori sani di democrazia. Nel senso che a loro non fa male, però te l’attaccano». (7)


Non crediate che Veltroni sia uno smemorato; è il sistema che genera e seleziona gli uomini, e Veltroni è stato selezionato a dovere.
E’ il software dell’hardware, l’altro perno della hegeliana dialettica della politica e quindi il lucido e coerente prosecutore della linea marxista, perché se il comunismo è crollato, il marxismo (dialettico complemento del liberalismo) è sempre vivo: il marxismo infatti è dinamico, non è stato sconfitto, giacchè la sua essenza non è la teoria economico-sociale (contrariamente a ciò che si pensa) e le sue realizzazioni politiche (inevitabilmente caduche), ma la sua filosofia materialista: il marxismo è l’opposto del candore ideale, è cinico realismo.
Caduto il comunismo, forma contingente e superata, il suo inveramento è oggi ogni progressismo, capace di allargare oltre le libertà primarie del bisogno (raggiunte paradossalmente attraverso il consumismo capitalista) gli altri ambiti del «regno della libertà», nella direzione delle libertà voluttuarie e viziose della post-modernità, per estenderle a tutti: oggi il marxista è solo un liberista impaziente, un liberista di massa, un liberal, appunto.
Il marxista vero, quello metafisico, oggi rinnega il comunismo, il socialismo reale, proprio perché quell’esperienza storica ha già realizzato (questo è il senso di socialismo reale) il compito contingente che gli sarebbe stato assegnato dalla «ragione della storia»: fungere da polo apparentemente antitetico della modernizzazione liberale, verso una sintesi più avanzata.
Ricordate l’elogio della borghesia nel manifesto del partito comunista?
Non c’è contraddizione, compagni che leggete il sito (tanti): Marx oggi sarebbe dialetticamente anticomunista, proprio come Veltroni.
Un sistema comunista, oggi, realizzerebbe rapporti di produzione così arretrati rispetto alle forze di produzione, che un autentico marxista non potrebbe che considerarlo come un sistema reazionario.
Ecco perché ad esempio un «comunista» come Putin è contestato a Mosca dai neo-comunisti alla Vladimir Luxuria.
Egli rappresenta una tipologia di potere che pretende ancora di subordinare le forze di produzione (cioè la sfera produttiva del Paese) ai rapporti di produzione (leggi la sfera politica), ispirati a interessi nazionali e non sottoposti ai poteri globali: il suo «comunismo» è «reazionario» e nazionale; egli non è metafisicamente un marxista.
Non gridate al tradimento, compagni: gli ingenui siete stati voi.
L’anticomunismo del veltroniano Partito Democratico è già iscritto, infatti, nel DNA del vecchio Partito Comunista, in quella che il giovane Veltroni «rivendicava come la necessaria diversità della Rivoluzione italiana da quella di Ottobre». (8)
Scriveva Veltroni nel 1975: «Si esalta nell’originale elaborazione italiana l’affermazione di Lenin secondo la quale la democrazia e il socialismo si saldano fortemente e la rivoluzione democratica apre la strada a quelle socialiste, mentre quella socialista porta a compimento quelle democratiche». (9)


