"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

martedì 31 luglio 2007

PROVIAMO A RIFLETTERE



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Abbiamo provato a ridurre la popolazione del mondo intero ad un villaggio di
100 persone, mantenendo le proporzioni di tutti i popoli esistenti al mondo. Ecco qui realizzato il villaggio globale, nel quale vivresti anche tu!
Bene,
se esistesse sarebbe così composto:

57 abitanti verrebbero dall'Asia e dall'Oceania

21 verrebbero dall'Europa
14 dalle Americhe del Nord e del Sud

8 verrebbero dall'Africa
52 sarebbero donne
48 uomini
30 sarebbero bianchi
70 sarebbero non bianchi
30 sarebbero cristiani
70 sarebbero non cristiani
89 sarebbero eterosessuali
11 sarebbero omosessuali
6 persone possiederebbero quasi il 60% della ricchezza di tutto il villaggio
e tutti e 6 sarebbero di origine statunitense
1 avrebbe la laurea.
70 sarebbero analfabeti
80 vivrebbero in case senza i requisiti di abitabilità
50 soffrirebbero di malnutrizione

E sarebbero tutti tuoi vicini di casa!
Come faresti allora a non sentirti responsabile, a non fare niente per riequilibrare questa situazione?

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tratto da: http://www.jomix.org/Arg4/Argoind.asp


Canne e cannoni




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Left n.22 del 1 giugno 2007

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L’escalation nell’abuso di sostanze illecite nei teatri di guerra ormai coinvolge militari e civili. Stimolanti e stupefacenti invadono Paesi già devastati dai conflitti. Così tra scontri a fuoco, violenze e privazioni aumentano i casi di dipendenza


di Alessandro De Pascale


Nell’Europa orientale il problema maggiore sono le droghe chimiche, quelle di sintesi. Balcani e Cecenia ne sono pieni. Il Muro è caduto. Ma non i laboratori illegali per la produzione delle anfetamine. Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa a Mosca per il suo impegno nel raccontare le verità nascoste dei conflitti russi, ha più volte sollevato il problema. Ha anche scritto di cittadini ceceni che vanno in giro con le tasche cucite, per evitare che i soldati russi li arrestino infilandogli la droga nei pantaloni.
Ma le storie più dure vengono dall’Iraq dilaniato dalla guerra civile, sconvolto da una spirale di violenza che ha lasciato intatte pochissime famiglie. Tamam Abdul-Kadhim, 35 anni, nel 2004 ha vissuto un bombardamento nel centro di Baghdad. Era la prima volta che assisteva a un bagno di sangue. Un avvenimento che ha cambiato per sempre la sua vita. La notte non chiudeva occhio. Allora ha iniziato a usare sedativi, diventandone dipendente. L’Iraq di oggi è pieno di persone nelle sue stesse condizioni. Uomini e donne imprigionati in una quotidianità di morte e terrore. Chi ha potuto è andato via, si è trasferito in Giordania o in Europa. Chi è rimasto cerca sempre di più nelle droghe l’unica possibilità di evadere dalla realtà.

I consumatori appartengono a tutte le classi sociali: insegnanti, militari, poliziotti e disperati. Usano di tutto, dagli psicofarmaci all’eroina. Non essendo un Paese produttore, l’Iraq non si era mai dovuto confrontare con problemi di droga, e ai tempi di Saddam gli unici problemi di dipendenza riguardavano l’alcol. Oggi a causa degli attentati degli estremisti contro i locali pubblici è diventato difficile trovare alcolici. Ma il Paese è ormai pieno di droga. Farmaci contenenti anfetamina e codeina (un derivato medico dell’oppio) si trovano a prezzi bassissimi ad ogni angolo di strada, sui banchi dei mercati e persino nei bar. Dove un tè da 400 dinari (10 centesimi di euro) lo servono direttamente con gli psicofarmaci sciolti dentro. Il problema è che spesso i clienti neanche sanno cosa assumono. Esiste un commercio di farmaci destinati a persone che, anche quando le medicine sono nelle loro confezioni, non sanno leggere dosi e indicazioni. Scritte in inglese, con il marchio del ministero della Salute iracheno e la dicitura «not for sale» (quindi non vendibile senza ricetta medica). Non di rado sono aiuti esteri, dotazioni delle ong. Per strada, scatola e foglietto illustrativo neanche ci sono. Sui banchi dei mercati le pillole si trovano sfuse. Trenta per 500 dinari, medicine di cui nessuno conosce la data di scadenza e che magari sono sotto il sole da settimane. Anche il canale ufficiale di distribuzione, le farmacie, è diviso in due: ci sono quelle che vendono i farmaci di classe A (i più potenti) anche senza ricetta, e quelle a cui non piace vendere un certo tipo di psicofarmaci. Ma di solito anche lì, descritto il sintomo, si ottiene ciò che si chiede. «Se finisci in galera una delle prime cose che ti chiedono i secondini è se hai bisogno di una pillola: prezzo 250 dinari», scriveva di recente una lettrice al direttore di un quotidiano di Baghdad. Campanello d’allarme per comprendere quanto il loro uso sia diffuso nel Paese, con il silenzio del governo, della polizia locale e delle forze di occupazione.

