"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

domenica 30 settembre 2007

L'impero romano sta crollando













E allora si rivolge all'Iran ed alla Siria...

di Robert Fisk



L'Impero Romano sta crollando. Questo, in una sola frase, è quello che la Relazione Baker dice. Le legioni non sono in grado di imporre il loro potere sulla Mesopotamia.

Proprio come Crasso perse le insegne delle sue legioni nel deserto della Siria-Iraq, così anche Bush ha perso. Non c'è però nessun Marco Antonio per riscattare l'onore dell'impero. La politica adottata "non funziona". "Crollo" e "catastrofe", parole che si sentirono nel Senato Romano molte volte all'epoca, erano embedded, inserite, nel testo della Relazione Baker. Tu quoque, James? (James Baker, ndt.)

Questo è anche il linguaggio usato dal Mondo Arabo, da sempre in attesa del crollo dell'impero, della distruzione di quel tranquillo Mondo Occidentale che lo ha rifornito di soldi, armi e appoggio politico.

Prima gli arabi si sono fidati dell'Impero Britannico e di Winston Churchill, e poi si sono fidati dell'Impero Americano, di Franklin Delano Roosevelt e delle amministrazioni Truman e Eisenhower e di tutti gli altri uomini che avrebbero dato fucili agli israeliani e miliardi agli arabi: Nixon, Carter, Clinton, Bush...

E ora si sentono dire che gli americani non stanno vincendo la guerra, ma la stanno perdendo. Se tu fossi un arabo, cosa faresti? State certi, a Washington questa domanda non se la pongono. Il Medio Oriente, così fondamentale (a quanto pare) nella "guerra al terrore", di per sé un mito, non interessa veramente alla Casa Bianca. E' un distretto, una cartina geografica, una regione, del tutto amorfa, così come l'escalation della "crisi" inventata dall'amministrazione Clinton quando voleva stanziare le sue truppe in Somalia.

Come uscirne, come salvare la faccia, questa è la vera questione. Al diavolo insieme alla gente che vive là: gli arabi, gli iracheni, gli uomini, le donne e i bambini che noi uccidiamo, e che gli iracheni uccidono, ogni giorno. Notate come i nostri "portavoce" in Afghanistan ora ammettono l'uccisione di una donna e dei suoi bambini da parte dei raid aerei della Nato, come se fosse del tutto normale massacrare questi innocenti solo perché siamo in guerra con i terribili Talebani.

Parte di questo stesso atteggiamento mentale è arrivato anche a Baghdad, dove i portavoce della "coalizione", di tanto in tanto, di fronte alle prove filmate ammettono che anche loro uccidono donne e bambini nella guerra contro il "terrore". Ma sono le dichiarazioni di impotenza che condannano gli imperi. "La capacità degli Stati Uniti di influenzare gli eventi in Iraq sta diminuendo". C'è il rischio di uno "scivolamento" nel caos tale che potrebbe innescare il crollo del governo iracheno e una catastrofe umanitaria."

Ma non è già successo? "Crollo" e "catastrofe" sono presenti ogni giorno in Iraq. La capacità dell'America "di influenzare gli eventi" è assente da anni. E rileggiamo anche questa frase: "La violenza è in aumento sia nei suoi obiettivi che nei livelli di mortalità. La violenza è alimentata da una rivolta arabo-sunnita, dalle milizie sciite [Shia], le squadre della morte, al-Qa'ida e criminalità diffusa. Il conflitto tra sette è la principale minaccia alla stabilità."

Di nuovo? Dov'era questa "criminalità diffusa", questo "conflitto tra sette" quando Saddam, il nostro criminale di guerra preferito, era al potere? Cosa pensano gli iracheni di questo? Ed è tipico che i media americani siano andati subito a sentire l'opinione di Bush sulla Relazione Baker, piuttosto che la reazione degli iracheni, cioè delle vere vittime di questa tragedia auto-indotta da noi stessi in Mesopotamia.

Apprezzeranno l'idea che le truppe americane debbano essere 'embedded', inserite, tra le forze irachene - eppure non troppo tempo fa era la stampa a dover essere embedded con gli americani! - come se i Romani fossero stati pronti a mettere le loro legioni in mezzo ai Goti, Ostrogoti e Visigoti per assicurarsi la loro lealtà.

Ciò che i Romani in realtà fecero, naturalmente, e che gli americani invece non farebbero mai, è offrire ai loro sudditi la cittadinanza romana. Tutte le tribù, in Gallia, Bitinia o Mesopotamia, che caddero sotto il dominio romano, divennero cittadini di Roma. Cosa avrebbe potuto fare Washington con l'Iraq se avesse offerto la cittadinanza americana a tutti gli iracheni? Non ci sarebbe stata insurrezione, violenza, collasso o catastrofe, non ci sarebbe stata una Relazione Baker. Ma no. Noi volevamo dare a questi popoli i frutti della nostra civiltà, non la civiltà stessa. Da questa, loro erano banditi.

E il risultato? Ci aspettiamo che le nazioni che si suppone odiassimo, Iran e Siria, ci salvino da noi stessi. "Data la capacità [sic] di Iran e Siria di influenzare gli eventi e il loro interesse nell'evitare il caos in Iraq, gli Stati Uniti dovrebbero tentare di coinvolgerli [sic] costruttivamente." Amo queste parole. Specialmente "coinvolgerli". Sì, "l'influenza dell'America" sta diminuendo. L'influenza di Siria e Iran sta crescendo. Questa è la vera sintesi della "guerra al terrore". Nessun commento ancora, mi chiedo, da Lord Blair di Kut al-Amara?

Le strategie

Il gruppo Baker ha preso in considerazione quattro opzioni, tutte respinte:

Cut And Run - Tagliare la corda e Ritirarsi

Baker ritiene che questo causerebbe un disastro umanitario, mentre al-Qa'ida si espanderebbe ulteriormente.

Stay the Course - Perseverare nell'operazione

Baker ammette che l'attuale politica Usa non funziona. Quasi 100 americani muoiono ogni mese. Gli Usa stanno spendendo 2 miliardi di dollari alla settimana e hanno perso l'appoggio dell'opinione pubblica.

Send in More Troops - Mandare altre Truppe

L'aumento delle truppe Usa non risolverebbe le cause della violenza in Iraq. La violenza semplicemente si riacutizzerebbe non appena le forze Usa si spostassero.

Regional Devolution - Devolution Regionale

Se il paese si separasse nelle sue regioni Shiite, Sunnite e Kurde, questo porterebbe a pulizie etniche e spostamenti in massa della popolazione. Baker delinea anche una quinta opzione - 'responsible transition', transizione responsabile - in base alla quale il numero delle forze Usa potrebbe essere aumentato per rafforzare l'esercito iracheno mentre si assume la responsabilità principale delle operazioni di combattimento. Le truppe Usa poi diminuirebbero lentamente.

Fonte: Znet.it
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Il 'Palma', un 'Nuovo Cinema Paradiso' a Trevignano


