"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci
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martedì 15 gennaio 2008

Suoni della Memoria: l’Evento


In preparazione al 18 marzo 2008, trent’anni dall’omicidio di Fausto e Iaio...


20 gennaio 2008
Milano (MI)
Leoncavallo S.p.A
Via Watteau 7

In occasione della giornata mondiale della memoria, anche quest'anno il Leoncavallo, in collaborazione con Daniele Biacchessi, organizza un'iniziativa che intende intrecciare i fili delle diverse memorie soggettive di cui si compone la storia del nostro Paese. L'evento intende offrire alla città un percorso che, idealmente, cammina sulle orme lasciate dalle molte storie interrotte, ma ancora vive, che costituiscono la memoria dei movimenti sociali.

Verità è giustizia.

Fare luce su verità non dette, squarciando l'oblìo e il silenzio che le circonda è anche fare un po' di giustizia, lo sapevano i martiri della shoah e i desaparecidos, lo cantarono i partigiani della prima e della seconda resistenza, lo chiedono fino ai giorni nostri tutte vittime innocenti delle bombe nelle banche e sui vagoni, dei proiettili vaganti e delle aggressioni squadriste.

Esiste un filo rosso che unisce la memoria delle vittime in tempo di pace, siano queste cadute per mano del terrorismo o della mafia, morti bianche sul posto di lavoro o la strage quotidiana dei naufraghi nei mari del sud. L'ingiustizia.

Il caso milanese di Fausto e Jaio che segna la storia e la pelle del Leoncavallo, testimone della saldatura più feroce tra apparati dei servizi segreti deviati, bande criminali e frange dell'eversione nera, rende la scelta del luogo significante e non solo simbolico. Un luogo che rappresenta un monumento, un pezzo di storia ed un polmone di rigenerazione sociale per la città, uno spazio sociale ancora, da trentun anni, sotto minaccia di sfratto.

L'evento intende creare nuovi legami sociali e nuove connessioni tra i fili slegati delle tante memorie, offrendo contenuti vivi e documenti veri di una storia troppo presto cancellata dalle pagine dei giornali, non scritta sui libri di scuola ma spesso rifugiatasi, come in esilio, nella poesia. Ci riuniremo quindi, ancora una volta, per dire e per fare, in uno spazio Pubblico autogestito, un dibattito, una cena sociale, musica e un reading di teatro civile.


Programma:

Dibattito: Introduce Elena Hileg Iannuzzi (Leoncavallo S.p.A.), Giovanni Impastato (Archivio Peppino Impastato), Lorenzo Frigerio (Associazione Libera), Francesco Barilli (Reti Invisibili).

Video: anteprima del videoclip "Fausto e Jaio, trent'anni dopo" e di Bruno Capuana, "12 dicembre 1969""O sistema" di Ruben Oliva, "La mattanza" di Carlo Lucarelli.

Cena sociale: pastasciutta antimafia con menù a base di prodotti tipici delle cooperative che lavorano le terre confiscate alle organizzazione mafiose.

Reading: Giulio Cavalli "Re Carlo torna dalla battaglia di Poitiers", Trio Liguori e Fusiello accompagnano Daniele Biacchessi in "I ventitré giorni di Alba" di Beppe Fenoglio; Bebo Storti recita liberamente da "Mai Morti", Gianni Biondillo legge Pier Paolo Pasolini.

Chiude la serata la lettura in anteprima di alcuni stralci dal nuovo libro su Fausto e Jaio, in uscita per il trentennale.



Grazie per la segnalazione all'impagabile Baro!


lunedì 14 gennaio 2008

23 gennaio: ricordando Roberto Franceschi











COMPAGNO FRANCESCHI

Era un compagno, era un combattente
per il Socialismo e per la Libertà:
per questo il governo un plotone mandò
e un sicario alle spalle sparò.

ma mentre ancora la Celere aggrediva
l’abbiam giurato giustizia sarà
dal popolo intero senza pietà
ed un canto si leva già

Compagno Franceschi sarai vendicato
dalla giustizia del proletariato
nel cuore nel canto di chi lotterà
il Compagno Franceschi vivrà

Più di vent’anni di dittatura
sotto il governo della DC
e ancora dobbiamo vivere
senza lavoro ne libertà

la nostra lotta avanza sicura
il Fronte Unito trionferà
il Governo degli assassini sa già
che nessuno ci può fermar

Compagno Franceschi sarai vendicato
dalla giustizia del proletariato
nel cuore nel canto di chi lotterà
il Compagno Franceschi vivrà.

Movimento Studentesco Milanese




La storia di Roberto ed ulteriori approfondimenti sono qui:

http://www.reti-invisibili.net/robertofranceschi/

grazie a "Baro"


domenica 16 dicembre 2007

16 dicembre 1969

Per non dimenticare... e perché la verità non sia "revisionata"



...

mercoledì 12 dicembre 2007

12 dicembre da ricordare





12 dicembre 1969: strage di Piazza Fontana a Milano




12 dicembre 1985: Graziella Campagna uccisa dalla mafia


aspettiamo ancora Verità e Giustizia...


mercoledì 24 ottobre 2007

Rivoluzione d'Ottobre. Un documento storico




Per il quarto anniversario della rivoluzione d'Ottobre
Lenin (1921)

scritto il 14 ottobre 1921
pubblicato per la prima volta nella Pravda, n. 234, 18 ottobre 1921
Trascritto da Marxio, 30 gennaio 2004
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Si avvicina il quarto anniversario del 25 ottobre (7 novembre).

Quanto più ci allontaniamo da questo grande giorno, tanto più chiaro diviene il significato della rivoluzione proletaria in Russia, e tanto più profondamente riflettiamo anche sull'esperienza pratica del nostro lavoro, considerato nel suo complesso.

In uno schizzo brevissimo — e lungi, naturalmente, dall'esser completo e preciso — questo significato e questa esperienza potrebbero essere tratteggiati nel modo seguente.

Il compito più diretto e immediato della rivoluzione in Russia era un compito borghese democratico: eliminare i residui del medioevo, spazzarli via completamente, epurare la Russia da questa barbarie, da questa vergogna, da questo ostacolo grandissimo a ogni cultura e a ogni progresso del nostro paese.

E noi abbiamo il diritto d'esser fieri di aver compiuto questa epurazione molto più recisamente, rapidamente, arditamente, vittoriosamente, ampiamente e profondamente, dal punto di vista delle ripercussioni sulle masse del popolo, sulle folle, di quanto non avesse fatto la Grande Rivoluzione francese più di centoventicinque anni fa.

Gli anarchici e i democratici piccolo-borghesi (cioè i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, rappresentanti russi di questo tipo sociale internazionale) hanno detto e dicono innumerevoli sciocchezze sulla questione dei rapporti fra la rivoluzione borghese democratica e la rivoluzione socialista (cioè proletaria). La giustezza della nostra concezione del marxismo su questo punto e il conto che facciamo dell'esperienza delle rivoluzioni precedenti son stati pienamente confermati durante quattro anni. Noi abbiamo condotto la rivoluzione borghese democratica sino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza ed inflessibilità verso la rivoluzione socialista, sapendo che essa non è separata da una muraglia cinese dalla rivoluzione democratica borghese, sapendo che soltanto la lotta deciderà in quale misura (in fin dei conti) riusciremo ad avanzare, quale parte del compito incomparabilmente elevato noi adempiremo, quale parte delle nostre vittorie consolideremo. Chi vivrà vedrà. Ma noi vediamo fin d'ora che si è fatto un lavoro enorme, gigantesco — in un paese devastato, esaurito, arretrato — per la causa della trasformazione socialista della società.

Concludiamo, tuttavia, sul contenuto democratico borghese della nostra rivoluzione. I marxisti devono comprendere che cosa significa questo. Prendiamo, a chiarimento, degli esempi evidenti.

Dire che la rivoluzione ha un contenuto democratico borghese significa che i rapporti sociali (il regime, le istituzioni) del paese si sono epurati da tutto ciò che è medioevale, dalla servitù della gleba, dal feudalesimo.

Quali erano nel 1917, in Russia, le principali manifestazioni, le principali sopravvivenze, i principali residui della servitù della gleba? La monarchia, la divisione in caste, la proprietà fondiaria, la condizione della donna, la religione, l'oppressione nazionale. Prendete una qualunque di queste «stalle di Augia» — che, tra parentesi, sono state lasciate in condizioni di notevole sporcizia in tutti gli Stati più progrediti dopo il compimento della loro rivoluzione democratica borghese centoventicinque, duecentocinquanta e più anni fa (1649 in Inghilterra) —, prendete una qualunque di queste stalle di Augia e vedrete che noi le abbiamo ripulite completamente. In poco più di dieci settimane — dal 25 ottobre 1917, allo scioglimento dell'Assemblea costituente (5 gennaio 1918) — abbiamo fatto in questo campo mille volte più dei democratici e liberali borghesi (cadetti) e dei democratici piccolo-borghesi (menscevichi e socialisti-rivoluzionari) negli otto mesi del loro potere.

Questi vili, questi chiacchieroni, questi Narcisi innamorati di se stessi, queste figure amletiche, minacciavano con spade di cartone e non hanno neppure distrutto la monarchia! Noi abbiamo spazzato via tutto il luridume monarchico come nessun altro aveva mai fatto. Noi non abbiamo lasciato pietra su pietra, mattone su mattone dell'edificio secolare delle caste (i paesi più avanzati come l'Inghilterra, la Francia, la Germania non si sono ancora sbarazzati fino ad oggi dei resti del regime di casta!). Le radici più profonde del regime di casta, e precisamente i resti del feudalesimo e di servaggio nella proprietà fondiaria, sono state divelte completamente da noi. «Si può discutere» (vi sono all'estero abbastanza letterati, cadetti, menscevichi e socialisti-rivoluzionari che s'interessano a queste discussioni) su che cosa, «in fin dei conti», verrà fuori dalle trasformazioni agrarie della grande rivoluzione d'Ottobre. Per il momento non abbiamo nessun desiderio di sprecare il tempo in queste discussioni, giacché con la lotta, noi decidiamo le controversie e tutte le relative polemiche. Ma non si può contestare il fatto che, per otto mesi, i democratici piccolo-borghesi «si sono conciliati» con i grandi proprietari fondiari, i quali conservavano le tradizioni della servitù della gleba, e che noi, in qualche settimana, abbiamo completamente cancellato dalla faccia della terra russa e questi grandi proprietari fondiari e tutte le loro tradizioni.