All’uso degli psicofarmaci si è poi aggiunto quello di eroina e cocaina. «Gli iracheni stanno consumando sostanze illecite come mai prima d’ora. Stimiamo che oggi siano circa 5.000 le persone che usano droghe nel sud del Paese. Nel 2004 erano circa 1.500», ha affermato recentemente in un’intervista all’agenzia di stampa irachena Irin il dottor Kamel Ali del Programma di prevenzione contro i narcotici del ministero della Salute. «In tutto il Paese potrebbero essere 10.000». Un recente rapporto dell’agenzia Ghodse evidenzia come «negli ospedali di Baghdad e di tutto il Paese si è registrato un notevole aumento di overdose, per droghe e psicofarmaci». Molti arrivano in ospedale direttamente in ambulanza, una volta perduti i sensi, poiché si spostano solo per lo stretto necessario e sono ancora molto diffidenti verso le istituzioni. Inoltre in Iraq c’è un solo centro che si occupa di dipendenze: l’ospedale psichiatrico di Baghdad.

L’arrivo delle nuove droghe
è dovuto al sostanziale fallimento del controllo dei labili confini iracheni. Soprattutto quello tra Iran e Iraq, dove transitano ingenti quantitativi di droga, che stanno facendo esplodere il consumo in tutto il Medio Oriente. Un confine lungo 1.200 chilometri che le forze di occupazione e quelle irachene non riescono a controllare. Molti analisti sostengono che il problema sia da imputare al dilagare della corruzione. Il governo ha fatto di tutto per fermare il flusso di droghe, inviando migliaia di poliziotti in più lungo il confine e chiedendo aiuto alle forze ucraine e polacche di stanza vicino a Batra e Zurabatia. «In passato l’Iraq aveva migliaia di checkpoint e poliziotti lungo il confine, ma oggi, con tutti i problemi del Paese, all’area viene data una scarsa attenzione» ha dichiarato Mahmud Uthman, membro del Consiglio di governo. Ma i risultati ottenuti dall’esecutivo sono stati irrisori. Anche le due città sante di Kerbala e Najaf, nel sud del Paese, hanno indossato la maglia nera dell’abuso. Lungo le polverose strade di queste due città ormai proliferano i narcotrafficanti afgani e iraniani. E l’applicazione della pena di morte anche per il traffico di stupefacenti non è servita da deterrente. I sequestri si moltiplicano, ma traffico e consumo non si arrestano. Gli psicofarmaci passano dal confine giordano, l’eroina da quello iraniano e la cocaina attraverso i Paesi del Corno d’Africa. Il tema della droga ormai non è più un tabù, nella patriarcale e conservatrice società irachena. È diventato un argomento da bar. Uno psichiatra del ministero della Salute, che vuole rimanere anonimo, sostiene che il problema è che l’Iraq non ha strutture adeguate per combattere la crisi: «È un bene che finalmente si parli del problema, ma la cronica mancanza di sicurezza, l’assenza di dati e il fatto che tutto questo sia rimasto a lungo nell’ombra, non ci aiuta a risolverlo. Baghdad conta più di cinque milioni di abitanti, ma noi siamo in grado di monitorare solo una piccola parte della popolazione. E fuori dalla capitale è tutto ancora più difficile».