Una delle cose che non mi fa sentire la mancanza del centro caotico della città, e apprezzare maggiormente la vita di provincia, è questo cinema dal sapore antico, davvero a misura d'uomo, e dove una prima visione costa ancora 4 euro. Proiettore a vista e inquadrature frequentemente sballate e risistemate, proiezione che si interrompe tra le risa del pubblico, che ormai c'ha fatto il callo. Infine una ricca programmazione, che cambia settimanalmente e che dà più spazio al cinema "di qualità" che ai grandi sbanca-botteghino di Hollywood. L'associazione con il "Nuovo Cinema Paradiso" mi è venuta subito spontanea, ma oggi scopro quant'è fondata, e che il Cinema Palma ha una storia romantica e romanzesca. Se passate da Roma Nord, fate una deviazione per Trevignano, disertate i vari multisala: la visione continua del film non è assicurata....farebbe parte di quei 3 euro e 50 che mancano dal prezzo del biglietto! (Io stasera vado al cinema! :)
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Roma. "Ho deciso comprerò una macchina da proiezione: una Balilla". Comincia così alla fine del 1939 la storia del cinema Palma di Trevignano Romano una piccola sala che, passando attraverso traversie di ogni genere, è riuscita a diventare oggi un punto di riferimento del cinema di qualità di tutta la zona. A raccontarla in prima persona è il nipote del fondatore, Fabio Palma, gestore di una pompa di benzina per professione e cinematografaro per passione, nel libro 'La Balilla di Nonno Fabio', scritto da Corrado Giustiniani. Il volume sarà presentato martedì prossimo alle 17 al Campidoglio dal primo cittadino, Walter Veltroni e il celebre regista, Giuseppe Tornatore, autore tra gli altri di 'Nuovo cinema Paradiso'. L'incontro sarà coordinato da Fabio Ferzetti con letture di Michela Cescon.Tutto comincia fra il 1939 e il 1940. "Nonno Fabio - racconta il nipote - era un provetto artigiano". Era bravissimo a costruire le parti in legno degli aeroplani e delle barche. Ma "aveva due pallini: la sala da ballo e il cinematografo che l'appassionava più d'ogni altra cosa". Fu così che decise di comprare una macchina da proiezione e la scelta cadde su una Balilla. "Niente a che vedere - spiega - con l'automobile della Fiat: il fatto è che, sotto il fascismo, quel nome era piuttosto inflazionato". La falegnameria divenne allora "sala per il pubblico" e la magia "delle immagini in bianco e nero" arrivò anche in questo piccolo villaggio di "milleduecento cristiani, più somari, pecore e galline". Il primo film proiettato fu 'Frutto Acerbo' di Carlo Ludovico Bragaglia."Il cinema è la vera attrazione della domenica pomeriggio". E' un vero e proprio lusso "in un paese dove le case sono prive spesso di servizi igienici", ma "chi non aveva i soldi per il biglietto pagava con frutta o uova". Il pubblico non mancava mai anche se era ancora un po' ingenuo. "Una volta - racconta il nipote - apparve un treno sullo schermo e gli spettatori scapparono via, temendo di essere investiti". Durante i bombardamenti, il nonno salvò la vecchia Balilla nascondendola in una cassa sotto terra. Era il 1945 quando il figlio Fernando la ritrovò e si rituffò nell'avventura. Sono gli anni in cui ricomincia a mostrarsi al pubblico una nuova generazione di attori e registi che, dopo il conflitto mondiale, faranno grande il cinema italiano. C'è Alida Valli in Piccolo Mondo Antico, Totò in Allegro Fantasma e Vittorio De Sica che racconta Un garibaldino al convento. Il biglietto costava 3 lire. Devastato e ricostruito dopo la tromba d'aria che lo colpì nel 1954, il cinema Palma non resse all'arrivo della tivvù e ai due decreti 'Salva - Berlusconi'. E' il 1985 ormai quando, con appena 500 spettatori in un anno, è costretto a chiudere i battenti.Nel febbraio del 1986 riapre, lanciando un'altra sfida: il cinema d'essai in provincia. Stavolta è il nipote di Nonno Fabio - suo omonimo - a scommettere sulle pellicole di qualità . Pupi Avati, Gabriele Salvatores, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, Michele Placido e Michelangelo Antonioni passarono per Trevignano e consacrarono il successo dell'iniziativa. "Con buona pace di Vittorio Cecchi Gori che disse: il cinema di qualità in provincia non decollerà mai" dice sorridendo il giovane Fabio. L'anno scorso è stata aperta una saletta da 60 posti, dedicata il sabato e la domenica ai bambini. Prenderà servizio assieme alla sorella maggiore da 160 e all'arena estiva da 300 posti."Mentre chiudo una sera mi arriva una lettera da Cinecittà" scrive Fabio. "Siamo stati scelti assieme ad altre dieci sale in tutta Italia per installare un proiettore digitale di ultima generazione". Si ricomincia ancora, il ricordo va alla Balilla e "a quel proverbio della fortuna e degli audaci".
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Non solo benzinai, in ottobre dieci categorie in sciopero

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OTTOBRE CALDO..


Benzinai, magistrati, farmacisti, medici, piloti, dipendenti delle Regioni, addetti alle telecomunicazioni, medici ambulatoriali, controllori di volo, personale di terra Alitalia:


sono dieci le categorie che sciopereranno nel mese di ottobre. Venerdì 5 cominciano per l'intera giornata i dipendenti di Vodafone, seguiti lunedì 8 dai giudici di pace, di nuovo sul piede di guerra contro una riforma che non ha preso in considerazione nessuna delle loro richieste: la protesta entrerà nel vivo con due scioperi nazionali, uno dall'8 al 12 ottobre e l'altro dal 5 al 10 novembre prossimi. Al centro della polemica, la denuncia del «gravissimo stato di precariato della categoria illegalmente esclusa dalla tutela dei diritti e dalle garanzie fondamentali previste dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (salute, maternità e previdenza)».

Dal 9 ottobre, per tre giorni, benzinai chiusi: la protesta inizierà dalle 19 per i gestori di impianti sulla rete ordinaria e alle 22 per quelli in autostrada. Nello stesso giorno fermi dalle 10 alle 14 i piloti di Alitalia Express e del grupo Alitalia. L'11, invece, si fermeranno i medici ambulatoriali del Sumai con modalità non ancora comunicate alla commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero. Il 20 ottobre stop dalle 12,30 alle 16,30 dei dipendenti di Flight Care Alitalia seguiti il 22 ottobre dai controllori di volo dalle 10 alle 18 esclusi i voli Meridiana.

Le farmacie private resteranno chiuse per 25 ore il 25 ottobre. Infine, il 26 ottobre sciopero per l'intera giornata dei dipendenti del ministero delle Riforme e Innovazioni nella Pubblica Amministrazione, settore regioni e autonomie locali.

fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Attualita/2007/09/scioperi-ottobre.shtml?uuid=dc564f6a-6f66-11dc-8fa3-00000e25108c&type=Libero

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Fermare il massacro dell'università

(fonte immagine: http://www.archiviostorico.unibo.it/images/homepicture.jpg)


On. presidente Prodi, on. Ministro Mussi.


Scrivo questa lettera aperta per chiedere di fermare il masochistico massacro dell’università e delle inevitabili conseguenze che sul paese avranno le scelte operate dal suo governo. L’anomalia italiana di un’Università costituita da un organico caratterizzato da solo un terzo di ricercatori con età media di 50 anni e dai restanti 2/3 da professori con età media di 63, descrive senza la necessità di commenti l’assenza di ricambio generazionale e di conseguenza il rapido declino a cui è destinata la ricerca italiana e quindi il futuro del nostro paese.

Il Governo, anziché affrontare le modalità per l’inserimento nell’organico di ruolo del precariato storico (rappresentato da ricercatori maturi che dopo i tre anni di dottorato hanno prestato servizio con ulteriori quattro/cinque anni di assegni di ricerca, finanziati da progetti di valenza internazionale, a cui hanno avuto accesso tramite concorso pubblico), si operano tagli ai fondi di ricerca e non si indicano dei concorsi nazionali, per permettere ai più meritevoli di accedere e garantire il trasferimento delle conoscenze alle generazioni più giovani. Un segnale negativo è stato dato dall’emendamento aggiuntivo all’Art. 3 del D. Lgs del 05.09.07 con il quale si trasferiscono agli Atenei i fondi aggiuntivi che il Ministero avrebbe dovuto ripartire dopo aver definito nuove modalità concorsuali.

Non si capisce per quale motivo le Università stanno giustamente stabilizzando il personale amministrativo, mentre il personale di ricerca, sulle cui spalle negli ultimi dieci anni è pesata sia l’attività di ricerca che di didattica, sia pesantemente discriminato. La campagna denigratoria della ricerca scientifica non è giustificata dai numeri e lo dimostrano le numerose pubblicazioni scientifiche di elevato impatto internazionale che questi ex giovani hanno nonostante le poche risorse e i disagi dello stato di precariato. I ricercatori precari sono i primi a non volere un “ope legis” ma il riconoscimento di meriti conquistati sul campo attraverso lo sviluppo di ricerche di punta, la formazione di giovani ricercatori a cui sono state trasmesse le innovazioni prodotte da tali ricerche e articoli scientifici di rilevante impatto innovativo.

On Presidente Prodi e On Ministro Mussi da elettore e docente universitario vi chiedo di affrontare e sanare questa decennale agonia a cui sono soggetti le migliori menti del nostro paese, che fino a quando possono resistere non lo abbandonano per amore e per la consapevolezza di poter contribuire a migliorarlo.
Censendo e prendendo atto dello stato del precariato, potete distribuire correttamente le risorse rese annualmente disponibili dalla legge finanziaria, evitando di continuare, come prima, a ripartirle tra i vari gruppi di potere. Con quelle risorse andrebbero urgentemente sanati quei ricercatori in grado di dimostrare che, negli anni di precariato post dottorato, hanno pubblicato su riviste internazionali ad elevato impatto, hanno contribuito allo sviluppo di progetti internazionali.

Non è comprensibile perché molti di questi ricercatori maturi siano da anni considerati abili a tenere insegnamenti universitari, ad essere relatori di tesi di laurea e responsabili di progetti internazionali o responsabili di scuole di perfezionamento, ma non siano considerati sufficientemente idonei ad usufruire e poter partecipare ad un concorso libero, che permetta loro di dimostrare le capacità sviluppate e di accedere a pieno diritto al ruolo che da anni ricoprono da precari.

Il Governo se non affronta questo problema e anziché promuovere un concorso nazionale, distribuisce i posti alle singole sedi locali, indipendentemente dalla presenza o meno di precari storici da stabilizzare, lasciando liberi gli atenei di dirottare le risorse ad altri settori, finirà per lasciare spazio allo sviluppo di meccanismi perversi, basati sul potere dei singoli gruppi e non su un riconoscimento del merito. In pochi anni nonostante i Professori possono andare in pensione a 75 anni, l’Università è destinata drammaticamente a spopolarsi e allora sarà necessario operare un ingresso in massa non basato sul merito ma sull’emergenza.

Nessuno nega che nell’attuale distribuzione tra potentati, più politici che scientifici, una consistente parte dei posti possa essere assegnata anche a parti di questo “precariato storico”, ma le modalità di distribuzione non sono però determinate dal riconoscimento del servizio prestato e dalla carriera dei singoli, quanto dalla fedeltà al professore-barone e dalla sua capacità politico-clientelare di accaparrarsi un importante numero di posti disponibili per l’intero ateneo. Che fine faranno i ricercatori negli anni cresciuti fuori dell’ala protettiva dell’ordinario di riferimento?