Prendete la religione o le condizioni della donna, priva di ogni diritto, oppure l'oppressione e l'ineguaglianza giuridica delle nazioni non russe. Questi sono tutti problemi della rivoluzione democratica borghese. I sapientoni della democrazia piccolo-borghese ne hanno chiacchierato per otto mesi. In neppure uno dei paesi più avanzati del mondo questi problemi sono stati risolti interamente in senso democratico borghese. Da noi sono risolti completamente dalla legislazione della rivoluzione di Ottobre. Noi abbiamo lottato e lottiamo seriamente contro la religione. Noi abbiamo dato a tutte le nazionalità non russe le loro proprie repubbliche o regioni autonome. Da noi, in Russia, non esiste quell'ignominia, quell'obbrobrio, quella viltà che è la negazione totale o parziale dei diritti alle donne, indegna sopravvivenza della servitù della gleba e del medioevo, rinvigorita dalla cupida borghesia e dalla piccola borghesia imbecille e timorosa, in tutti, senza eccezione, i paesi del globo terrestre.

Tutto ciò è il contenuto della rivoluzione democratica borghese. Centocinquanta o duecentocinquant’anni fa, i capi più avanzati di tale rivoluzione (di tali rivoluzioni, se si vuoi parlare di ogni forma nazionale di un unico tipo generale) hanno promesso ai popoli di liberare l'umanità dai privilegi medioevali, dall'ineguaglianza della donna, dai vantaggi concessi dallo Stato a questa o a quella religione (o all'«idea religiosa», alla « religiosità» in generale), dall'ineguaglianza delle nazioni. Hanno promesso, ma non hanno mantenuto. Non hanno potuto mantenere perché sono stati ostacolati dal «rispetto» per la «sacra proprietà privata». Nella nostra rivoluzione proletaria questo maledetto «rispetto» per questo medioevo tre volte maledetto e per questa «sacra proprietà privata» non c'è stato.

Ma, al fine di consolidare per i popoli della Russia le conquiste della rivoluzione democratica borghese, noi dovevamo spingerci oltre e ci siamo spinti oltre. Abbiamo risolto i problemi della rivoluzione democratica borghese cammin facendo, come un «prodotto accessorio» del nostro lavoro vero ed essenziale, del nostro lavoro proletario-rivoluzionario, socialista. Le riforme — abbiamo sempre detto — sono un prodotto accessorio della lotta rivoluzionaria di classe. Le trasformazioni democratiche borghesi — abbiamo detto e dimostrato con i fatti — sono un prodotto accessorio della rivoluzione proletaria, cioè socialista. D'altronde, tutti i Kautsky, Hilferding, Martov, Cernov, Hillquit, Longuet [Jean], MacDonald, Turati e gli altri eroi del marxismo «due e mezzo» [1] non hanno saputo comprendere tale nesso tra rivoluzione democratica borghese e rivoluzione proletaria socialista. La prima si trasforma nella seconda. La seconda risolve cammin facendo i problemi della prima. La seconda consolida l'opera della prima. La lotta e soltanto la lotta decide sino a qual punto la seconda riesce nel suo sviluppo a superare la prima.

Il regime sovietico è appunto una delle conferme o manifestazioni evidenti di questa trasformazione di una rivoluzione nell'altra. Il regime sovietico significa massima democrazia per gli operai e i contadini e, al tempo stesso, rottura con la democrazia borghese e comparsa di un nuovo tipo di democrazia di importanza storica mondiale, e precisamente della democrazia proletaria o dittatura del proletariato.

I cani e i porci della borghesia moribonda e della democrazia piccolo-borghese che si trascina al suo seguito, ci coprano pure di un cumulo di maledizioni, di ingiurie, di beffe per i nostri insuccessi ed i nostri errori nell'organizzazione del nostro regime sovietico. Noi non dimentichiamo, neanche per un minuto, che abbiamo effettivamente subito e subiamo molti scacchi, abbiamo commesso e commettiamo tuttora molti errori. Come se si potessero evitare gli scacchi e gli errori in un'epoca nuova, nuova per tutta la storia del mondo, qual è la creazione di un tipo di struttura statale che non ha esempi! Noi lotteremo inflessibilmente per rimediare ai nostri scacchi e ai nostri errori, per migliorare l'applicazione, ancora ben lontana dall'essere perfetta, dei principi sovietici. Ma abbiamo il diritto di esser fieri — e siamo fieri — che ci sia toccata la fortuna di incominciare la costruzione dello Stato sovietico, d'iniziare perciò una nuova epoca della storia mondiale, l'epoca del dominio di una nuova classe, oppressa in tutti i paesi capitalisti e che dappertutto marcia verso una vita nuova, verso la vittoria sulla borghesia, verso la dittatura del proletariato, verso la liberazione dell'umanità dal giogo del capitale, dalle guerre imperialiste.

II problema delle guerre imperialiste, di quella politica internazionale del capitale finanziario che oggi predomina in tutto il mondo, che fa nascere inevitabilmente delle nuove guerre imperialiste e che genera inevitabilmente un rafforzamento inaudito dell'oppressione nazionale, del saccheggio, del brigantaggio, del soffocamento delle piccole nazioni deboli, arretrate per opera di un pugno di potenze «più avanzate», questo problema è stato, fin dal 1914, il problema fondamentale di tutta la politica di tutti i paesi del mondo. È questa una questione di vita o di morte per decine di milioni di uomini. La questione sta in questi termini: nella prossima guerra imperialista — che la borghesia prepara sotto i nostri occhi, che sorge dal capitalismo sotto i nostri occhi — si massacreranno 20 milioni di uomini (invece di 10 milioni uccisi nella guerra del 1914-1918 e nelle «piccole» guerre complementari, non ancora finite); saranno mutilati — in questa prossima guerra, inevitabile (se si manterrà il capitalismo) — 60 milioni di uomini (invece di 30 milioni mutilati nel 1914-1918)? Anche in questa questione, la nostra rivoluzione di Ottobre ha iniziato una nuova epoca nella storia mondiale. I servitori della borghesia e i loro portavoce (i socialisti-rivoluzionari, i menscevichi e tutta la democrazia piccolo-borghese, sedicente «socialista», di tutto il mondo) schernivano la parola d'ordine della «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile». Ma questa parola d'ordine è risultata l'unica verità, sgradevole, brutale, nuda, crudele — questo è giusto — ma una verità fra le miriadi degli inganni sciovinisti e pacifisti più raffinati. Questi inganni si dissipano. La pace di Brest è smascherata. Ogni giorno, inesorabilmente, si smascherano sempre più la portata e le conseguenze della pace di Versailles, peggiore ancora di quella di Brest. E sempre più chiara, sempre più precisa, sempre più ineluttabile davanti a milioni e milioni di uomini che meditano sulle cause della guerra di ieri e della incombente guerra futura sorge la terribile verità: non ci si può liberare dalla guerra imperialista e dalla pace (e dal mondo) [2] imperialista che inevitabilmente essa genera, non ci si può strappare a quest'inferno se non con la lotta bolscevica e la rivoluzione bolscevica.

Qui la borghesia e i pacifisti, i generali e i piccoli borghesi, i capitalisti e i filistei, tutti i cristiani credenti e tutti i paladini della II Internazionale e della Internazionale due e mezzo insultino pure furiosamente questa rivoluzione. Con tutto il loro torrente di malvagità, di calunnie e di menzogne essi non oscureranno il fatto d'importanza storica mondiale che, per la prima volta dopo centinaia e migliaia di anni, gli schiavi hanno risposto alla guerra tra i padroni di schiavi con l'aperta proclamazione della parola d'ordine: trasformiamo questa guerra tra schiavisti per la ripartizione del loro bottino in una guerra degli schiavi di tutte le nazioni contro gli schiavisti di tutte le nazioni!

Per la prima volta dopo centinaia e migliaia di anni questa parola d'ordine si è trasformata, da confusa e impotente aspettazione, in un programma politico chiaro e preciso, in una lotta attiva di milioni di oppressi sotto la guida del proletariato, in una prima vittoria del proletariato, in una prima vittoria della causa della soppressione delle guerre, in una prima vittoria della causa dell'unione degli operai di tutti i paesi contro l'unione della borghesia delle diverse nazioni, di quella borghesia che fa la guerra e conclude la pace a spese degli schiavi del capitale, a spese degli operai salariati, a spese dei contadini, a spese dei lavoratori.

Questa prima vittoria non è ancora una vittoria definitiva ed è stata ottenuta dalla nostra rivoluzione di Ottobre attraverso ostacoli e difficoltà senza uguali, sofferenze inaudite, attraverso una serie di insuccessi e di errori grandissimi da parte nostra. Come se, da solo, un popolo arretrato avesse potuto vincere senza insuccessi e senza errori le guerre imperialiste dei paesi più potenti e più avanzati del mondo! Noi non abbiamo paura di riconoscere i nostri errori e li esaminiamo spassionatamente per imparare a correggerli. Ma il fatto rimane: per la prima volta, dopo centinaia e migliaia di anni, la promessa di «rispondere» alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti è stata mantenuta fino in fondo... ed è stata mantenuta malgrado tutte le difficoltà.