Walter Veltroni quando era responsabile della comunicazione del PCI


Non c’è contraddizione con il Veltroni che nel 1990, quando il PCI lascia il posto al PDS, afferma: «Non è il crollo del ‘socialismo reale’ all’origine della nostra proposta. Da quando, abbattuto il fascismo, i comunisti italiani poterono sviluppare liberamente la loro azione non si sono mai proposti di imitare modelli. Hanno seguito invece una propria via, fondata sull’affermazione del legame inscindibile fra democrazia e socialismo. Noi, quindi, non dobbiamo rinnegare una storia e una tradizione per entrare a far parte di un’altra». (10)
Dal suo punto di vista è vero: il comunismo (e quindi anche il PCI) era solo la crisalide del progressismo.
In fondo - Blair docet - oggi anche la stessa socialdemocrazia classica appare come una forma contingente e superata.
Per questo D’Alema ha già perso: è rimasto ancora almeno un po’ comunista, quindi dialetticamente arretrato.
Veltroni invece aveva capito: «Noi vinceremo solo se saremo più moderni della Destra» affermava spavaldo nel Consiglio nazionale del giugno 1994.
Solo gli ingenui o gli ottusi possono stupirsi che nel 1999 Veltroni affermasse: «Si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così». (11)
Non a caso tra i primi a manifestare il proprio apprezzamento per Walter fu l’incredibile ed ineffabile Gianfranco Fini, il suo omologo a Destra.
Solo chi non comprende ciò, può stupirsi che oggi Veltroni, il marxista metafisico, già cantore del comunismo senza essere stato comunista, canti sull’Espresso l’«America che vorrei» e voglia Gianni Letta nel suo governo.
E’ anche significativo il fatto che il suo sguardo corra così sovente agli anni della beat generation e del ‘68.
Il ‘68, celebrato come rito di liberazione dai vecchi modelli conservatori e repressivi, è stato il vento che ha sparso tra le masse tutti i veleni che la scuola marxiana (ma non essenzialmente comunista) di Francoforte aveva coerentemente elaborato.
Le masse popolari, trattenute fino a quel momento da molti ambiti di «scambio e consumo» per ragioni economiche, ma anche morali, sono divenute oggetto di un processo forzoso di «emancipazione economica ed etica» che le ha rese protagoniste di dinamiche di consumo non solo di beni materiali, ma anche culturali e dello spirito, allontanandole sempre di più dalla propria tradizione culturale e spirituale: così, instradandole verso processi di degrado sociale e morale di cui oggi ne vediamo a pieno gli esiti devastanti, le ha rese fruibili all’omologazione planetaria dei consumi e dei valori: questo è l’unico internazionalismo proletario realizzato.
Siamo stati tutti proletarizzati, cioè volgarizzati.


Oggi, dopo gli «anni bui» del conservatorismo dei «teocon» (non a caso spesso ex-trotzkisti, cioè portatori di quell’idea di rivoluzione permanente, di agitazione continua, tipica di certo spirito semitico cui Trotzkij, come don Milani, apparteneva), anni in realtà molto funzionali dialetticamente ad innescare una nuova prossima antitesi progressista, il nuovo verbo liberal si appresta sempre dialetticamente a spingere un po’ più in avanti l’equilibrio della storia raggiunto a seguito di quella «rivoluzione giovanile» degli anni ‘70.
Che a guidare la nuova crociata contro il «Global warming» sia il vice di Clinton, Al Gore, con il suo «Live Hearth», rinverdendo le utopie degli anni Settanta con il verbo ecologista, non è sospettoso?
Se gli inquinatori globali lanciano una crociata per salvare il pianeta, non sorge il sospetto che in realtà lo scopo sia un altro?
Se la nazione della «guerra globale» diverrà domani quella della «pace universale» non si sente odore di zolfo?
Che da noi, alla periferia dell’«impero», il copione di questa commedia sia affidato a Walter Veltroni, il sindaco-scrittore, terzomondista, pacifista, progressista, ecologista, trasformista stupisce?
Che fine farà Prodi?
Il «cattolico» Prodi ha fatto la sua parte di «utile idiota».
Verrà giubilato in qualche prestigioso e ben remunerato posto di inutile prestigio.
Pensiamo invece ai molti cattolici che si apprestano entusiasti ad entrare in quelle schiere, pensando che il sogno di Dossetti e l’utopia di Don Milani si sono alla fine realizzate.
Penso ai sessantenni sovrappeso, dalle vite spesso spezzate dall’esperienza del ‘68 e che tuttavia si ostinano a ricordare nostalgicamente quegli anni.
Pensiamo ai molti di loro in buona fede, che si emozioneranno alla voce tremula di Walter il «buono», credendo nella sincerità del verbo veltroniano.
L’insipienza e talvolta la malafede dei loro maestri e direttori spirituali li ha imprigionati nelle matrici teologiche del modernismo, impedendo loro di cogliere l’inganno di queste perfide suggestioni e facendo loro credere che il «regno» di Dio si stesse (o si stia) realizzando nella svolta conciliare e nell’apertura al «mondo».
Vorremmo sapere su quale Apocalisse hanno letto che la storia è indirizzata verso un futuro immancabile di pace e fraternità universale, in quale Vangelo hanno letto che il «mondo» sarà pronto ad accogliere il Cristo, a quale filosofia della storia si sono abbeverati per credere che la Provvidenza possa essere surrogata dall’idea di Progresso o che la Parusia lascerà il posto all’autoscienza dell’«umanità».