Occorre ricordarsi che, nonostante le scarsissime risorse che lo Stato destina alla ricerca, l’Università italiana è oggi competitiva con le principali Università estere, grazie al lavoro fatto da questi ricercatori precari, e farseli scappare verso quelle università estere che ogni giorno li cercano, costituirebbe un danno difficilmente recuperabile in tempi medi; e con la velocità dell’innovazione e della ricerca globale, i tempi brevi sono già lunghi.

Carmela Vaccaro
Professore associato di Petrografia
Dipartimento di Scienze della Terra
Università di Ferrara

vcr@unife.it


(30 settembre 2007)

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Birmania: Negati i viveri al popolo





Programma alimentare
(nella foto: Yangon: tracce degli scontri nelle strade della capitale birmana (Epa))




SANGUE e fame. Repressione e taglio dei viveri. La giunta militare birmana continua a infierire con ogni mezzo sulla popolazione, per stroncare la rivolta di monaci e laici. Nelle ultime ore ha prima bloccato la distribuzione di aiuti alimentari dal parte del Pam (Programma alimentare mondiale dell’Onu) a oltre 500mila persone e poi l’ha ripristinata: «Un appello alle autorità per avere accesso a Paese - ha commentato ieri mattina la direttrice del Pam Sheeran - La nostra preoccupazione è Mandalay, centro logistico e di smistamento», ha aggiunto Risley, portavoce del Pam per l’Italia. Qualche ora più tardi le autorità militari hanno dato il permesso di trasportare e consegnare a Lashio (centro-est) 195 tonnellate di cibo.


Nella poverissima Birmania, attualmente mezzo milione di persone dipendono da un piano triennale del Pam. In totale i beneficiari dovrebbero essere 1,6 milioni, per un investimento totale di oltre 51,7 milioni di dollari ma l’organizzazione è riuscita finora a raccoglierne dai donatori solo 12,5 milioni. In alcune zone del Paese la malnutrizione riguarda fino al 70% dei bambini. Sono oltre 10mila - denuncia l’Unicef - le donne affette da Hiv che ogni anno danno alla luce tra i 3000 e i 4000 neonati portatori del virus.


È proprio la fame a creare una triste quanto forte saldatura tra i monaci e i più poveri tra i poveri. I monaci - secondo i precetti buddisti - non possiedono nulla. Ma quando, all’alba, centinaia di tuniche rosse percorrono le strade polverose di villaggi e città, la ciotola delle elemosine si riempie di riso. Quando i monaci mangiano, la svuotano solo in parte. In fila, la gente attende la fine del pasto: nelle ciotole rimane sempre un po’ di riso. Così i monaci, lo versano fino all’ultimo chicco in buste di plastica, poi si avviano verso i lavatoi comuni.


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Birmania, l'inviato Onu con Aung San Suu Kyi



Dopo l'incontro con i generali, Gambari si è visto oggi con la leader dell'opposizione birmana e premio Nobel per la pace


RANGOON - L’inviato speciale dell’Onu per la Birmania, Ibrahim Gambari, ha incontrato oggi a Rangoon la leader dell'opposizione birmana Aung San Suu Kyi. L'incontro si è svolto nella residenza di University Avenue, la stessa strada dove abita si trova la San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, costretta da anni agli arresti domiciliari. Soldati e agenti di polizia in tenuta antisommossa hanno circondato la struttura residenziale, bloccando ogni accesso alla strada con filo spinato e barriere di legno. L’incontro tra l’inviato Onu e San Suu Kyi è durato circa 90 minuti. Dopodiché è ripartito alla volta della capitale Naypyitaw, da cui era rientrato questa mattina dopo aver incontrato esponenti della giunta militare, ma non il suo leader, generale Than Shwe, né il suo vice, Maung Aye. E’ stato un diplomatico asiatico a riferire del nuovo viaggio del rappresentante Onu. Non è escluso che l’inviato delle Nazioni Unite oggi porti con sè un messaggio di San Suu Kyi alla giunta.


MISSIONE ONU - La missione Onu si è resa urgente dopo la violenta repressione messa in atto dai militari contro i manifestanti birmani scesi in piazza dal 19 agosto scorso per protestare contro il rincaro del prezzo del carburante. La mobilitazione ha suscitato l’interesse della comunità internazionale quando la guida delle proteste è stata assunta da migliaia di monaci buddisti, al fianco della gente per denunciare la brutalità del regime e chiedere negoziati di riconciliazione nazionale. I generali hanno risposto anche questa volta con la forza, aprendo il fuoco sulla folla e causando almeno 10 morti, anche se fonti dell’opposizione parlano di un bilancio molto più sanguinoso. Almeno mille le persone arrestate, tra cui centinaia di monaci. Nei giorni scorsi, i militari hanno occupato e isolato i principali monasteri di Rangoon e Mandalay per impedire ai religiosi di scendere di nuovo in piazza. Con la prigione ormai piena, gli arrestati vengono detenuti negli edifici universitari e in altre strutture scolastiche.

30 settembre 2007

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Il bambino timido e solo che processa la Casa Bianca




Ha 12 anni e sfida Bush sulla Sanità. Alla radio chiede: "Presidente perché mi vuole morto?"

(nella foto: Graeme Frost parla con i giornalisti a Washington)

dall'inviato di Repubblica VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON - Con il caschetto di capelli biondi, gli occhiali da miope e le mani intrecciate per nascondere il nervoso, è un ragazzo di 12 anni con la faccia di Macaulay Culkin di "Mamma ho perso l'aereo" il nuovo "nemico pubblico numero uno" di George W. Bush, nel film vero che sta terrorizzando la Casa Bianca.

Si chiama Graeme Frost, viene da Baltimora e dai microfoni delle radio, dalle tribune del Congresso, sta ribattendo e rispondendo direttamente a Bush. Lo accusa di volere la sua morte e la morte di tutti i bambini e le bambine come lui, che per sopravvivere a malattie e incidenti dipendono da quella sanità pubblica che la Casa Bianca vorrebbe falciare nel nome dell'ideologia privatista e degli interessi del "big business" assicurativo.

La storia di Graeme, il bambino che è stato scelto per essere il protagonista di un film che si potrebbe intitolare "Presidente, ho perso l'assicurazione" è insieme una storia vera e una sceneggiatura politica.

Questo ragazzo di seconda media, insieme con un rabbino, una suora cattolica, un infermiera e un pediatra già portati in parata, sono i volti pubblici della battaglia lanciata dai Democratici contro il Presidente Repubblicano sul terreno del problema che angoscia la vita quotidiana degli americani di ogni età e condizione: l'assicurazione sulla salute.

Graeme aveva 8 anni quando viaggiava con la sorella sull'auto del padre che scappò via sul ghiaccio di dicembre. Si ferì gravemente. In quattro anni di interventi chirurgici, assistenza, riabilitazione lenta, è tornato in piedi, un ragazzo come gli altri ora in settima classe nella Park High School di Batimore. Ma il miracolo della sua piccola resurrezione non sarebbe avvenuto se il padre avesse dovuto pagare con il suo reddito di 36 mila dollari all'anno il conto medico, fisioterapico e ospedaliero (finora) di 400 mila dollari. Fu pagato da Schip, che non è un benefattore, ma l'acronimo del programma di assicurazione pubblica statale per minorenni delle famiglie di reddito basso, che gli stati americani finanziano con i fondi ricevuti dal governo federale. Ora il caritatevole "Mister Schip" ha finito i soldi e Washington lo deve rifinanziare.
Generosamente, vota la maggioranza democratica in Parlamento con ampia collaborazione del partito repubblicano (67 "sì" su 100 senatori). Tirchiamente, pretende Bush, il "Mister Scrooge", l'avaro delle rappresentazioni natalizie, che ha annunciato il veto ai 35 miliardi di dollari di aumento e l'estensione anche a fasce di reddito più alte (fino a 62 mila dollari l'anno). Lo vede come un cavallo di Troia, questo "Schip", nel quale far passare l'aborrito nemico, la minaccia finale alle civiltà occidentale e alla "american way of life": un sistema sanitario nazionale.

"Irresponsabile" ha risposto Bush a Graeme. Il ragazzino biondo, il rabbino, la suora, il pediatra, l'infermiera, sono pedine per il sociodramma che dal 1947, dai tempi di Harry Truman, l'America recita senza mai portarlo a termine: il dramma della nazione più ricca del mondo che può permettersi di spendere 500 miliardi l'anno per le forze armate, 620 miliardi aggiuntivi per la guerra senza fine, avere tremila miliardi di debito pubblico, ma grida allo stalinismo di fronte a 35 miliardi stanziati per assicurare almeno i figli di chi non può pagare le cifre da riscatto chieste dalle assicurazioni private. Bush non ci sente.

L'ideologia privatista, e la potenza di fuoco delle grandi compagnie di assicurazione che già polverizzarono il tentativo di Hillary e Bill Clinton di introdurre un'assicurazione nazionale, gli faranno mettere i veto all'aumento del finanziamento di questo "Schip", che costerebbe 60 miliardi per i prossimi 5 anni, l'equivalente di appena sei mesi di guerra in Iraq.