Noi abbiamo cominciato quest'opera. Quando, entro che termine precisamente, i proletari la condurranno a termine? Ed a quale nazione apparterranno coloro che la condurranno a termine? Non è questa la questione essenziale. È essenziale il fatto che il ghiaccio è rotto, la via è aperta, la strada è segnata.

Continuate pure le vostre ipocrisie, signori capitalisti di tutti i paesi, che «difendete la patria» giapponese contro quella americana, l'americana contro la giapponese, la francese contro l'inglese, ecc! E voi, signori paladini della II Internazionale e della Internazionale due e mezzo, insieme con tutti i piccoli borghesi pacifisti e tutti i filistei del mondo, continuate pure a «eludere» la questione dei mezzi di lotta contro le guerre imperialiste con dei nuovi « manifesti di Basilea» (sul modello del Manifesto di Basilea del 1912). Alla guerra imperialista, alla pace imperialista, la prima rivoluzione bolscevica ha strappato i primi cento milioni di uomini. Le rivoluzioni successive strapperanno a simili guerre ed a simili paci l'umanità intera.

E l'ultima nostra opera — la più importante, la più difficile, la più incompiuta — è l'organizzazione economica, la costruzione di una base economica per il nuovo edificio socialista che sostituisce quello vecchio e feudale distrutto, e quello capitalista semidistrutto. In questa opera, che è la più difficile e la più importante, abbiamo, più che in ogni altra, subito insuccessi e commesso errori. Come se si potesse incominciare senza insuccessi e senza errori un'opera simile, nuova al mondo! Ma noi l'abbiamo iniziata. Noi la continuiamo. Noi correggiamo appunto ora, con la nostra «nuova politica economica», tutta una serie di errori da noi commessi, noi impariamo come si deve proseguire nella costruzione dell'edificio socialista, in un paese di piccoli contadini, senza cadere in questi errori.

Le difficoltà sono immense. Noi siamo abituati a lottare contro difficoltà immense. Non per nulla i nostri nemici ci hanno soprannominati uomini «granitici» e rappresentanti di una «politica che spezza le ossa». Ma noi abbiamo imparato anche, per lo meno sino a un certo punto, un'altra arte, necessaria nella rivoluzione, la flessibilità, la capacità di cambiare rapidamente e bruscamente la nostra tattica, di tenere in considerazione i mutamenti delle condizioni obiettive, di scegliere una nuova via verso il nostro scopo se quella di prima si è dimostrata inapplicabile, impossibile per un determinato periodo di tempo.

Trasportati dall'ondata dell'entusiasmo e avendo risvegliato l'entusiasmo popolare — prima genericamente politico e poi militare — noi contavamo di adempiere direttamente sulla base di questo entusiasmo anche i compiti economici non meno grandi di quelli politici e di quelli militari. Noi contavamo — o forse, più esattamente, ci proponevamo, senza aver fatto un calcolo sufficiente — di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare — con un lavoro di una lunga serie d'anni — il passaggio al comunismo. Non direttamente sull'entusiasmo, ma con l'aiuto dell'entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull'interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo. Questo ci ha detto la vita. Questo ci ha detto la marcia obiettiva dello sviluppo della rivoluzione.

E noi, che in tre o quattro anni abbiamo imparato un poco a compiere svolte repentine (quando sono necessarie), abbiamo cominciato, con zelo, con attenzione, con perseveranza (benché non ancora con abbastanza zelo, attenzione, perseveranza) a studiare la nuova svolta della «nuova politica economica». Lo Stato proletario deve diventare un «padrone» cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all'ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. Oggi, nelle condizioni attuali, accanto all'occidente capitalista (ancora capitalista per il momento), non c'è altro mezzo per passare al comunismo. Un commerciante all'ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo e la terra. Ma questa è appunto una delle contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato, conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L'interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell'aumento della produzione, innanzi tutto e a qualunque costo. Il commercio all'ingrosso unisce economicamente milioni di piccoli contadini, in quanto li interessa, li collega, li spinge a gradini economici superiori, a diverse forme di collegamento e di associazione nella produzione stessa. Noi abbiamo già cominciato la necessaria riorganizzazione della nostra politica economica.,In questo campo registriamo già alcuni successi, non grandi, è vero, parziali, ma indubbiamente dei successi. Noi siamo già alla fine del corso preparatorio in questo campo della nuova «scienza». Con uno studio tenace e perseverante, verificando praticamente l'esperienza di ogni nostro passo, non temendo di rifare più volte ciò che si è incominciato, correggendo i nostri errori, considerandone attentamente il significato, noi passeremo anche nelle classi successive. Noi seguiremo tutto il «corso», quantunque le circostanze della economia e della politica mondiale lo abbiano reso molto più lungo e difficile di quanto non avremmo voluto. Per quanto siano dure le sofferenze del periodo transitorio, le calamità, la fame, lo sfacelo, noi non ci perderemo d'animo e, ad ogni costo, condurremo la nostra causa a una fine vittoriosa.

14 ottobre 1921
Note
1. Riferimento alla cosiddetta Internazionale due e mezzo.
2. In russo la parola mir significa pace e mondo (con la vecchia ortografia era però scritta diversamente a seconda del significato). Lenin dice testualmente: «Se avessimo ancora la vecchia ortografia, scriverei qui due volte la parola mir nei suoi due significati».


fonte: http://www.marxists.org/italiano/lenin/1921/10/14-anniversario.htm


...

lunedì 8 ottobre 2007

Il Che moriva..



9 ottobre 1967
La morte del Che

Verso le sette e mezzo di sera, Ernesto Guevara entrò per la seconda volta in vita sua, questa volta sconfitto, nel villaggio di La Higuera, un misero agglomerato di non più di trenta case di mattoni e cinquecento abitanti, che doveva il proprio nome al fatto che un tempo vi abbondavano i fichi, ormai scomparsi; un villaggio isolato, a cui si accede soltanto per una mulattiera non carreggiabile. La Higuera, un luogo in cui, secondo la credenza contadina, solo le pietre sono eterne.

Fuori dal paese si sono raggruppati alcuni abitanti intimoriti. Una donna anziana, vent'anni dopo, racconterà che vide passare il Che al centro di una processione davanti a casa sua a La Híguera, e che poi se lo portarono via in cielo... con un elicottero, dirà alla fine, quasi accettando la spiegazione che le hanno dato tante volte e che le sembra inconciliabile col fatto che se ne andò via in cielo.

Lo stanno aspettando il maggiore dei ranger Ayoroa e il colonnello Selich, arrivato in elicottero. I prigionieri e i morti della guerriglia sono condotti alla scuola, un edificio di mattoni crudi e tegole di altezza irregolare, con soli due locali separati da un tramezzo a cui si accede direttamente dall'esterno, pareti scrostate e porte di legno fuori squadra abbondano nella costruzione di mattoni e calce. In uno dei locali rinchiudono Simón con i cadaveri di Olo e René, nell'altro il Che, a cui danno un'aspirina per alleviare il dolore della ferita.

Il Cinese, Juan Pablo Chang, ferito al volto, raggiungerà i detenuti. stato arrestato nello stesso momento o in un secondo tempo? Le versioni sono contraddittorie.

Gary Prado invia lo stesso messaggio che ha ripetuto per tutto il pomeriggio, questa volta al telegrafo. Sono le otto e trenta di sera: "Papà ferito". Poi, insieme al maggiore Ayoroa e al colonnello Selích, esamina il misero contenuto dello zaino del Che: dodici rullini fotografici, due dozzine di carte geografiche corrette dal Che con matite colorate, una radio portatile, due libretti di codici, due taccuini con copie dei messaggi ricevuti e inviati, un quaderno verde di poesie e un paio di quaderni (diari?) zeppi di appunti scritti con la fitta e frettolosa calligrafia del Che.

Alle nove Selich chiede telefonicamente istruzioni al comando dell'VIII divisione. Dieci minuti dopo gli rispondono: "Prigionieri di guerra devono restare vivi fino a nuovi ordini comando superiore". Un'ora più tardi arriva un nuovo messaggio da Vallegrande: "Tenga vivo Fernando fino a mio arrivo domattina presto in elicottero. Colonnello Zenteno".

Intanto, a La Higuera, i tre ufficiali superiori cercano di interrogare il Che. Non ottengono nulla, rifiuta di parlare con loro. Prado racconta che Selich gli disse, "Che ne direbbe di raderlo, prima?", mentre tentava di strappargli la barba, e che il Che lo colpisce con una manata.
Secondo il telegrafista di La Higuera, Selich va anche oltre; di fronte al rifiuto del Che di fornirgli qualsiasi informazione, lo minaccia di morte e gli toglie due pipe e l'orologio.

Il villaggio è in stato d'allerta, ci si aspetta da un momento all'altro l'attacco dei guerriglieri superstiti. Intorno alla scuola, sono state disposte una serie di sentinelle in due cerchi concentrici e una vedetta.

Alle ventidue e dieci "Saturno" (Zenteno), dall'VIII divisione a Vallegrande, telegrafava al comandante in capo dell'esercito a La Paz (generale Lafuente) una proposta di chiave per trattare lo spinoso argomento della cattura del Che:

"Fernando (il Che) 500. Vivo: 600, per telegrafo solo questo per il momento, il resto per radio, morto: 700. Buonasera. Ultima comunicazione conferma trovarsi nostro potere 500, pregasi dare istruzioni concrete se 600 o 700".
Il comandante in capo rispondeva: "Deve restare 600. Massima riservatezza, ci sono infiltrazioni".