Se a Baghdad la situazione
è preoccupante, in Afghanistan è allarmante. «Un milione di afgani si droga» tuonava nel rapporto del 2005 l’Ufficio per la droga e il crimine delle Nazioni Unite, diretto dal 2002 dall’italiano Antonio Maria Costa. Le siringhe sono arrivate anche in Afghanistan. Una novità assoluta per il Paese. Un’occidentalizzazione del consumo senza precedenti. Mentre il mondo viene inondato da eroina afgana, il consumo esplode dal confine con Turkmenistan e Uzbekistan e nelle campagne fino a Kabul. I derivati dell’oppio, mai usati negli anni del regime e soprattutto mai prodotti dagli afgani, dal 2001, anno di inizio dell’ultimo conflitto, stanno avendo una rapida diffusione tra la popolazione. Chi non ha accesso a queste sostanze usa psicofarmaci e pure benzina. Il resto del mondo osserva il presente afgano con uno sguardo preoccupato anche verso il futuro. L’enorme quantità di oppio disponibile nel Paese, aggiunta alla corruzione delle istituzioni, rendono al momento impossibile arginare la crescente attività di produzione e raffinazione. Situazione che è destinata a fare schizzare ancora di più verso l’alto la domanda interna, di oppio e eroina.
Dopo la caduta dei talebani sono stati creati programmi di trattamento. Il ministero non sa quanti vi ricorrano, e non ci sono indicazioni sui programmi terapeutici. Quello che si sa è che questi centri nella maggior parte dei casi non possono fare affidamento su farmaci sostitutivi per le astinenze. Usano le corde. Legano le persone ai letti. La loro nascita e le lunghe liste di attesa confermano la vastità del fenomeno delle dipendenze nel Paese. Una nazione che produce più del 90 per cento dell’oppio mondiale, si trova di colpo ad essere anche un grande consumatore. Nella sola Kabul in due anni gli eroinomani sono più che raddoppiati. E il dottor Mohammad Zafar del Programma di riduzione della domanda, del ministero per il Controllo dei narcotici, denuncia come la comunità internazionale si sia interessata solo alla produzione dell’oppio afgano e non al boom del suo consumo in patria. Da un chilo di oppio si producono 100 grammi di eroina pura. Se sotto i talebani la raffinazione avveniva fuori dai confini nazionali (Triangolo d’oro, Pakistan e Iran in testa), oggi i laboratori sono dentro il Paese. Producono dai 70 ai 100 chili di eroina al giorno. Sono sulle colline a sud-est di Jalabad (a ridosso del confine con il Pakistan) e nei distretti di Acheen e Adal Khel (provincia di Nangahar). Nella sola area di Sangeen, secondo ufficiali britannici, ce ne sono più di 150. L’Afghanistan è diventato un Paese dove guardando dalle colline le vallate di alcune province, l’estensione della coltivazione di oppio è paragonabile a quella dei vigneti in molte regioni italiane. E proprio come avviene in Italia per la stagione della vendemmia, in primavera la raccolta attira braccianti da ogni parte del Paese.

In Afghanistan la raccolta dell’oppio è già iniziata. Le grandi piogge primaverili lasciano credere che nei rapporti Onu dell’anno prossimo vedremo un nuovo record di produzione. Nella sola provincia di Helmand si coltiva il 40 per cento di tutto il papavero afgano, con una produzione di 150 chilogrammi a ettaro. L’aumento della produzione ha già fatto scendere i prezzi, passati dai 100 dollari dell’anno scorso agli 80/90 di oggi. I talebani controllano gran parte dell’area e gli scontri e i bombardamenti con le forze Isaf sono quotidiani. Due tentativi di distruzione delle piantagioni non hanno dato i risultati sperati. Da poco, su pressione delle Nazioni Unite, ne è iniziato un terzo. Ma gli ostacoli da superare sono due. Primo. Se da un lato le Nazioni Unite stimano che il 50 per cento del Pil afgano è rappresentato dall’oppio, l’economia del Paese è interamente controllata dall’esterno. Il presidente Karzai viene da tutti definito il «sindaco di Kabul» e il contrabbando di droga aumenta sempre di più. Anche per la difficoltà, come in Iraq, di controllare i 5.800 chilometri di confini. Secondo. La corruzione e la connivenza del potere sia con i talebani che con i narcotrafficanti. «Rappresentanti del governo e signori della guerra sono pesantemente coinvolti nella produzione e nel traffico illecito di oppio e stanno trasformando il nostro Paese in un narco-Stato» ha dichiarato il ministro dell’Interno al quotidiano Kabul Times. Aggiungendo che, pur non potendo fare nomi, il suo ministero «ha raccolto prove sufficienti per dimostrare che funzionari del governo, compresi ufficiali dell’esercito e della polizia, sono implicati nel narcotraffico».