Persino il nerboruto governatore della California, nominalmente repubblicano, lo implora di non mettere il veto e di allargare l'assicurazione sanitaria per i figli delle famiglie medio basse. Ma il principio conta sempre più della realtà, in quel film in bianco e nero che è il mondo di Bush, e i candidati democratici per la Casa Bianca, che sventolano tutti le promesse di una nuova era per la sanità, sentono di averlo, questa volta, incastrato.

Il bambino smarrito e timido che chiede con la voce spezzata dai primi sintomi dell'adolescenza di non lasciarlo a casa da solo senza l'assicurazione, è un nemico politicamente più micidiale dei sinistri barboni che delirano dalle lontane caverne dell'Asia.

(30 settembre 2007)




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sabato 29 settembre 2007

GAZA VIVRA’ - Appello per la fine di un embargo genocida




Nel 1996, votando massicciamente al-Fatah, i palestinesi espressero la speranza di una pace giusta con Israele. Questa speranza venne però uccisa sul nascere dalla sistematica violazione israeliana degli accordi. Essi prevedevano che entro il 1999 Israele avrebbe dovuto ritirare le truppe e smantellare gli insediamenti coloniali dal 90% dei Territori occupati.

Giunto al potere dopo la sua provocatoria «passeggiata» nella spianata di Gerusalemme, Sharon congelò il ritiro dell’esercito e accrebbe gli insediamenti coloniali — ovvero città razzialmente segreganti i cui abitanti, armati fino ai denti, agiscono come milizie ausiliarie di Tsahal. Come se non bastasse, violando anche stavolta le risoluzioni O.N.U., diede inizio alla edificazione di un imponente «Muro di sicurezza» la cui costruzione ha implicato l’annessione manu militari di un ulteriore 7% di terra palestinese.

Nel tentativo di schiacciare la seconda Intifada, Israele travolse l’Autorità Nazionale Palestinese e mise a ferro e fuoco i Territori. Migliaia i palestinesi uccisi o feriti dalle incursioni, decine di migliaia quelli rastrellati e arrestati senza alcun processo. Migliaia le case rase al suolo. Decine i dirigenti ammazzati con le cosiddette «operazioni mirate». Lo stesso presidente Arafat, una volta dichiarato «terrorista», venne intrappolato nel palazzo presidenziale della Mukata, poi bombardato e ridotto ad un cumulo di macerie.


Evidenti sono dunque le ragioni per cui Hamas (nel frattempo iscritta da U.S.A. e U.E. nella black list dei movimenti terroristici) ottenne nel gennaio 2006 una straripante vittoria elettorale. Prima ancora che una protesta contro la corruzione endemica tra le file di al-Fatah, i palestinesi gridarono al mondo che non si poteva chiedere loro una «pace» umiliante, imposta col piombo e suggellata col proprio sangue.

Invece di ascoltare questo grido di aiuto del popolo palestinese, le potenze occidentali decisero di castigarlo decretando un embargo totale contro la Cisgiordania e Gaza. Seguendo ancora una volta Israele (che immediatamente dopo la vittoria elettorale di Hamas aveva bloccato unilateralmente i trasferimenti dei proventi di imposte e dazi di cui le Autorità palestinesi erano i legittimi titolari), U.S.A. e U.E. congelarono il flusso di aiuti finanziari causando una vera e propria catastrofe umanitaria, ciò allo scopo di costringere un intero popolo a piegare la schiena e ad abbandonare la resistenza.

Questa politica, proprio come speravano i suoi architetti, ha dato poi il suo frutto più amaro: una fratricida battaglia nel campo palestinese. Coloro che avevano perso le elezioni, con lo sfacciato appoggio di Israele e dei suoi alleati occidentali, hanno rovesciato il governo democraticamente eletto per rimpiazzarlo con un altro abusivo. Hanno poi scatenato, in combutta con le autorità sioniste, la caccia ai loro avversari, annunciando l’illegalizzazione di Hamas col pretesto di una nuova legge per cui solo chi riconosce Israele potrà presentarsi alle elezioni. USA ed UE, una volta giustificato il golpe, sono giunte in soccorso di questo governo illegittimo abolendo le sanzioni verso le zone da esso controllate, e mantenendole invece per Gaza.


Un milione e mezzo di esseri umani restano dunque sotto assedio, accerchiati dal filo spinato, senza possibilità né di uscire né di entrare. Come nei campi di concentramento nazisti essi sopravvivono in condizioni miserabili, senza cibo né acqua, senza elettricità né servizi sanitari essenziali. Come se non bastasse l’esercito israeliano continua a martellare Gaza con bombardamenti e incursioni terrestri pressoché quotidiani in cui periscono quasi sempre cittadini inermi.

Una parola soltanto può descrivere questo macello: genocidio!

Una mobilitazione immediata è necessaria affinché venga posto fine a questa tragedia.


Ci rivolgiamo al governo Prodi affinché:

1. Rompa l’embargo contro Gaza cessando di appoggiare la politica di due pesi e due misure per cui chi sostiene al-Fatah mangia e chi sta con Hamas crepa;

2. si faccia carico in tutte le sedi internazionali sia dell’urgenza di aiutare la popolazione assediata sia di quella di porre fine all’assedio militare di Gaza;

3. annulli la decisione del governo Berlusconi di considerare Hamas un’organizzazione terrorista riconoscendola invece quale parte integrante del popolo palestinese;

4. cancelli il Trattato di cooperazione con Israele sottoscritto dal precedente governo.


Tutte le firme devono essere inviate a info@gazavive.com e verranno pubblicate su http://www.gazavive.com/

Oltre a nome e cognome è importante comunicare la città e la qualifica di ogni firmatario.



PRIMI FIRMATARI

- Gianni Vattimo – Filosofo ed ex parlamentare europeo
- Danilo Zolo – Università di Firenze
- Margherita Hack – Astrofisica
- Edoardo Sanguineti – Poeta, Università di Genova
- Gilad Atzmon – Musicista
- Franco Cardini – Università di Firenze
- Mara De Paulis – Scrittrice, Premio Calvino
- Lucio Manisco – Giornalista, già parlamentare europeo
- Costanzo Preve – Filosofo, Torino
- Giulio Girardi – Filosofo e teologo della Liberazione
- Giovanni Franzoni – Comunità Cristiane di Base
- Domenico Losurdo – Università di Urbino
- Marino Badiale – Università di Torino
- Aldo Bernardini – Università di Teramo
- Piero Fumarola – Università di Lecce
- Giovanni Bacciardi – Università di Firenze
- Giovanni Invitto – Università di Lecce
- Alessandra Persichetti – Università di Siena
- Bruno Antonio Bellerate – Università Roma tre
- Rodolfo Calpini – Università La Sapienza, Roma
- Ferruccio Andolfi – Università di Parma
- Roberto Giammanco – Scrittore e americanista
- Gianfranco La Grassa – Economista
- M. Alighiero Manacorda – Storico dell’educazione
- Alessandra Kersevan – Ricercatrice storica, Udine
- Nuccia Pelazza – Insegnante, Milano
- Stefania Campetti - Archeologa
- Carlo Oliva – Pubblicista
- Gabriella Solaro – Ist. Naz. Storia del Movimento di Liberazione in Italia
- Giuseppe Zambon – Editore
- Bruno Caruso – Pittore
- Vainer Burani – Avvocato, Reggio Emilia
- Ugo Giannangeli – Avvocato, Milano
- Giuseppe Pelazza – Avvocato, Milano
- Hamza Roberto Piccardo – Direttore www.islam-online.it
- Nella Ginatempo, Movimento contro la guerra, Roma
- Mary Rizzo – blog Peacepalestine
- Tusio De Iuliis – Presidente Associazione “Aiutiamoli a Vivere”
- Cesare Allara – Com. Sol. Palestina, Torino
- Angela Lano – Giornalista Infopal
- Umar Andrea Lazzaro – Collettivo www.islam-online.it, Genova
- Marco Ferrando – Partito Comunista dei Lavoratori
- Leonardo Mazzei – Portavoce Comitati Iraq Libero
- Mara Malavenda – Slai Cobas, Napoli
- Moreno Pasquinelli – Campo Antimperialista
- Marco Riformetti – Laboratorio Marxista
- Maria Ingrosso – Colletivo Iqbal Masih, Lecce
- Antonio Colazzo – L.u.p.o. Osimo (Ancona)
- Gian Marco Martignoni – Segreteria provinciale Cgil, Varese
- Luciano Giannoni – Consigliere provinciale Prc Livorno
- Dacia Valent – ex Eurodeputata, dirigente dell’Islamic Anti-Defamation League
- Pietro Vangeli – Segretario nazionale Partito dei Carc
- Ascanio Bernardeschi – Prc Volterra (PI)
- Fabio Faina – Capogruppo Pdci al Consiglio comunale di Perugia
- Roberto Massari – Editore, Utopia Rossa
- Fausto Schiavetto – Soccorso Popolare
- Luca Baldelli – Consigliere provinciale Prc Perugia

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Bossi invita alla "guerra di liberazione"



ULTIM'ORA

Il leader della Lega ha accusato la maggioranza di governo di "odio razziale e ideologico contro i popoli del Nord"

Umberto Bossi, leader della Lega Nord, lancia una nuova provocazione.