I vertici dell'esercito boliviano si erano riuniti a La Paz per decidere il da farsi. Il messaggio iniziale era stato ricevuto dai generali Lafuente Soto (comandante dell'esercito) e Vázquez Sempertegui (capo di stato maggiore dell'esercito) e dal tenente colonnello Arana Serrudo (dei servizi segreti militari). Jorge Gaflardo ha lasciato una descrizione poco simpatica dei tre: Lafuente, tracagnotto, con una faccia da orangutan, barba folta, lo chiamano Chkampu (faccia pelosa in quichua); Vázquez, tarchiato, sorriso cinico, responsabile dei massacri dei minatori; Arana deforme, con un collo taurino che contrasta con il corpo molto scuro.

Si recano dal generale Alfredo Ovando, Ministro della guerra, nel piccolo ufficio della cittadella militare di Miraflores; questi, quando riceve i tre ufficiali, fa chiamare il generale Juan José Torres, capo di stato maggiore delle Forze Armate, che occupa l'ufficio di fronte alla sala riunioni adiacente all'ufficio di Ovando. P- in questa sala che i cinque militari si riuniscono. Non è escluso che siano stati consultati altri pezzi grossi delle Forze Armate, come il comandante della Forza aerea León Kolle Cueto, che per un caso curioso è il fratello del dirigente del Pc, Jorge Kolle.

Non ci è giunta alcuna testimonianza di ciò che si disse in quella sala, soltanto della decisione finale. Una volta raggiunto un accordo, i generali lo comunicano al presidente René Barrientos, che dà il suo benestare.
Alle ventitré e trenta, il Comando delle forze armate invia al colonnello Zenteno a Vallegrande questo messaggio telegrafico: "Ordine presidente Fernando 700". E Che Guevara è stato condannato a morte.

Tanto per il biografo più distaccato, quanto per quello più partecipe, quelle diciotto ore a La Higuera sono disperanti. Ernesto Guevara è vissuto lasciandosi dietro una scia di carte che registrano le sue impressioni, le sue versioni, a volte anche le sue emozioni più intime; diari, lettere, articoli, interviste, discorsi, atti. E’ vissuto circondato di narratori, testimoni, voci amiche che raccontano e lo raccontano. Per la prima volta, lo storico può ricorrere solo a testimoni ostili, molto spesso interessati a distorcere i fatti, a creare una versione fraudolenta. Quello che oggi sappiamo è emerso con il contagocce nel corso di ventotto anni, frutto della caparbietà dei giornalisti, di ricordi tardivi al fine di costruirsi alibi. La Higuera è una terra di parole in cui c'è posto solo per gli interrogativi. Sa che lo uccideranno? Cosa pensa adesso di Simón Cuba, che tante volte ha rinnegato nel suo diario? Fa un bilancio dei compagni vivi, dei pri onieri e dei morti? Rimangono Pacho e Pombo con Inti, Dariel, Dario, il Nato e Tamayo; Huanca e il medico De la Pedraja sono fuggiti con i feriti. Uavranno visto cadere nelle mani dei soldati? Tenteranno qualcosa? Trascorre quelle ore pensando ad Aleida e ai bambini, al piccolo Ernesto che praticamente non ha mai visto? Ai morti? Gli altri morti che hanno costellato la sua strada, Pamos Latour e Geonel, il Patojo, Camdo e Masetti; San Luis, Manuel, Vdo e Tania... e la lista è interminabile. Sono i suoi morti, sono morti perché credevano in lui. Soffre per la ferita? Lui non ha mai abbandonato un prigioniero privo di cure, gli hanno dato un'aspirina per curare una ferita d'arma da fuoco. Ripensa alla sconfitta? Ultimo anello di una catena che si aggiunga, il gruppo di Puerto Mìldonado, di Salta, adesso la sua, la guerriglia del Che. Cosa lo aspetta? Cinquant'anni di carcere? Una pallottola nella nuca? Non è questa la prima sconfitta, chissà se sarà l'ultima. Il suo diario si trova nella casa del telegrafista, a pochi metri da dove lo tengono prigioniero. Ci sono state altre sconfitte, ma per la prima volta in vita sua Ernesto Guevara è un uomo senza carta né penna. Un uomo disarmato, perché non può raccontare quello che sta vivendo.

A La Higuera c'è stato il cambio della guardia. li Che è sdraiato a terra, la ferita ha smesso di sanguinare.
Uno dei soldati di sentinella nella stanza racconterà anni dopo: "Una delle cose che vidi, e che mi sembrò un oltraggio per il guerrigliero, fu che Carlos Pérez Gutiérrez entra, lo afferra per i capelli e gli sputa in faccia, e il Che non si trattiene e gli sputa a sua volta, inoltre gli dà un calcio che gli fa fare un ruzzolone, non so dove l'abbia preso il calcio, ma vidi Carlos Pérez Gutiérrez a terra e Eduardo Huerta con un altro ufficiale che lo immobilizzano".

Poco dopo un infermiere dell'esercito gli lava la gamba con del disinfettante; le cure non si spingono oltre. Ninfa Arteaga, la moglie del telegrafista, si offre di portare da mangiare ai prigionieri; il sottoufficiale di guardia rifiuta. Lei risponde: "Se non mi lasciate dare da mangiare a lui, non lo do a nessuno". Sua figlia Elida porta un piatto al guerrigliero cieco (il Cinese Chang?) in un'altra stanza. Ultimo pasto del Che sarà un piatto di minestra di arachidi.

Il sottotenente Toti Aguilera entra nella stanza. "Signor Guevara, è sotto la mia custodia."
E il Che gli chiede una sigaretta. Aguilera gli domanda se è medico, il Che conferma e aggiunge che è anche dentista, che ha cavato dei denti.

Il tenente si aggira per la stanza cercando di trovare uno spunto di conversazione. Alla fine fugge, non c'è possibilità di comunicazione con quel personaggio chiuso che esce dal mito, ferito; non riesce ad annullare quella distanza che il Che ha sempre imposto anche ai suoi, per non parlare degli estranei e, a maggior ragione, dei nemici.

Diversi soldati entrano in seguito nella stanza. Parlano di tutto, a frammenti, controvoglia. C'è religione a Cuba? 2 vero che lo vogliono scambiare con dei trattori? Lei ha ammazzato il mio amico? Lo insultano. Dicono che un sottoufficiale, vedendolo rannicchiato in un angolo della stanza, gli abbia chiesto: "Sta pensando all'immortalità dell'asino?".
Guevara, al quale gli asini sono sempre stati molto cari, sorride e risponde:
"No, tenente, sto pensando all'immortalità della rivoluzione che tanto temono coloro che voi servite".

Verso le undici e mezzo un paio di soldati rimangono soli con il Che, senza sottoufficiali né ufficiali. Il Che parla con loro, chiede di dove sono. Sono entrambi originari dei distretti minerari, uno è figlio di un minatore. Parlano. I due soldati pensano che magari possono fuggire con lui. Uno di essi esce dalla scuola per vedere com'è la situazione fuori. Il villaggio è sempre in stato d'allerta. Ci sono tre anelli di guardie, il terzo è formato da uomini di un altro reggimento. Lo comunicano al Che.

Raccontano che disse: Non vi preoccupate, sono sicuro che non rimarrò prigioniero per molto tempo, perché molti paesi protesteranno per me, quindi non c'è bisogno, non vi preoccupate tanto, non credo che mi succeda nient'altro.

Uno dei due gruppi di guerriglieri superstiti è riuscito a sfuggire all'accerchiamento dell'esercito. Inti Peredo racconta: "In quella notte di tensione e d'angoscia ignoravamo completamente cosa era successo e ci chiedevamo a voce bassa se non fosse morto un altro compagno oltre ad Aniceto". All'alba scendono di nuovo nella gola e dopo una breve attesa si spostano verso il secondo punto d'incontro, a qualche chilometro da La Fhguera. Alarcón aggiunge: "Ci dirigemmo verso il secondo punto d'incontro, vicino al Río el Naranjal. Dovevamo tornare un’altra volta in direzione di La Higuera e l'alba ci sorprese vicino al villaggio".

E l'alba del 9 ottobre. Dall'ambasciata degli Stati Uniti a La Paz partono cablogrammi diretti a Washington. L’ambasciatore Henderson comunica al Dipartimento di stato che il Che si trova "tra gli uomini catturati, malato gravemente o ferito"; i consiglieri di Lyndon Johnson esperti di questioni latinoamericane, basandosi su fonti della CIA, riferiscono che Barrientos afferma di avere il Che e di voler verificare l'identità dell'uomo che è stato catturato mediante le impronte digitali.

A La Higuera sta sorgendo il giorno, i prigionieri sentono il rumore di un elicottero, le sentinelle sono rilevate. Un apparecchio trasporta il colonnello Zenteno, venuto da Vallegrande accompagnato dall'agente della CIA Félix Rodríguez. I due si dirigono verso la casa del telegrafista, in cui si trovano i documenti rinvenuti nello zaino del Che.

Agli ordini del maggiore Ayoroa, i ranger rastrellano i canaloni alla ricerca dei superstiti. E capitano Gary Prado fornisce la versione ufficiale: "Un’operazione ha inizio la mattina del 9 ottobre, perlustrando palmo a palmo i canaloni. La compagnia A trova le grotte 'm cui si erano rifugiati il Cinese e Pacho che mentre gli intimavano di arrendersi sparano e uccidono un soldato, provocando la rapida reazione dei ranger, che con mitragliatrici e bombe a mano li riducono al silenzio". E curioso che in un altro punto della sua versione dica che i soldati gli riferirono della "presenza di un guerrigliero", non di due. Perché se c'erano due uomini nella gola i superstiti non li videro la notte prima? Perché non c'è nessuna annotazione sul diario di Pacho in data 8 ottobre?

A La Higuera, il colonnello e l'agente della CIA entrano dove è rinchiuso il Che. Anni dopo, un soldato racconterà: "Uno dei comandanti ebbe una discussione piuttosto violenta con il Che e aveva accanto una persona, sarà stato un giornalista, che registrava con una specie di registratore molto grande appeso sul petto".