Vorremmo sapere da quale Rivelazione hanno appreso che la Chiesa avrebbe ritrovato la sua originaria purezza dissolvendosi nell’apostasia.
Nemmeno i drammatici sviluppi di questi ultimi trent’anni di storia hanno loro insegnato nulla: ancora oggi l’«Edipo spirituale» che li incatena alle icone della loro giovinezza, tra le quali sta il priore di Barbiana, impedisce loro di vedere come - di nuovo dopo gli anni Settanta - per quello strano processo di eterogenesi dei fini che accompagna il divenire storico, senza neppure accorgersene, essi stanno indirizzando la storia proprio nella direzione dalla quale dicono di voler fuggire.
Per non ripetere quella tragedia generazionale, mentre si accalcheranno nelle piazze, pateticamente abbracciati ai loro figli adolescenti a sventolare bandiere arcobaleno e ramoscelli d’ulivo e ad assistere al comizio-concerto di Veltroni il buono, forse non sarebbe male riascoltare proprio qualche altra strofa del Guccini di «100, Pennsylvania Ave»:
«E immagino tu e lui, due americani
sicuri e sani, un poco alla John Wayne,
portare avanti i miti kennedyani
e far scuola agli indiani:
amore e ecologia lassù nel Maine.
E là insegnare alla povera gente
per poco o niente, vita quasi pia,
fingendo, o non sapendo proprio niente
di quello che può ancora far la CIA,
santi dell’Occidente per gli USA, e così sia
»…
Contenti loro…

Domenico Savino


Note
1)
La Repubblica, 19 maggio 2007, «Veltroni elogia il modello Sarkozy», di Giovanna Casadio, pagina 18.
2) Il Corriere della Sera, 22 maggio 2007, «Il sovversivo» di Giovanni Belardelli.
3) Il Corriere della Sera, 15 giugno 2007, «Don Milani, profeta del Vangelo e non del ‘68», di Alberto Melloni, pagina 55.
4) Il Corriere della Sera, 29 giugno 2007, «Il nuovo puzzle delle citazioni», di Gian Antonio Stella.
5) L’Espresso, 8 giugno 2007, «L’America che vorrei» di Walter Veltroni.
6) «100 Pennsylvania Ave», Francesco Guccini, tratta dall’album «Amerigo».
7) «L’America» Giorgio Gaber, tratta dall’album «Libertà obbligatoria».
8) Walter Veltroni, «I giovani, la libertà, il socialismo» in «Roma Giovani», numero 4/5, maggio 1975.
9) Walter Veltroni, «I giovani, la libertà, il socialismo» in «Roma Giovani», numero 4/5, maggio 1975.
10) Walter Veltroni in 20° Congresso del PCI, «Mozioni, documenti, regolamento», Fratelli Spada, Roma 1990, pagina 3.
11) La Stampa, 16 ottobre 1999, «Incompatibili comunismo e libertà» di Walter Veltroni.


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fonte: http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2136&parametro=%20politica

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1 commento:

Anonimo ha detto...

Condivido il fatto che Veltroni e Franceschini abbiano piegato al proprio interesse, alla propria campagna elettorale la figura di don Milani. Un'operazione da vandali di un pezzo di storia. Don Milani è sempre stato identificato come un campione della sinistra, ma in realtà, come ha detto la sorella, i suoi insegnamenti non avevano colore politico. Perché poi allora è un campione di snistra erroneamente? Sai, come accade anche oggi, chi "si ribella" alla Chiesa, in toto o in parte, diventa sempre uno strumento di lotta politica indipendentemente da ciò che chi si è "ribellato" ha voluto dire. Non condivido ciò che è stato detto sui suoi insegnamenti. Semplicemente don Milani ha introdotto quello che oggi si chiama recupero scolastico. Si seleziona, ed è giusto farlo, ma chi non va avanti non deve nemmeno essere lasciato a sè stesso.
E non condivido sui dossettiani. Relegare Dossetti al compromesso storico è minimalismo storico-culturale. Dossetti aveva una concezione filosofica e spirituale del popolo di Dio, dei partiti di massa (che allora erano Dc e Pci). Quello che è avvenuto dopo (il compromesso storico), sarebbe forse avvenuto anche senza Dossetti, giacché la caduta del comunismo era un fatto che sarebbe successo comunque, con Dossetti o meno. Dossetti era diccino, non cattocomunista.