Dopo le dichiarazioni sullo sciopero fiscale e sui "fucili", il senatur ha arringato la platea del Parlamento del Nord invocando una "guerra di liberazione". "La libertà - ha detto Bossi - non si puó piú conquistare in Parlamento ma attraverso la lotta di milioni di uomini disposti al sacrificio in una guerra di liberazione".




Bossi a poi attaccato la sinistra e il presidente della Repubblica per aver "fatto una cosa gravissima". Napolitano e le forze della sinistra sono colpevoli, secondo il leader della Lega, di "avere tirato fuori il referendum per lottare contro la devolution. In questo modo hanno affossato la democrazia del Paese che ha perso ogni barlume di lucidità democratica".




Bossi ha inoltre accusato la maggioranza di governo di "odio razziale e ideologico contro i popoli del Nord".Il senatur ha poi ribadito la sua fiducia in Berlusconi. "Il candidato premier per noi rimane lui - ha spiegato - perché riesce a tenere bene insieme tutta la coalizione. Una coalizione in cui ci sono tanti matti. Io stesso non nascondo di essere un po' matto…". "Berlusconi - ha aggiunto - è almeno uno che cerca di muoversi per cambiare qualcosa" (fc).






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Bufera su Bossi e «i 10 milioni di combattenti»


Gli vuole «bene come un fratello» e non può non condividere il tono delle sue dichiarazioni. Silvio Berlusconi, che ha festeggiato il suo compleanno a Vicenza, davanti ai “delegati” del Parlamento del nord, difende l’ultima uscita di Umberto Bossi. Il Senatur ha detto di sentirsi forte di «dieci milioni di lombardi e veneti pronti a lottare per la libertà». Di più. Considerando forse inutile la dialettica all’interno delle istituzioni, si è spinto a affermare che «la libertà non si può più conquistare in Parlamento ma con uomini lanciati in una lotta di liberazione». Il leader di Forza Italia, per forza o per ragione, tenta di stemperare il tenore delle dichiarazioni dell’alleato di ferro leghista: «Bossi usa sempre un linguaggio colorito, ma nella pratica ha sempre dimostrato un grande senso di responsabilità».

Non la pensano così evidentemente quelli che ancora credono che la battaglia politica si fa con le idee e non con le baionette. Così il sindaco di Roma Walter Veltroni, intervenendo ad un dibattito con il leader del Prc Franco Giordano, si è rivolto all’opposizione. Con qualche distinguo. «La Cdl deve dirci con chi vuole governare l'Italia e se vuole farlo con chi rifiuta di riconoscere la bandiera nazionale e dice determinate frasi». Ma evidentemente non può chiedere spiegazioni ai due a braccetto a Vicenza. E così bypassa il leader della Cdl e il suo fido alleato: «Mi rivolgo soprattutto ad An - prosegue - perchè quando si è discusso delle frasi di Caruso, 24 ore dopo avevamo la smentita del gruppo dirigente del Prc».

La risposta arriva da Mario Landolfi, che cerca di liquidare tutto come chiacchiericcio: «Ritengo da tempo che con la Lega ogni tanto è un problema di decibel» ha dichiarato l’esponente di An «Bisogna quindi distinguere il sottofondo dal rumore: queste cose sono sicuramente il rumore, poi bisogna cogliere l'essenza politica di quello che dice Bossi, anche rispetto a valutazioni fatte all'interno di una sede del Carroccio». Ma a margine della convention della Democrazia Cristiana per le Autonomie Gianfranco Rotondi, padrone di casa e suo alleato, bacchetta il leader della Lega dandogli del ritardatario: «La libertà è stata conquistata con i sacrifici di uomini e donne che hanno fatto la resistenza, anche e soprattutto nei valichi da cui spesso parla Bossi, per cui penso che la lotta per la libertà sia già avvenuta». Gli fa eco Marco Follini, che ironizza: «Per fortuna non stiamo parlando della Birmania».

Meditano i passi da compiere in Parlamento i capigruppo dell'Ulivo al Senato e alla Camera, Anna Finocchiaro e Dario Franceschini: «La gravità delle parole di Umberto Bossi e il violento attacco ai valori dell'unità nazionale e al Parlamento richiedono una risposta delle forze democratiche nelle sedi istituzionali – hanno fatto sapere in una nota congiunta - Per questo porteremo le parole del leader della Lega in Parlamento». Mentre Pino Sgobio, capogruppo del PdCI alla Camera e il segretario di Rifondazione Mario Giordano si richiamano all’«unica guerra di Liberazione che si è combattuta in Italia, che è stata quella contro il regime fascista ed è costata la vita a tantissimi italiani, che, pur di difendere la libertà del proprio Paese, non hanno esitato a mettere a rischio la loro vita».

«La sinistra persevera
nel voler mescolare il “sacro” con il “profano”. Sappiamo che l'umorismo, così come la goliardia, non è una delle caratteristiche che storicamente appartengono alla sinistra». Chiude la vicenda come fosse una ragazzata Mario Baccini, dell'Udc, che vede nelle critiche della sinistra solo un pretesto: «Certo è che ogni comizio o ogni manifestazione non prettamente politica e comunque non in sede istituzionale per loro è occasione per fare scoppiare polemiche inutili quanto pretestuose. Di mira hanno spesso e volentieri Bossi».

Alla fine la vittima è diventato il Senatur.

Pubblicato il: 29.09.07
Modificato il: 29.09.07 alle ore 20.14




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I satelliti «urlano» le violenze del regime birmano




ROMA Resti di incendi nascosti nel mezzo della fittissima foresta tropicale, sbarramenti, nuove strade, villaggi distrutti, insediamenti militari sparsi ovunque spesso costruiti proprio sulle macerie dei villaggi: sono alcuni segni della devastazione avvenuta nei distretti di Toungoo, Papun e nello stato Shan, in Birmania, documentati per la prima volta con immagini ad alta risoluzione via satellite raccolte ed analizzate nell’ambito del progetto 'Geospatial Technologies and Human Rights' dell’Associazione Americana per l’Avanzamento Scientifico – American Association for the Advancement of Science (AAAS).

Nelle foto, analizzate con la supervisione di Lars Bromley, direttore del progetto, c'è la drammatica testimonianza del prima e del dopo, di quel che c'era prima in quei territori e di quanto è rimasto dopo le devastazioni e violenze perpetrate per mano dell’esercito sotto il comando della giunta militare al potere, che in questi giorni sta attuando, come già in passato, un’efferata repressione degli oppositori del regime scesi in piazza a manifestare.
Come già fatto nell’ambito dello stesso progetto per realtà drammatiche come il Darfur e lo Zimbabwe, l’AAAS ha speso scienza e tecnologia nella battaglia contro le violazioni dei diritti umani.
Secondo quanto riferisce una nota, il progetto Birmania è solo l’ultimo di uno sforzo trentennale della AAAS che ha permesso di documentare atrocità avvenute nel mondo dal Guatemala al Kosovo per cercare di promuovere il rispetto dei diritti umani e prevenire nuove violenze.

Penetrare in questo paese del Sud-Est asiatico con i satelliti è stata una vera impresa, dichiara Bromley, ma l’AAAS ha localizzato e mappato 31 degli oltre 70 siti in cui sono state testimoniate violazioni dei diritti umani e per 25 dei 31 siti mappati, attraverso l’accurato confronto delle immagini via satellite 'scattatè negli ultimi anni, ha potuto per la prima volta portare una prova certa di quel che già numerosi testimoni oculari avevano denunciato nonostante la volontà del regime di mettere a tacere la verità.
«Per 18 dei luoghi riconosciuti le foto forniscono una prova certa dei villaggi danneggiati o distrutti – dichiara Bromley – abbiamo trovato traccia dell’espansione dei presidi militari in altri quattro siti come pure dello spostamento di molti villaggi, e della crescita di campi profughi al confine con la Thailandia».

I satelliti hanno 'immortalato' identiche scene di devastazione nei distretti di Papun, Toungoo e nello stato Shan dove è riportato che 23.700 persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni. E proprio dello stato Shan sono due drammatiche immagini, dichiara Bromley, che documentano la devastazione di ben 24 strutture di insediamento presenti al primo scatto nel 2000 e praticamente rase al suolo nella seconda foto del 2007.
Questa iniziativa, di fronte alla feroce volontà del regime di mettere a tacere in ogni modo i crimini che sta perpetrando, è un ottimo modo per denunciare la violazione dei diritti umani e per prevenire altre atrocità, concludono i coordinatori del progetto, che va avanti, e portare prove di quel che sta avvenendo in quei luoghi.

Paola Mariano

28/9/2007



vedi anche: www.aaas.org

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Siamo tutti un programma




L’attuale governo non ha ancora dato risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di fronte, per i quali la maggioranza degli italiani ha condannato Berlusconi votando per il centrosinistra. Serve una svolta, un’iniziativa di sinistra che rilanci la partecipazione popolare e conquisti i punti più avanzati del programma dell’Unione, per evitare che si apra un solco tra la rappresentanza politica, il governo Prodi e chi lo ha eletto.


Occorre fare della lotta alla precarietà e per una cittadinanza piena di tutte e di tutti la nostra bussola.