Nella versione di Rodríguez, le cose si svolgono in modo più civile. Fanno uscire il Che dalla scuola e gli chiedono il permesso di fargli una foto. Félix si mette accanto al guerrigliero. Verso le dieci del mattino il maggiore Nino de Guzmán, pilota dell'elicottero, fa scattare la Pentax dell'agente della CIA. La foto è giunta fino a noi: il Che è un arruffio di capelli, sul volto una certa amara desolazione, la barba sporca, gli occhi semichiusi per la stanchezza e il sonno, le mani unite come se fossero legate.

Ci saranno un altro paio di fotografie quella mattina, scattate da soldati, molto simili alla prima: in entrambe, il comandante Guevara, sconfitto, rifiuta di guardare l'obiettivo,


Zenteno si dirige verso il Churo per supervisionare il rastrellamento in corso. Intanto Rodríguez, con la sua Rs48 portatile, invia un messaggio cifrato. Selich, che lo osserva, è molto preciso: "Aveva un potente radiotrasmettitore che installò immediatamente e con cui trasmise un messaggio cifrato in chiave di sessantacinque gruppi circa. Subito dopo installò su un tavolo al sole una macchina fotografica montata su un dispositivo con quattro gambe telescopiche e cominciò a scattare fotografìe".

Lo interessano in particolare i diari del Che, il libro con le chiavi e l'agenda con indirizzi di tutto il mondo. I militari e l'agente della CIA si trovano nel patio davanti alla casa del telegrafista.

Fotografando il libro di chiavi, Rodríguez commenta: "Ne esistono solo due esemplari al mondo, uno ce l'ha Fidel Castro e l'altro è qui". Selich ritorna a Vaflegrande in elicottero con i due soldati feriti. Alle undici e trenta Zenteno ritorna a La Higuera accompagnato da una scorta e dal maggiore Ayoroa e trova l'agente della CIA impegnato nell'operazione di fotografia. I militari lo guardano fare. Zenteno si limita a un breve commento e Rodríguez gli assicura che copie delle foto gli saranno consegnate a La Paz. "Nessuno obiettò alle fotografie, nessuno si oppose" dirà più tardi il maggiore Ayoroa.

Nella solitudine della stanza in cui è rinchiuso, il Che chiede ai suoi guardiani di lasciarlo parlare con la maestra della scuola, Julía Cortez; secondo la sua testimonianza, il Che le disse:
"Ah, lei è la maestra. Lo sa che sulla o di "so" non ci vuole l'accento nella frase "Adesso so leggere"? Indica la lavagna. "Certo, a Cuba non ci sono scuole come questa. Per noi questa sarebbe una prigione. Come fanno a studiare qui i figli dei contadiní? E’ antipedagogico".

"Il nostro è un paese povero."

"I funzionari del governo e i generali, però, girano in Mercedes e hanno un mucchio di altre cose... vero? E’ questo quello che noi combattiamo."

"Lei è venuto da molto lontano a combattere in Bolivía."

"Sono un rivoluzionario e sono stato in molti posti."

"Lei è venuto a uccidere i nostri soldati."

"Guardi, in guerra o si vince o si perde."

In quale momento il colonnello Zenteno trasmise ad Ayoroa l'ordine presidenziale di assassinare il Che? Félìx Rodríguez cercò forse dì convincerlo a non ucciderlo, visto che il Che in quel momento poteva essere più utile vivo e sconfitto che morto? Almeno così afferma l'agente della CIA nelle sue memorie; Zenteno, nelle successive dichiarazioni, non ne fa menzione.

Rodríguez racconta che parlò con il Che per un'ora e mezza, e che il comandante gli chiese anche di trasmettere a Fidel il messaggio che la rivoluzione latinoamericana avrebbe trionfato e di dire a sua moglie di risposarsi ed essere felice.

Ma quell'ora e mezza non fu in realtà che un quarto d'ora, e altre fonti militari sono concordi nell'affermare che il Che disse a Rodríguez che era un "verme" al servizio della CIA, che lo chiamò mercenario e che si limitarono a scambiarsi insulti.

Alle undici e quarantacinque, Zenteno prende il diario e la carabina del Che e insieme a Rodríguez parte con l'elicottero appena ritornato.
A mezzogiorno il Che chiede di poter parlare di nuovo con la maestra. Lei non vuole, ha paura.

Intanto, a cinque-seicento metri dal villaggio, i guerriglieri sopravvissuti stanno aspettando che faccia notte per muoversi. Alarcón racconta: "Lì venimmo a sapere che il Che era prigioniero ( ) Sentivamo le notizie da una radiolina che avevamo e che disponeva di un auricolare ( ) Credevamo che si trattasse di una falsa informazione messa in giro dall'esercito. Però verso le dieci del mattino dicevano già che il Che era morto e ( ) parlavano di una foto che lui portava in tasca, con sua moglie e i suoi figli. Quando noi cubani sentimmo questo, ci guardammo fissi mentre le lacrime cominciavano a scenderci in silenzio ( ) Quel particolare ci dimostrava che il Che era morto in combattimento, senza che ci passasse per la mente che era ancora vivo e a poco più di cinquecento metri da noi".

A metà mattina Ayoroa chiese un volontario tra i ranger per fare il boia. Il sottoufficiale Mario Terán chiese che gli lasciassero ammazzare il Che. Un soldato ricorda: "Sosteneva che nella compagnia B erano morti tre Mario e in loro onore dovevano dargli il diritto di ammazzare il Che". Era mezzo ubriaco. Il sergente Bernardino Huanca si offri di assassinare i compagni del Che.

Passata l'una, Terán, basso, tracagnotto - non sarà stato alto più di 1,60 per sessantacinque chili di peso - entrò nella stanzetta della scuola in cui si trovava il Che con un M-2 in mano che gli aveva prestato il sottouffíciale Pérez. Nella stanza accanto, Huanca crivellava di pallottole il Cinese e Simón.

Il Che era seduto su una panca, con i polsi legati, le spalle al muro. Terán esita, dice qualcosa. Il Che risponde:

"Perché disturbarsi? Sei venuto a uccidermi".

Terán fa un movimento come per andarsene e spara la prima raffica rispondendo alla frase che quasi trent'anni dopo dicono abbia pronunciato il Che: Spara, vigliacco, che stai per uccidere un uomo.

"Quando arrivai il Che era seduto sulla panca. Quando mi vide disse: Lei è venuto a uccidermi. Io non osavo sparare, e allora lui mi disse: Stia tranquillo, lei sta per uccidere un uomo. Allora feci un passo indietro, verso la porta, chiusi gli occhi e sparai la prima raffica. Il Che cadde a terra con le gambe maciullate, contorcendosi e perdendo moltissimo sangue. lo ripresi coraggio e sparai la seconda raffica, che lo colpì a un braccio, a una spalla e al cuore".

Poco dopo il sottoufficiale Carlos Pérez entra nella stanza e spara un colpo sul cadavere. Non sarà l'unico: anche il soldato Cabrero, per vendicare la morte del suo amico Manuel Morales, spara contro il Che.

I diversi testimoni sembrano concordare sull'ora della morte di Ernesto Che Guevara: verso la una e dieci del pomeriggio di domenica 9 ottobre 1967.
La maestra grida contro gli assassini.
Un sacerdote domenicano di una vicina parrocchia ha cercato di arrivare in tempo per parlare con Ernesto Guevara. Padre Roger Schiller racconta: "Quando seppi che il Che era prigioniero a La Higuera trovai un cavallo e mi diressi laggiù.- Volevo confessarlo. Sapevo che aveva detto Sono fritto. lo volevo dirgli:

"Lei non è fritto. Dio continua a credere in lei". Per strada incontrai un contadino:

"Non si affretti, padre" mi disse. "L’hanno già liquidato"".

Verso le quattro del pomeriggio il capitano Gary Prado ritorna al villaggio dopo l'ultima incursione dei ranger nelle gole vicine. All'ingresso del paese il maggiore Ayoroa lo informa che hanno giustiziato il Che; Prado ha un moto di sdegno. Lui l'ha catturato vivo. Si preparano a portare via il corpo in elicottero. Prado gli lega la mandibola con un fazzoletto perché il volto non si scomponga.

Un fotografo ambulante ritrae i soldati che circondano il cadavere adagiato su una barella. Sono foto domenicali, di paese, mancano solo í sorrisi. Una foto immortala Prado, padre Schdler e donna Ninfa accanto al corpo.

Il sacerdote entra nella scuola, non sa cosa fare, raccoglie i bossoli e li mette via, poi si mette a lavare le macchie di sangue. Vuole cancellare parte del terribile peccato: aver ucciso un uomo in una scuola.

A Mario Terán hanno promesso un orologio e un viaggio a West Point per frequentare un corso per sottoufficiali. La promessa non sarà mantenuta.



L’elicottero si alza in volo, con il cadavere del Che Guevara legato, ai pattini.


...





Confesso che a 20 anni ho messo in dubbio il mio amore per papà. Come ogni giovane donna mi domandavo perché amassi mio padre dato che non avevo beneficiato della sua presenza e la maggior parte delle cose che ho conosciuto di lui le ho conosciute tramite i suoi amici e compagni. Così sono arrivata alla conclusione che il meno che potessi fare era amare l'uomo per la sua statura umana. Ho cercato allora di richiamare i piccoli ricordi che mi rimanevano per farli di giorno in giorno più grandi, più vicini alla mia persona, per giungere a stabilire un vincolo stretto e personale con mio padre.