Noi vediamo sette grandi questioni.
Quella del lavoro: cioè della sua dignità e sicurezza, con salari e pensioni più giusti, cancellando davvero lo scalone di Maroni e lo sfruttamento delle forme “atipiche”, e con la salvaguardia del contratto nazionale come primario patto di solidarietà tra le lavoratrici e i lavoratori...

Quella sociale: cioè il riequilibrio della ricchezza e la conquista del diritto al reddito e all’abitare. Quella dei diritti civili e della laicità dello Stato: fine delle discriminazioni contro gay, lesbiche e trans, leggi sulle unioni civili, misure che intacchino il potere del patriarcato. Vogliamo anche che siano cancellate leggi contro la libertà, come quella sul carcere per gli spinelli. Quindi, la cittadinanza: pienezza di diritti per i migranti, rapida approvazione della legge di superamento della Bossi-Fini, chiusura dei Cpt.

La pace: taglio delle spese militari, non vogliamo la base a Vicenza, vogliamo vedere una via d’uscita dall’Afghanistan, vogliamo che l’Italia si opponga allo scudo stellare.
L’ambiente ha tanti risvolti, dalla pubblicizzazione dell’acqua alla definizione di nuove basi dello sviluppo, fondate sulla tutela e il rispetto per l’habitat, il territorio e le comunità locali. Per questo ipotesi come la Tav in Val di Susa vanno affrontate con questo paradigma.

La legalità democratica: lotta alla mafia e alle sue connessioni con la politica e l’economia. Nessuna di queste richieste è irrealistica o resa impossibile da vincoli esterni alla volontà della maggioranza. Il fallimento delle politiche di guerra dell’amministrazione Bush si sta consumando anche negli Stati uniti, i vincoli di Maastricht e della banca centrale europea sono contestati da importanti paesi europei, l’andamento dei bilanci pubblici permette scelte sociali più coraggiose. Ma siamo consapevoli che per affrontare tutto questo occorre che la politica debba essere politica di donne e di uomini - non solo questione maschile - e torni ad essere partecipazione, protagonismo, iniziativa collettiva.

Per questo proponiamo di ritrovarci a Roma il prossimo 20 ottobre per una grande manifestazione nazionale: forse politiche e sociali, movimenti, associazioni, singoli. Chiunque si riconosca nell’urgenza di partecipare, per ricostruire un protagonismo della sinistra e ridare fiducia alla parte finora più sacrificata del paese.

Gianfranco Bettin, Lisa Clark, Tonio Dell’Olio, Antonio Ferrentino, Luciano Gallino, Pietro Ingrao, Aurelio Mancuso, Lea Melandri, Bianca Pomeranzi, Gabriele Polo, Rossana Praitano, Rossana Rossanda, Marco Revelli, Piero Sansonetti, Pierluigi Sullo, Aldo Tortorella, Nicola Tranfaglia.

3 agosto 2007


Info e contatti: 346-9664818 - 346-9668228 - 346-9680262 - 06-45495659 - segreteria@20ottobre.org




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Appello per la Giustizia

DAL BLOG DI BEPPE GRILLO



La Pravda dell'Unione Sovietica era un modello di informazione rispetto ai giornali e alle televisioni italiani. Ho pubblicato un post con un appello di Sonia Alfano e Salvatore Borsellino al Capo dello Stato per fermare Mastella e mandarlo a casa al più presto e mantenere il Pm De Magistris a Catanzaro.
Nessuno ha riportato la lettera.
Hanno invece usato due mie battute per parlare di un inciucio con Mastella.
Cari poteri forti, mi riferisco ai partiti e ai gruppi economici che controllano l'informazione, dite ai vostri servi di essere più accorti quando mentono. Altrimenti se ne accorgono tutti.De Magistris deve rimanere a Catanzaro e concludere le sue indagini. Che credibilità può avere un governo che si comporta nello stesso modo dello psiconano nei confronti della magistratura?

Pubblico in replica la lettera di Salvatore Borsellino e Sonia Alfano. Napolitano se ci sei batti un colpo.


“Chiediamo l'intervento del Capo dello Stato per porre fine all'imbarazzante ed offensiva attività del Ministro Mastella tesa ad imbavagliare la verità e scongiurare che la giustizia possa, definitivamente, arrivare a lui.
Per evitare ciò ha chiesto al CSM il trasferimento del PM De Magistris motivando la richiesta come atto dovuto a seguito delle risultanze delle ispezioni ministeriali presso la Procura di Catanzaro.
A tale proposito, se Mastella si proclama corretto per questo atto "doveroso", saremmo curiosi di sapere come si definisce il Ministro Amato in considerazione del fatto che lo stesso talvolta preferisce ignorare le risultanze delle ispezioni ministeriali (vedi mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Barcellona P.G.-ME).Forse sfugge, o addirittura sconosce, al ministro Mastella che esistono problemi gravi che andrebbero sollevati al CSM e che rischiano di ingolfare la giustizia; le procure di Caltanissetta e di Catania, considerata l'importanza delle stesse nella lotta alla mafia, sono scoperte da troppo tempo.
E cosa dire della paralisi disastrosa che l'entrata in vigore del nuovo ordinamento giudiziario provocherà?Passeranno molti mesi prima che il CSM possa procedere a nuove nomine lasciando così gli uffici scoperti.
Sarebbe opportuno che Mastella si dimettesse subito, così da rendere più sereni anche gli italiani, ai quali chiediamo di non dimenticare che Mastella è testimone di nozze del pentito di mafia F.sco Campanella.Speriamo pertanto in una forte presa di posizione da parte di tutti gli italiani onesti che non possono essere rappresentati da personaggi come Mastella e company.”

Sonia Alfano e Salvatore Borsellino

1 Ps: Firmate l’appello per la Giustizia e la Legalità in Calabria.
2 Ps: Il ginocchio è della lavandaia. Ripeto: il ginocchio è della lavandaia.

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Bush rivelo' ad Aznar: Saddam pronto all'esilio



SCONCERTANTE

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In cambio di 1mld di dollari


Londra 29 settembre 2007

Una trascrizione di un colloquio tra George W. Bush e Jose Maria Aznar alla vigilia della guerra in Iraq ha portato alla luce un'iniziativa per evitare il conflitto armato portando via dal Paese Saddam Hussein. Lo rivela il quotidiano britannico 'The Independent'.


"Sì, e' possibile", disse il presidente degli Stati Uniti all'allora primo ministro spagnolo: "Gli egiziani stanno parlando con Saddam Hussein... Sembra aver indicato di essere disponibile all'esilio se gli permetteranno di prendere un miliardo di dollari e tutte le informazioni che vuole sulle armi di distruzione di massa".


Ma Bush bocciò l'idea, sostenendo che "è inoltre possibile che venga assassinato" e ribadendo che in ogni caso gli Stati Uniti non avrebbero dato "alcuna garanzia" al presidente iracheno.


"E' un ladro, un terrorista e un criminale di guerra. Paragonato a Saddam, (Slobodan) Milosevic sarebbe madre Teresa".




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Sì unanime alla Finanziaria



Prodi:«Non abbiamo aumentato le tasse»


ROMA (29 settembre) - Via libera alla manovra Finanziaria 2008 dal Consiglio dei ministri con un voto all'unanimità, dopo quasi undici ore di discussione. Soddisfatto il presidente del Consiglio che ha fatto il punto sottolineando come il governo sia riuscito a prendere «decisioni di grande importanza per lo sviluppo» mantenendo «le promesse» fatte. Il premier, ha confermato tra l'altro che la Finanziaria non aumenta le tasse, mentre i frutti della lotta all'evasione vanno nella direzione di una restituzione delle imposte: direzione che viene imboccata con l'abbattimento dell'Ici e le iniziative sugli affitti.


Il Professore ribadisce che il 12 ottobre sarà chiusa anche la partita dell'unico collegato alla Finanziaria sul quale «non esiste» alcun problema: «Si è parlato di rinvio, ma non è così - afferma - perchè sapevamo che non si poteva fare tutto in un giorno. Il 12 affronteremo il capitolo welfare e chiudiamo il libro».


Il presidente del Consiglio parlando dell'inizio «dell'economia di un paese tranquillo, normale, che non ha bisogno di operazioni di finanziaria straordinaria». Hanno lasciato soddisfatti Palazzo Chigi anche Pierluigi Bersani, il quale ha sostenuto che tutti i ministri potranno rivendicare i successi per il Paese, e Giulio Santagata, che ha tra l'latro sottolineato gli interventi decisi per la riduzione dei costi della politica, tagliando, ad esempio, del 10 per cento i rimborsi elettorali per i partiti.


La manovra prevede quindi interventi complessivi per 11,5 miliardi di euro. La Finanziaria prevede sgravi per il 2008 per l'Ici per 200 euro a famiglia per la prima casa fino a un reddito di 50mila euro.


Prima della Finanziaria, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto fiscale, che restituisce i proventi della lotta all'evasione per un totale di 7,5 miliardi di euro. Tra le misure assegno di fine anno (già da dicembre 2007) di circa 150 euro per i redditi più bassi, quelli con meno di 7.500 euro all'anno, i cosiddetti incapienti (2 miliardi); risorse per l'emergenza abitativa e l'edilizia residenziale (500 milioni), aumento dei fondi per il 5 per mille (150 milioni) e più treni per i pendolari. Il decreto stanzia anche 3 miliardi per investimenti in infrastrutture, un miliardo per interventi nel sociale, e un altro miliardo per saldare il debito rispetto alla cooperazione internazionale. Nel decreto c'è anche mezzo miliardo per gli anticipi dei contratti del pubblico impiego. Nel settore infrastrutture ci sono i fondi all'Anas (350 milioni), alle ferrovie (1,5 miliardi), il potenziamento dei mezzi pubblici, dalle metropolitane di Roma, Napoli e Milano (800 milioni complessivamente) al progetto "mille treni per i pendolari". Novità per il sistema dei prezzi dei farmaci, nuove assunzioni nell'amministrazione finanziaria e taglio dei costi della giustizia militare. Ci sono infine gli sconti fiscali alle famiglie per le spese scolastiche, per 304 milioni di euro.


Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha commentato:« E' indubbio che il Governo supera una prova impegnativa». Sullo slittamento al 12 ottobre del collegato sul welfare Fassino ha ribadito: «La cosa decisiva non è la data nella quale viene varato il protocollo, ma quando sarà approvato, e lo sarà entro il 31 dicembre e sarà quindi parte organica della Finanziaria».


«La riduzione delle aliquote Ires e Irap assomiglia molto al gioco delle tre carte». Così il leader dell'Udc Pierferdinando Casini ha commentato i provvedimenti dellaFinanziaria, parlando a margine del congresso provinciale del partito a Ferrara. «Si diminuiscono le imposte ma si aumenta la base imponibile - ha aggiunto - e tutto questo evidentemente prefigura una sorta di "plastica facciale". Quando agli interessi passivi che le aziende pagano sui propri debiti non sono più riconosciuti come costi deducibili - ha concluso - è ovvio che si prepara una grande presa in giro del contribuente».


Il ministro dell'Economia Tomamso Padoa Schioppa apre spiragli di speranza per il futuro: «Potremmo crescere al 3%» ha detto il ministro sottolineando che il «nostro problema sia tornare per quanto riguarda la crescita ai livelli della media europea».




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Myanmar: crepe nel regime, esercito spaccato

Monaci in preghiera di fronte alla Pagoda d'Oro di Shwedagon prima di iniziare il nuovo corteo (Ansa)

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In manette il comandante di Rangoon. «Militari divisi a Mandalay»

Il numero uno della giunta militare si scontra con il numero due: che vuole incontrare la leader dell'opposizione San Suu Kyi


RANGOON - Nonostante i morti di ieri, nonostante le migliaia di militari in assetto di guerra che presidiano massicciamente Rangoon e minacciano di sparare ancora, nonostante il coprifuoco, alcune migliaia di manifestanti, diecimila secondo alcuni testimoni, sono tornati oggi in piazza nell'ex capitale birmana, tentando di radunarsi nel centro. I soldati hanno risposto agli assembramenti con cariche e lancio di lacrimogeni e anche con spari in aria e hanno avviato perquisizioni nelle case attorno alla pagoda di Sule.

SPACCATURE NEL REGIME - Ma la situazione politica in Birmania è in rapida evoluzione. La giunta militare al potere in Birmania si sarebbe spaccata in merito alla violenta risposta dell'esercito alle proteste. Notizie non confermate citate dai due siti dell'opposizione «Irraddy News» e «Mizzima» rendono noto che il generale Than Shwe, al comando, il suo vice, il generale Maung Aye, e il capo di stato maggiore dell'esercito, non si trovano più d'accordo sulla reazione necessaria alle imponenti manifestazioni quotidiane di monaci e civili. Fonti diplomatiche a Bangkok spiegano che Maung Aye ha fissato un incontro con il Premio Nobel e simbolo della protesta Aung San Suu Kyi, trasferita per questo nella base militare di Yemon, alle porte di Yangon, e che avrebbe espresso il suo totale disaccordo con l'uso della violenza contro i manifestanti.

DEFEZIONI NELL'ESERCITO - Intanto le voci di un «dissidio fra generali e di defezioni da parte dell'esercito» riportate dal sito di esuli birmani «Mizzima News» e diffuse sul Web nonostante sono il blocco causato dalla giunta militare sono state confermate all'Aki-Adnkronos dall'ex segretario agli Affari Esteri birmano (dal 1974 al 1978), B. T. Win. « «La Brigata 66 si è unita ai manifestanti ed è pronta a sfidare la Brigata 77 se farà uso della forza. Il generale di brigata Tin Tun Aung non darà seguito all'ordine di sparare, mentre si è creata una scissione tra il comando militare situato nel sud-est del Paese e il comando generale di Rangoon», spiega il professor Win.

AMMUTINAMENTI A MANDALAY - Critica la situazione anche a Mandalay, dove «coloro che non rispettano gli ordini vengono rimpiazzati con soldati fedeli al regime», aggiunge Win, oggi Decano degli studenti del Programma Aeiou (All Ethnic International Open University) all'Università di Chiangmai in Thailandia. Anche testimonianze riportate dalla radio russa «Eco di Mosca» i militari raccontano che tra i militari birmani impegnati nel reprimere la protesta sarebbero in atto profonde divisioni. L'emittente parla, citando le testimonianze dei giornalisti locali, di una divisione in atto fra i soldati dell'esercito in particolare nella città di Mandalay, la seconda città del Paese, dove sarebbero stati registrati scontri fra due divisioni di militari e una serie di reparti si sarebbe rifiutata di lasciare le caserme.

ARRESTATO GENERALE- Secondo fonti non confermate, il comandante delle forze militari, il generale Hla Htey Win, sarebbe agli arresti dopo che soldati ai suoi ordini si sono rifiutati di sparare sulla folla. Il sito d'informazione degli esuli birmani 'Mizzima News' riferisce inoltre che fra alcuni reparti dell'esercito birmano ci sarebbe una non meglio precisata «agitazione». Aerei pieni di militari si sarebbero levati in volo dalla base aerea di Matehtilar e anche truppe dal centro del Paese si starebbero muovendo verso Rangoon. Secondo 'Mizzima', «non è chiaro se le truppe stiano marciando come rinforzi o per opporsi alle truppe che hanno sparato sui monaci».

Audio - I dissidenti: «Prime crepe nel regime»

MOLTE VITTIME - Non è ancora chiaro quale sia il bilancio reale della sanguinosa repressione: il numero delle vittime sarebbe in realtà assai più elevato rispetto alle cifre ufficiali. Lo ha denunciato l'ambasciatore d'Australia nell'ex Birmania, Bob Davis, all'«Abc». Secondo la giunta militare birmana, i morti ammonterebbero complessivamente a dieci, ma a detta del diplomatico di Canberra testimoni oculari avrebbero riferito ad alcuni suoi collaboratori di aver visto «rimuovere ieri dal teatro delle manifestazioni nel centro di Rangoon un numero di cadaveri significativamente superiore» a quello reso noto dal regime. Il computo reale, ha aggiunto Davis, sarebbe «parecchie volte il multiplo» delle dieci persone uccise «riconosciute dalle autorità». A Rangoon la situazione è molto più grave di quanto venga riportato dai media internazionali confermano all'Ansa testimoni in loco, di nazionalità europea, che chiedono di rimanere anonimi per timore di ritorsioni: «Le famiglie birmane che hanno subito perdite vengono minacciate dai militari affinché dichiarino che i loro congiunti sono morti per cause naturali e non durante le manifestazioni». Inoltre, gli ingressi degli ospedali sono assediati dalle forze armate, che bloccano l'ingresso ai feriti, impedendo loro di ricevere le cure necessarie. «Non si sa che fine facciano questi feriti», ha detto allarmato un testimone, riferendo che «alcuni, probabilmente dei disperati che non hanno altra scelta, sono stati assoldati dai militari per fare dei pestaggi in giro per la città».

RAID NOTTURNI E SPARI CONTRO LA SCUOLA - La notte scorsa l'esercito birmano ha condotto raid in almeno due monasteri buddisti. Lo riferisce la radio Voce Democratica della Birmania, che trasmette da Oslo. L'emittente non ha potuto stabilire quanti monaci siano stati arrestati, ma ha riferito che una scuola presso il carcere di Insein è stata trasformata in centro di detenzione per circa 300 bonzi. «L'esercito ha chiesto ai monaci prigionieri di togliersi le tonache, ma loro hanno rifiutato», ha raccontato il direttore dell'emittente, Moe Aye. Sempre secondo la Voce Democratica, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro una scuola e picchiato e arrestato circa 300 studenti durante la brutale repressione di giovedì a Rangoon. A quanto riferiscono testimoni, un gruppo di studenti stava marciando dal ponte Pansodan verso il liceo del quartiere periferico di Tamwe, mentre altri studenti si trovavano nella scuola. Soldati e guardie del governo hanno cominciato a sparare anche ad altezza d'uomo, per impedire ai ragazzi di raggiungere la scuola. Nell'edificio studiano anche bambini delle elementari e alcuni di loro, così come genitori che erano venuti a prenderli, sono stati raggiunti dalle pallottole.