[...] C'è un'immagine di lui che voglio ricordare. Papà e mamma stanno in una stanza, la mamma tiene in braccio il mio fratellino Ernesto appena nato, papà gli accarezza la testolina: quale deve essere stata la tenerezza che mostrava perché una bambina di 4 anni e mezzo come me se la ricordi! Ed è questo che mi colpisce.
Molti pensano che egli fosse un avventuriero e che lasciare Cuba per altre terre fosse ciò che voleva e di cui aveva bisogno. Certo che ne aveva bisogno, non però per spirito di avventura, ma perché fin da giovane aveva conosciuto il continente americano e per lui era urgente, era un impegno primario, migliorare la vita degli esseri umani.



[...] Voglio raccontare dell'ultima volta che ci vide. Io non lo avevo riconosciuto, perché stava preparandosi a rendersi irriconoscibile per andare in Bolivia. La mamma ci condusse a cenare con un vecchio amico di lui, un sedicente spagnolo chiamato Ramon. Almeno per me, che sono la figlia che lo ricorda di più, fu una notte speciale, perché ciò che accadde in quella notte ha segnato la mia vita. [...] Dopo cena, noi quattro bambini ci mettemmo a giocare. A un certo punto io persi l'equilibrio e mi feci un brutto bernoccolo sbattendo su un tavolo di marmo; mio padre mi prese fra le sue braccia, e fu talmente tenero che io - pur non avendolo riconosciuto - seppi che era una persona speciale. Gli adulti continuarono a conversare, ma io volevo confidare alla mamma un segreto. Quando finalmente mi fu concesso di interromperli potei dirle: «Mamma, io credo che quest'uomo sia innamorato di me». Fu una cosa tremenda. Ora si può riderne, ma pensate al momento difficile che feci passare a mio padre. Perché è certo che egli desiderava prendermi e stringermi fra le braccia e dirmi che era innamorato di me, perché ero sua figlia. Ma non poteva farlo in nessun modo, stava per partire, si era già preparato, non poteva fare ciò che voleva, perché prima di tutto veniva il dovere, il suo impegno con gli altri, e dopo, molto dopo, venivano i suoi bisogni personali. Questa è una delle cose più belle che aveva quest'uomo e che ha trasmesso a tutti noi.

Aliucha Guevara March




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domenica 7 ottobre 2007

Un anno fa moriva Anna Politkovskaja




Siamo tutti
“non rieducabili”



di Gianni Rossi



Il Teatro Valle di Roma gremito come non mai, un’atmosfera carica di commozione, un’ora e mezza di “teatro verità” in stile brechtiano. Il ricordo della Politkovskaja è passato lungo le parole dei suoi scritti, rielaborati da Silvano Piccardi e magistralmente interpretati da Ottavia Piccolo, con l’intercalare musicale surreale dell’arpa, suonata da Floraleda Sacchi.
Abbiamo compreso così da quegli articoli, elaborati con lo stile alla Maksim Gorkji, la tragedia del popolo ceceno e la fragilità della democrazia russa sotto il potere del “piccolo zar” Putin, ex-colonnello del KGB, la centrale spionistica, già comandante delle forze speciali proprio nei periodi più bui della guerra in Cecenia.


Un lungo calvario, quello di Anna, che si dipana dal 2001 fino al giorno della sua morte, il 7 di ottobre del 2006, quando un killer, assoldato dalla mafia cecena o da alcuni settori dei servizi segreti o, ancora, dagli apparati del potere illiberale moscovita, ha sparato quattro colpi contro il suo fragile e già maltrattato corpo di giornalista.
Una donna esile, una madre, una testimone del nostro tempo che con una grazia incredibile riusciva a dar voce agli umili della Cecenia e portava alla luce dell’opinione pubblica russa e mondiale il dramma, la tragedia, le torture e i misfatti che si stanno ancora oggi consumando in quelle terre.


E’ stata anche una lezione di giornalismo non gridato, non spettacolarizzato, ma carico di umanità, alla ricerca testarda di verità nascoste, inconfessabili.
Anna, negli ultimi suoi cinque anni di vita e di professione, ha vissuto sulla propria pelle, come una martire, la “sporca guerra” cecena, fatta di terrorismo irredentista e disumano, ma anche di repressione militare crudele, a tratti riecheggiante i metodi del nazismo. Un odio profondo divide la Cecenia dalla Russia, alimentato anche da motivi religiosi ( islamici contro ortodossi), ma soprattutto dal controllo delle ingenti ricchezze energetiche presenti nella zona. Chi sono i “cattivi” e chi, invece i “buoni” in questa guerra ormai dimenticata, lontana dai riflettori dei media internazionali?


Difficile dare una “risposta intelligente”, come scriveva Anna in uno dei suoi reportage. Di certo le vittime sono gli “umili della terra”: le donne stuprate dalle bande cecene e dalle forze speciali russe e poi cacciate dalle loro famiglie, i bambini straziati dalle mine e dai kalasnikov, i contadini strappati dalle loro terre e deportati lontano, “desaparecidos”, le tradizioni culturali e religiose bruciate con i gas, i lanciafiamme e le armi chimiche. Le città bianche asiatiche, ridotte ad un cumulo di macerie grigie.


Tutto questo dramma era documentato con una scrittura quasi “romantica”, ottocentesca, da Anna, senza fronzoli e senza la minima partecipazione politica, ma con una obiettività che lasciava il segno. E con un senso di umanità tutta femminile, che è stata all’origine della sua sentenza di morte!


Per chi è abituato a vivere e lavorare comodamente nelle grandi metropoli dell’Occidente “civile”, i resoconti di Anna sono come un pugno nello stomaco. Da corrispondente di guerra, lei ti gettava in faccia la difficoltà della vita quotidiana, dalla ricerca dell’acqua e del cibo, ai pericoli giornalieri di restare uccisi da proiettili vaganti o da ritorsioni cecene e russe. Non solo, ma la sua opera di testimone dei nostri tempi spesso l’ha portata a tu per tu con la morte, con la tortura e il carcere ad opera dei militari russi, fino alla quasi quotidiana persecuzione della polizia segreta, indispettita per i suoi reportage.


Chi ha armato la mano del suo killer? Ad un anno dal suo omicidio su commissione, l’inchiesta langue, i suoi ultimi scritti, custoditi gelosamente nel suo computer, sono ancora in mano agli inquirenti e nessun passo avanti è stato fatto per arrivare ai veri mandanti e alle tante connivenze.


Per il potere russo, retto da quel “tiranno moderno” che è Putin, tanto amico di altri potenti europei (alla sua corte sono accorsi l’ex-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Schroeder, ma anche i Berlusconi di mezza Europa), Anna è un “incidente di percorso” e come tale si sta facendo di tutto per farla dimenticare. Un’opera da “grande fratello” staliniano, che ha già avuto i suoi effetti in Russia e che rischia di avere successo anche nel resto del mondo democratico.
Per queste ragioni, non va dimenticato il suo esempio, la sua storia. Per questo va ripreso il testimone che ci ha lasciato, per costringere le autorità russe ad andare in fondo nell’indagine sulla sua morte. Va chiesto il conto a Putin e agli apparati del governo di Mosca di quel delitto, come occorre che piena luce sia fatta sugli orrendi atti di terrorismo nel teatro moscovita Dubrovka (160 i primi morti, oltre 600 feriti, intossicati dai gas utilizzati dalle forze speciali antiterrorismo) e nella scuola di Beslan in Ossetia (400 morti, di cui la metà bambini, sempre per causa dell’intervento armato russo).


Ne uccide di più il terrorismo ceceno o la contro-reazione delle forze regolari dell’esercito russo?
Una domanda alla quale Anna si è sempre sottratta, più interessata a raccontare le vicende umane di chi subiva inerme le violenze dai due fronti contrapposti. Per lei era più importante documentare la tragedia di una nazione, quella russa, che non è ancora uscita dal terrore del regime sovietico, dal sistema oligarchico e antidemocratico che trae origine dal “lungo sonno della ragione” in cui l’aveva ridotto lo stalinismo prima e il breznevismo poi, per arrivare ai giorni nostri con i due “piccoli zar” Boris Eltsin e Vladimir Putin.


Il suo scopo era di portare alla ribalta internazionale il “cancro” che rode la fragile democrazia russa, la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti, per far conoscere al mondo intero il volto vero di chi ha il potere a Mosca e dintorni, di coloro che stringono le loro “mani insanguinate” con i maggiori uomini d’affari dell’Occidente, senza curarsi dell’immane tragedia che si sta consumando nei territori sotto il “tallone di acciaio” del potere russo.
Siamo tutti “non rieducabili”, come recitava un dispaccio del comando militare russo, che poneva Anna tra gli oppositori, tra coloro che tradivano “gli ideali della santa madre Russia” e che, quindi, andavano solo spazzati via dalla faccia della terra.


Tocca a noi, giornalisti liberi, figli di un “Dio benevolo”, tenere alta la bandiera della sua testimonianza e far sì che anche le nuove generazioni in Europa e, soprattutto, in Russia, non dimentichino il sacrificio di Anna Politkosvkaja, una “grande figlia” di quell’amata terra russa, straziata dalla violenza delle oligarchie.


fonte: http://www.articolo21.info/editoriale.php?id=2787

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martedì 11 settembre 2007

L'11 settembre non è solo 2001



Quell'11 settembre 1973 fu uno shock, per me che mi affacciavo al mondo con occhi idealisti. Da allora, quando sento parlare dei buoni amerikani che esportano la democrazia, mi vengono i brividi...
Per non dimenticare, riporto un pezzo da http://www.disinformazione.it:

11 settembre.
Oltre 30.000 morti accertati.
Oltre 600.00 persone torturate
.
Questi sono i numeri principali dell' 11 settembre 1973, una data troppo spesso dimenticata e poi sorpassata dalla capacità mediatica del 11 settembre 2001.

Il golpe dell'11 settembre 1973 portò al potere Pinochet con l’esplicito aiuto e contributo determinante degli USA.


Alcune informazioni utili per non dimenticare
Dietro il Golpe dell’11 settembre la CIA
Uno scoop del New York Times denunciò che l’amministrazione Nixon aveva finanziato attività della Cia in Cile contro il regime di Allende.

L’8 settembre 1974, il New York Times rivelò che, secondo una testimonianza resa il 22 aprile dello stesso anno da William Colby, direttore della Cia, di fronte alla Sottocommissione dei servizi armati sull’intelligence della Camera dei rappresentanti, l’amministrazione Nixon avrebbe stanziato oltre otto milioni di dollari per le attività della Cia contro il regime del presidente Salvador Allende. Le operazioni di intervento, secondo Colby, erano state approvate in blocco dalla Commissione dei quaranta, un quadro di comando di alto livello addetto all’approvazione dei piani di sicurezza guidati da Henry Kissinger, segretario di Stato degli Stati Uniti, e furono considerate come prova schiacciante delle tecniche di sovvertimento di altri governi attraverso lo stanziamento di fondi.

Il primo presumibile coinvolgimento degli Stati Uniti contro Allende avvenne nel 1964, allorché tre milioni di dollari vennero stanziati in aiuto del Partito cristiano democratico il cui candidato alle elezioni presidenziali, Eduardo Frei Montalva, sconfisse Allende. Ulteriori somme di denaro si dice siano state finanziate negli anni seguenti, compresi cinquecentomila dollari nel 1970 donati alle forze anti-Allende prima delle elezioni presidenziali, finanziamento poi culminato nel milione di dollari stanziati, nel 1973, come parte della campagna per "destabilizzare" il regime di Allende. Nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 16 settembre, il presidente Ford difese l’operato statunitense in Cile in quanto teso «agli interessi del popolo cileno e, sicuramente, ai nostri interessi», ma negò che gli Stati Uniti fossero stati coinvolti nel sovvertimento del regime del presidente Allende. Di seguito, affermò che gli sforzi dell’America erano tesi a «preservare i giornali e i partiti di opposizione» che, presumibilmente, il presidente Allende cercava di annientare.

Kissinger, nella testimonianza del 19 settembre resa di fronte alla commissione di inchiesta del senato sulle relazioni internazionali, ebbe a ripetere che il coinvolgimento della Cia era stato autorizzato unicamente per preservare i partiti politici e i giornali minacciati dal regime. Mentre il segretario di Stato in un’occasione precedente nel 1974 aveva affermato innanzi al Congresso: « la Cia non ha avuto nulla a che fare con il golpe, per quanto ne so e credo», un portavoce del dipartimento di Stato il 29 settembre aveva notato che Kissinger presiedeva una commissione composta da quaranta membri e che generalmente le decisioni erano prese all’unanimità.
Secondo le fonti dei servizi segreti citate in un altro articolo comparso sul New York Times il 19 settembre, gran parte del denaro autorizzato dalla Cia per attività in Cile venne usato nel 1972 e nel 1973 per sostenere gli scioperi anti-Allende, in particolare lo sciopero dei camionisti del 1972. Tuttavia, le fonti insistevano sul fatto che scopo della amministrazione Usa non era stato quello di ribaltare il governo Allende, e poneva l’accento sul fatto che la richiesta da parte della confederazione dei camionisti nell’agosto 1973, un mese prima del golpe, per un incremento dei fondi d’aiuto, era stata rifiutata dalla Commissione dei quaranta, anche se non si negava la possibilità di "futuri stanziamenti a favore del sindacato dei camionisti".

Il New York Times del 20 ottobre di nuovo pubblicò l’informazione secondo cui la Cia, sei settimane prima del golpe contro Allende, aveva cercato di finanziare il Partito nazionale di destra.

("Keesing’s Contemporary Archives", 12-18 maggio 1975)

Chi era Pinochet?
Il Generale Augusto Pinochet, nato nel 1915, è passato alla storia come uno dei più disumani dittatori del Novecento, tristemente celebre per la barbara eliminazione dei suoi oppositori. Durante la sua feroce dittatura, durata dal 1973 al 1990, furono torturate, uccise e fatte barbaramente sparire almeno trentamila persone, gli uomini di Unidad Popolar, la coalizione di Allende, militanti dei partiti comunista, socialista e democristiano, accademici, professionisti, religiosi, studenti e operai.

Ma, a proposito del ruolo della chiesa cattolica romana in questa immane tragedia...

A oltre 30 anni dal golpe, la legittimazione più calorosa arrivò al dittatore Augusto Pinochet dalle stanze del Vaticano.
18 febbraio 1993: la privatissima ricorrenza delle sue nozze d’oro viene allietata da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e portano in calce le firme di papa Wojtyla e del segretario di Stato Angelo Sodano.

«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d’oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine", scrive senza imbarazzo il Sommo Pontefice, "con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II».
Ancor più caloroso e prodigo di apprezzamenti è il messaggio di Sodano, che era stato nunzio apostolico in Cile dal ’77 all’88, e che nell’87 aveva perorato e organizzato la visita del papa a Santiago, trascurando le accese proteste dei circoli cattolici impegnati nella difesa dei diritti umani.

Il cardinale scrive di aver ricevuto dal pontefice «il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l’autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza». E aggiunge: «Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile». E conclude, riaffermando al signor Generale "l’espressione della mia più alta e distinta considerazione".
Non esistono morti di serie A e serie B ma solo morti, la differenza è che alcuni di loro sono morti anche nella nostra memoria.

fonte fotografica: http://www.disinformazione.it/11settembre1973.htm

"Certamente Radio Magallanes sarà messa a tacere e il timbro tranquillo della mia voce non vi giungerà. Non importa. Continuerete a sentirlo. Sarà sempre accanto a voi. Almeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno, che fu leale alla lealtà dei lavoratori...
Hanno la forza, potranno soggiogarvi, ma non si arrestano i processi sociali né col delitto né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli...
Lavoratori della mia terra: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Resistete sapendo che presto si apriranno le grandi strade da cui passerà l'uomo libero per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!"

(Salvador Allende - martedì 11 settembre 1973 - ultimo discorso dal Palazzo della Moneda)

fonte: http://italy.peacelink.org/editoriale/articles/art_18484.html

«Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell'irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.»
Henry Kissinger

fonte: http://www.antigone.ilcannocchiale.it/post/1609890.html

Ci sono cinquemila di noi
in questo piccolo angolo di città.
Noi siamo cinquemila.
Mi chiedo quanti siamo in tutto,
nelle città e nel paese intero.
Solo qui
ci sono diecimila mani che piantano semi
e fanno funzionare le fabbriche.
Quanta umanità
esposta a fame, freddo, panico, sofferenza,
pressione morale, terrore e follia?
Sei di noi erano perduti
come nello spazio astrale.
Uno morto, un altro picchiato come mai avrei creduto
un essere umano potesse venir pestato.
Gli altri quattro vollero metter fine
al loro terrore:
uno saltando nel nulla,
un altro dando di testa contro un muro
ma tutti avevano nello sguardo la fissità della morte.
Quale orrore genera il volto del fascismo!
Eseguono i loro piani con
chirurgica precisione.
Niente importa loro.

Per costoro, il sangue equivale
alle medaglie,
il macello è un atto di eroismo.
O Dio, è questo il mondo che hai creato,
a ciò sono serviti i tuoi setti giorni
di lavoro e meraviglia?
Dentro queste quattro mura
solo un numero esiste
che non fa progressi,
che lentamente non altro desidererà
se non la morte.
Ma all’improvviso la mia coscienza
si ridesta,
e capisco che quest’ondata
non ha il battito del cuore,
solo la pulsazione delle macchine
e i militari che mostrano i loro visi
da levatrici piene di dolcezza.
Messico, Cuba e il mondo intero,
gridate alto contro quest’atrocità!
Noi siamo diecimila mani
che non possono produrre niente.
Quanti di noi nel paese intero?
Il sangue del nostro presidente,
il nostro compañero,
colpirà con più forza che non le bombe
e i mitra!
Così il nostro pugno colpirà di nuovo!

Com’è difficile cantare
quando devo cantare l’orrore.
L’orrore che sto vivendo,
l’orrore di cui sto morendo.
Vedermi in mezzo a così tanti
e innumerevoli momenti di infinito
nel quale silenzio e grida
sono la fine della mia canzone.
Ciò che vedo, non l’ho mai visto prima.
Ciò che ho provato e ciò che provo
daranno vita al momento.....

Victor Jara
(Estadio Chile, settembre 1973)

Citazioni e poesia tratte dal libro
Victor Jara, una canzone infinita,
di Juan Jara,
Sperling & Kupfer Editori, 1999

http://www.fundacionvictorjara.cl/images/02mariposa_01.gif


domenica 26 agosto 2007

Enzo Baldoni, tre anni dopo

Tre anni senza Baldoni,
ostaggio dimenticato


Enzo Baldoni, scomparso in Iraq

La moglie accusa: "Non è stato fatto niente per riportare il corpo a casa"

ROMA
«Non è stato fatto abbastanza, anzi, penso che non sia stato fatto niente, per far sì che il corpo di Enzo potesse tornare a casa. Mio marito è stato dimenticato». A tre anni esatti dalla morte del giornalista umbro, Enzo Baldoni, ucciso dai suoi rapitori del sedicente «Esercito islamico dell’ Iraq», è la moglie Giusi Bonsignore a parlare con l’amarezza nel cuore ricordando la vicenda di suo marito del quale non sono stati ancora recuperati resti. È il 26 agosto del 2004, sono da poco passate le 23, quando Al Jazeera comunica di aver ricevuto un video, con le immagini, poi definite agghiacciantì dall’ambasciatore italiano a Doha, dell’esecuzione di Enzo Baldoni, giornalista freelance e collaboratore di Diario, sequestrato il 20 agosto in Iraq.