BLOCCO - A Rangoon sono chiusi la maggior parte di uffici e negozi, giacché numerose aziende hanno raccomandato ai dipendenti di non recarsi al lavoro. La giunta militare ha inoltre dichiarato "no-go zone", zona interdetta, i dintorni di cinque monasteri buddisti. Le autorità hanno comunicato la mappa delle "zone di pericolo" ai diplomatici del sudest asiatico. Fonti diplomatiche hanno inoltre riferito alla testata Irrawaddy - con sede a Chiangmai - che l'attivista e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, da anni agli arresti domiciliari, è stata trasferita nel campo militare di Yemon, situato alla periferia di Rangoon.

GIAPPONE - Nel frattempo arrivano dal Giappone accuse esplicite alle autorità birmane per la morte del cronista giapponese ucciso durante i disordini a Rangoon: secondo l'agenzia Kyodo, l'uomo è stato senza alcun dubbio colpito dai colpi sparati da un soldato antisommossa. Il cronista, Kenji Nagai, stava riprendendo con una videocamera uno scontro fra manifestanti e militari, presso la pagoda di Sule (guarda il video). Secondo le fonti anche altri giornalisti stranieri sarebbero rimasti feriti. Lo stesso premier giapponese Yasuo Fukuda ha espresso «forte preoccupazione» per la sanguinosa crisi in Myanmar e il viceministro degli Esteri Hitoshi Kimura ha convocato l'ambasciatore birmano a Tokyo Saw Hlamin, chiedendogli «l'adozione di misure appropriate» per la sicurezza dei sudditi nipponici nel paese. [an error occurred while processing this directive]

GLI USA - Da parte Usa è stata annunciata l'imposizione di nuove sanzioni economiche contro quattordici alti dirigenti governativi birmani. Nel frattempo Condoleezza Rice ha salutato con favore il comunicato con cui l'Asean, l'organismo che rappresenta i Paesi del sud-est asiatico, ha chiesto al regime di non usare la violenza contro dei dimostranti. «Posso solo assicurarvi che gli Stati Uniti sono determinati a tenere l'attenzione della comunità internazionale concentrata sui quello che accade a Rangoon» ha detto il capo della diplomazia Usa.

D'ALEMA - La Rice ha incontrato anche il ministro degli Esteri italiano, Massimo D'Alema. Nel colloquio, secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche italiane, è stato convenuto che bisogna fare pressione su vari Paesi e sulla giunta militare e c'è stata piena intesa sulla necessità che la comunità internazionale resti focalizzata su questa emergenza. La situazione - è la valutazione comune emersa dal colloquio - è molto grave e giustifica la preoccupazione che viene espressa dalla comunità internazionale.

SCONTRI A CANBERRA - La difficile situazione in Birmania ha provocato proteste in numerose capitali asiatiche, e non solo. Incidenti sono scoppiati a Canberra, in Australia, fra manifestanti e polizia quando un centinaio di persone ha cercato di dare l'assalto all'ambasciata birmana. Dopo essere stati respinti dagli agenti antisommossa, i dimostranti, scandendo slogan in favore della democrazia, hanno bruciato bandiere e inscenato un sit-in nella strada dove si trova la sede diplomatica. Alcuni partecipanti alla protesta - hanno riferito testimoni alla Reuters - sono stati fermati dalla polizia, che ha anche sequestrato un'ascia.

28 settembre 2007

Giace a terra Kenji Nagai, il fotoreporter giapponese della Afp, colpito a morte dalla polizia birmana. Prima di spirare ha ancora la forza di fare l'ultimo scatto . Nagai, 52 anni, è stato colpito da spari nei pressi della pagoda di Sule, dove manifestavano oltre diecimila persone. A documentare il momento drammatico della sua morte è un collega della Reuters (Reuters)


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venerdì 28 settembre 2007

Due libri per capire le tragedie della Birmania e dell'anoressia

di ALBERTO SINIGAGLIA
Due libri preziosi per chi desideri capire meglio le ragioni della tragedia della Birmania e orientarsi davanti al riacceso dibattito su una tragedia più intima, l’anoressia, e sul dibattito riacceso da una drammatica pubblicità ideata da Oliviero Toscani, che sbatte sulle pagine dei giornali una giovane modella francese pericolosamente smagrita e invecchiata, un’immagine che ricorda quelle degli ebrei nel Lager di Hitler.



I MACELLAI DI RANGOON

«Il Pavone e i generali» di Cecilia Brighi è il solo libro pubblicato in Italia che affronta la drammatica questione della Birmania e del suo simbolo di sempre, Aung San Suu Kyi, la donna che ha pagato il suo impegno nella resistenza non violenta al regime dittatoriale con il carcere e l’esilio. La Birmania non è soltanto un affascinante paese dell’Estremo Oriente: templi, arte, tradizioni millenarie, magie. E’anche il primo esportatore di metanfetamine al mondo e il secondo per il traffico di oppio. Un Paese che da quasi mezzo secolo è oppresso da una sanguinosa dittatura militare, che schiaccia il popolo con il lavoro forzato, con violenze, stupri e deportazioni. Un regime dittatoriale che, da oltre dieci anni- come ha ricordato Enzo Bettiza sulla «Stampa» - tiene sequestrata agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e simbolo della resistenza democratica e non violenta. Cecilia Brighi, da ventinove anni impegnata nell’attività sindacale (attualmente responsabile per la Cisl dei rapporti con le istituzioni internazionali e con i Paesi asiatici) racconta nel libro le vicissitudini e la fuga rocambolesca all’estero di alcuni protagonisti politici e sindacali dell’opposizione. Nato dal lungo lavoro di collaborazione dell’autrice con alcuni di loro,«Il Pavone e i generali» dipana un intreccio di vicende attraverso le quali scorre anche la storia politica e sociale della Birmania, dal dopoguerra a oggi, la brutalità e la repressione della dittatura di fronte alla quale molti governi ancora oggi chiudono gli occhi.

È la storia dei sentimenti e delle emozioni di uomini e donne che, per uno scherzo amaro del destino, sono stati costretti a trasformare la loro vita, ad abbandonare i loro amori, i figli, le famiglie, i loro progetti di lavoro, per diventare protagonisti della resistenza democratica e dell'opposizione al regime dei cosiddetti «macellai di Rangoon».Racconta momenti che sembrano cronaca di oggi: «E Aung San Suu Kyi scese dalla sua auto per salutare la sua gente. Purtroppo non ci fu tempo, né per i saluti, né tanto meno per un breve comizio. La gioia e l'eccitazione d'improvviso si trasformarono in terrore e paura. Oltre un migliaio di soldati, polizia, gentaglia e criminali fatti arrivare dalla prigione di Mandalay, armati di fucili, di spranghe di ferro e di bambù, si riversò sulla folla. Molti di loro si erano addirittura travestiti da monaci. La violenza fu indiscriminata. I malviventi e i militari in combutta erano armati fino ai denti e pestarono senza tregua i contadini e l'ampia delegazione del partito. Alcune ragazze furono spogliate e lasciate nude. Alcuni furono picchiati a morte. Nella notte di quel terribile venerdì nero, la giovane leader birmana sparì nel nulla. Non si ebbero più notizie di lei per giorni e giorni. La giunta non era riuscita a farla fuori, ma l'aveva rapita».

Autore: Cecilia Brighi
Titolo: Il Pavone e i generali.
Birmania: storie da un Paese in gabbia
Edizioni: Baldini Castoldi Dalai
Pagine: 320 Prezzo: 16,50 euro




L’ANORESSIA, LE DOMANDE FONDAMENTALI
Due psicoanalisti, che da anni studiano i «disturbi alimentari» rispondono, in un linguaggio chiaro e accessibile, ai quesiti fondamentali che l’anorressia-bulimia e l’obesità pongono non solo al clinico ma anche al soggetto che ne soffre e ai suoi familiari. Quale rapporto c'è tra anoressia, bulimia e obesità? Quali sono i problemi sottesi alla loro diagnosi differenziale? Quali sono le cause dei disturbi dell'alimentazione? Perchè essi si manifestano prevalentemente nell'adolescenza e nei paesi del benessere? Perchè l'anoressia bulimia è una patologia femminile? Vi sono dei segnali che possono annunciare il rischio della malattia? Qual è la cura e come orientarsi nelle sue difficoltà? Che cosa fare con i familiari e la loro angoscia? Ne risulta una «conversazione» che aiuta a sgombrare il campo da molte approssimazioni che ancora circolano intorno a queste malattie, che sono sicuramente tra le forme più diffuse e più scabrose del disagio contemporaneo.Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti lacaniani, è fondatore di Jonas: Centro di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi. Insegna all'Università di Bergamo. Tra le sue pubblicazioni: «L’ultima cena: anoressia e bulimia» (Bruno Mondadori, 1997); «Il corpo in ostaggio: teoria e clinica dell'anoressia-bulimia» (Borla, 1998); «Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi» (Angeli, 2002).Umberto Zuccardi Merli, psicoanalista, è membro dell’Associazione mondiale di psicoanalisi e di Jonas. Collabora con l’Università di Bergamo. Ha pubblicato diversi articoli sulle dipendenze patologiche e curato «Il soggetto alla deriva. Panico e depressioni» (Franco Angeli, 2005).


Autore: Massimo Recalcati e Uberto Zuccardi Merli
Titolo: Anoressia, bulimia e obesità
Edizioni: Bollati Boringhieri (collana Temi)
Pagine: 116
Prezzo: 10euro


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