L'amarezza della moglie
«Sono passati tre anni - ha affermato Giusi Bonsignore - e mi sembra che fin dall’inizio questa questione sia stata accantonata. Avrei voluto vedere un intervento più deciso. Anche solo un intervento, ma non ho visto nulla. Ora tutta la famiglia sta aspettando. Io aspetto e mi aspetto, ogni giorno, di sentire qualcuno che mi dica: stiamo facendo qualcosa».

«Continuo a pensare che non sia difficile arrivare a Enzo - ha concluso la moglie del giornalista -. Ma il fatto è che è stato dimenticato e con lui la sua vicenda. Chi potrebbe fare qualcosa forse ha altro da fare e non reputa il recupero della salma di mio marito una cosa importante. Non penso che sia così complicato arrivare a lui dato che abbiamo anche avuto riscontri anche con il dna positivo». «C’è qualcuno che il corpo di Enzo ce l’ha e ha permesso di fare questo riscontro - ha proseguito Bonsignore - Nessuno mi ha mai detto più nulla. Quando dico che Enzo è stato dimenticato spero di sbagliarmi e che invece ci sia qualcuno che si stia adoperando per ottenere il rientro perchè ritengo doveroso riportare le spoglie di mio marito in Italia».

Il sindaco di Preci: "Enzo, un uomo di pace"
E a chiedersi «se veramente lo Stato italiano ha fatto tutto il possibile per salvare Enzo Baldoni quando era possibile» e se «veramente si sta facendo tutto il possibile perchè non svanisca quella minima possibilità e speranza del ritrovamento dei resti di Enzo» è anche il sindaco del piccolo comune umbro di Preci, Alfredo Virgili che, in questi giorni, ha fatto affiggere sul territorio di Preci manifesti «in ricordo di Enzo Baldoni, uomo di pace e solidarieta».

«In tanti, il padre di Enzo per primo, ci siamo fatti questa domanda - sottolinea Alfredo Virgili - Il fatto che di Enzo Baldoni non se ne parli più lascia qualche dubbio su quanto si stia facendo. C’è una famiglia che non può piangere il suo caro davanti ad una tomba, perchè una tomba per Enzo non è stata mai possibile averla. Sembra che oggi ci siamo dimenticati che i resti di Enzo non sono mai stati riportati alla famiglia». Tra i progetti dell’amministrazione comunale anche quello di dedicare un monumento al giornalista ucciso. «Un segnale importante da lasciare a Preci - ha detto il primo cittadino -, amministrazione particolarmente legata alla figura di Enzo Baldoni e alla sua famiglia. Una figura che ha segnato pagine importanti nel conflitto in Iraq».

Giovedì scorso, inoltre, Baldoni è stato ricordato con una messa, celebrata nella chiesa di Preci e alla quale ha preso parte la famiglia. «Noi ci siamo dati e ci stiamo dando da fare per ritrovare la salma di mio figlio - ha affermato il padre di Enzo, Antonio Baldoni -, ma qui sembra non si faccia mai giorno. Ci dissero che avevano trovato un rammento di osso. Poi abbiamo fatto la prova del dna che sembrava positiva. Da allora non abbiamo saputo più niente e c’è qualcosa che non ci convince. Se il dna era compatibile ci devono dare delle risposte perchè non è possibile vivere in sospeso».

Vinti: "Un esempio per le nuove generazioni"
Ad augurarsi che «il giornalismo coraggioso di Enzo Baldoni sia di esempio per le nuove generazioni» è stato il capogruppo di Prc-Se in Regione, Stefano Vinti, che ha voluto rinnovare il suo invito alle autorità, «affinchè facciano tutto il possibile per arrivare al ritrovamento del suo corpo martoriato, ed ai sindaci dei comuni umbri, perchè intitolino a suo nome una via o una piazza nella propria città». Vinti ricorda Enzo Baldoni definendolo «un giornalista coraggioso che si era recato in Iraq, un paese martoriato dalla guerra per capire e raccontare le sofferenze di un popolo che alla guerra stava pagando un enorme tributo di sangue».

«Per poterlo fare compiutamente - ha proseguito Vinti -, Enzo Baldoni non si sottrasse ai pericoli nei quali poteva incorrere ed anzichè seguire l’esempio di tanti suoi colleghi che parlavano di quel conflitto comodamente seduti nella hall di un hotel a cinque stelle, scelse una strada completamente diversa. Il contatto fisico con la gente, le escursioni nei luoghi più colpiti ed esposti, le visite agli ospedali, fra i feriti e gli intrepidi medici ed infermieri che facevano i conti con i pochi mezzi che avevano a disposizione nel tentativo disperato di salvare più vite possibili. Alla fine questa sua generosità e disponibilità l’ha pagata a caro prezzo, ma rimanga ai suoi cari, ai quali rinnoviamo la nostra sincera solidarietà, la consolazione che la sua vita non è stata spesa invano».

La notizia dell’uccisione di Baldoni colse tutti di sorpresa il 26 agosto di tre anni fa e fece gelare anche le ultime speranze che la famiglia e la Croce Rossa italiana avevano cominciato a nutrire. Erano, infatti, passate solo poche ore dalla scadenza dell’ultimatum dato dai terroristi all’Italia per ritirare i propri militari. La Farnesina comunicò subito la tragica notizia della morte del giornalista di Diario alla famiglia ed inviò l’ambasciatore in Qatar per verificare le tragiche immagini in possesso di Al Jazeera.

fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200708articoli/25126girata.asp

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26 agosto 2004: Enzo Baldoni è stato ucciso
Al Jazeera: "Abbiamo un video"

I terroristi: "L'Italia se ne doveva andare dall'Iraq"
Nelle ultime ore erano sembrati aprirsi spiragli di trattative

ROMA - Enzo Baldoni è stato ucciso. I suoi rapitori hanno inviato alla tv satellitare Al Jazeera un video con l'esecuzione del giornalista freelance sequestrato il 20 agosto scorso. "Sono immagini agghiaccianti", ha detto l'ambasciatore italiano a Doha che ha potuto. "Abbiamo ricevuto il filmato che mostra Enzo Baldoni dopo essere stato ucciso", ha detto un giornalista di Al Jazeera alla Reuters, aggiungendo di non volerlo mostrare "per rispetto della famiglia". Il filmato mostrerebbe una serie di immagini confuse che si concludono con una colluttazione, forse l'ultima reazione dell'ostaggio. Baldonisarebbe stato ucciso con un colpo di arma da fuoco.

La tv ha anche detto che Baldoni sarebbe stato ucciso per il mancato ritiro delle truppe italiane dall'Iraq. "L'Esercito Islamico in Iraq ha annunciato di aver compiuto l'esecuzione dell'ostaggio italiano rapito in Iraq - ha detto al Jazeera, citando un comunicato - su ordine del suo legittimo tribunale". Baldoni, prosegue il comunicato, è stato ucciso perché "l'esecuzione risponde al rifiuto del governo italiano di ritirare i suoi soldati dall' Iraq entro 48 ore". La procura di Roma chiederà al Qatar di poter acquisire il video.

La notizia dell'assassinio di Baldoni arriva all'improvviso e gela le speranze che nelle ultime ore sia la famiglia che la Croce rossa italiana incominciavano a nutrire. L'ultimatum lanciato dal sedicente Esercito islamico dell'Iraq al governo italiano era scaduto oggi alle 16, ma qualche spiraglio nella trattativa per la sua liberazione sembrava essersi aperto.



C'erano alcuni elementi che inducevano all'ottimismo. Per esempio la natura di quell'ultimatum. Gli esperti, fin dal primo momento, avevano ritenuto non ultimativa la scadenza e considervano le 48 ore solo un termine per altre richieste. Tutti si aspettavano Quello che si aspettavano gli uomini dei Servizi era un secondo video, con nuove indicazioni.

Non solo. Anche i familiari erano ottimisti sui canali che sembravano aprirsi. Ancora oggi la moglie di Baldoni, Giusy Bonsignore, aveva espresso "piena fiducia nell'operato della Croce rossa italiana e del suo commissario straordinario Maurizio Scelli". "Sappiamo quanto la Croce Rossa Italiana abbia fatto e stia facendo per alleviare le sofferenze del popolo iracheno. Confidiamo nella sua azione per poter riabbracciare presto Enzo", aveva detto. E anche il commissario straordinario della Cri Scelli si era detto "preoccupato, ma ottimista".

Invece tutto inutile. Inutili le trattative, inutile l'appello di ieri del ministro degli Esteri Franco Frattini su Al Jazeera per difendere il "giornalista coraggioso", andato in Iraq "per aiutare".

Restano però molti interrogativi. Non solo su dove esattamente si siano inceppate le trattative, ma anche sulla ricostruzione della cattura di Baldoni. Il settimanale Diario per il quale il giornalista freelance lavorava solleva molte perplessità sulla versione fornita dalla Croce rossa con cui Baldoni viaggiava quel giorno. In un'inchiesta che verrà pubblicata nel numero in edicola domani, Diario accusa l'organizzazione di essere stata reticente su alcuni passaggi importanti.

Non si sa nulla per esempio, sostiene il settimanale, delle ore della mattina di venerdì 20 agosto quando Baldoni era a Kufa insieme alla Cri prima che quest'ultima tornasse a Bagdad. Non si sa se, quando e con chi Baldoni avesse deciso di lasciare la città. Non si capisce perché in un primo tempo la Croce rossa abbia detto che Baldoni non era mai arrivato a Najaf, cosa smentita dalle immagini televisive della troupe della Rai che era con loro.


Fonte: http://www.repubblica.it/2004/h/sezioni/esteri/iraq31/jazeera/jazeera.html

leggete anche: http://www.repubblica.it/2004/h/sezioni/cronaca/enzobaldoni/ritratt/ritratt.html
e
http://franca-bassani.blogspot.com/2007/08/dimenticato.html

Ciao Enzo... noi ti ricordiamo ancora.

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