Conoscono nomi e cognomi,
sia di chi è implicato direttamente che di chi offre protezione in cambio di denaro, ma «solo in pochi casi siamo riusciti a intervenire e arrestarli». Operazioni che probabilmente vengono condotte solo contro personaggi diventati scomodi e pesci piccoli. Inoltre, precisa il ministro, «a Kabul stiamo arrestando moltissimi trafficanti, ma questo avviene solo per un motivo: perché lo smercio di oppio grezzo o lavorato sta assumendo dimensioni tali da non riuscire più a rimanere invisibile». E se alcuni ritengono che la soluzione sia nella conversione della produzione di oppio da illegale a legale, per la produzione di morfina per le terapie del dolore, il capo dell’Unodc Costa la cestina subito come «irrealistica», spiegando che «sul mercato illegale rende tre volte di più, e in ogni caso con la produzione dello scorso anno il mondo starebbe bene per cinque anni». Continueremo quindi a vedere in tutto il mondo e ancora per molto gli effetti di questa rigogliosa agricoltura.

1 giugno 2007

fonte: http://www.avvenimentionline.it/content/view/1396/1/

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Onorevole solitudine

Il tempo delle Mele..

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Emiliano Sbaraglia
, 31 luglio 2007

Il graffio



Per una volta siamo d'accordo con l'emerito Francesco Cossiga, che ha invitato tutti a smetterla di fare gli ipocriti, riferendosi alla vicenda del deputato Udc Cosimo Mele, dichiarando di essere vicino al "collega ingiustamente crocifisso". Ingiustamente crocifisso, è vero: è vero se si pensa che negli scranni parlamentari, tra deputati e senatori, in questo preciso momento siedono ancora individui che nel corso della storia repubblicana italiana hanno fatto ben di peggio che trascorrere una notte brava al celebre Hotel Flora di Via Veneto, uno dei tanti punti d'arrivo, un "tetto del mondo" da frequentare per misurare il grado di potere raggiunto, abitudine di moda sin dai tempi della mitica dolce vita.

Quello che non si può assolutamente comprendere né tanto meno accettare, però, è lo squallido tentativo di difesa nei confronti della categoria perpetrato dal segretario del partito di Mele, o meglio del suo ex-partito, visto che lo stesso si è prontamente dimesso e le sue dimissioni sono state altrettanto prontamente accettate da Lorenzo Cesa, mentre il reo non ha pensato di fare lo stesso per il suo incarico parlamentare.

Con una notevole faccia tosta, Cesa ha infatti sottolineato "il problema" dei parlamentari che vivono a Roma da fuori sede, e che fuori dalla loro città "hanno una vita abbastanza dura". Ce li immaginiamo, questi onorevoli lontani da casa: un affitto oneroso da pagare per la nuova locazione, la fila per un pasto caldo, ore ed ore di lavoro al freddo o sotto il sole più cocente, la sera una cena frugale e un po' di televisione, facendo zapping tra quei canali che il terrestre può ancora offrire loro.

Per essere più convincente, Cesa ci regala anche uno spaccato del suo vissuto: "Quando ero eurodeputato stavo da solo tutta la settimana, e la solitudine è una cosa molto seria". Per questo reiteratamente invita tutti noi a riflettere, e in particolare a facilitare il ricongiungimento familiare sostenendolo economicamente. Una proposta che in sostanza dovrebbe prevedere più soldi a deputati e senatori per permettere il trasferimento delle loro famiglie a Roma.

Per fortuna c'è stato chi, all'interno della stessa categoria, ha avuto il pudore di indignarsi e rispondere immediatamente al segretario di uno dei pezzi più consistenti della vecchia Dc; tra i primi il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che di certo non ha lasciato spazio a una interpretazione variabile delle sue parole: "L'ipotesi di un'integrazione dei già sostanziosi emolumenti percepiti dai parlamentari a titolo di "ricongiungimento famigliare" è un qualcosa di decisamente immorale". Deo gratias.

E pensare che coloro i quali hanno lanciato tale proposta sono gli stessi che hanno costruito il proprio consenso elettorale sui valori etici e morali della società, i promotori del "Family day", i fustigatori dei costumi e delle "cattive abitudini" delle nuove generazioni. Quelli che uno spinello o una striscia di coca "è tutta droga", e che tra spacciatori e consumatori non vedono poi tutta questa differenza.

Noi invece rivolgiamo loro un'altra proposta.

Si potrebbe per legge obbligare ogni eletto dal popolo a destinare una percentuale del suo stipendio (la cui mensilità in alcuni casi supera l'annualità di altre retribuzioni nazionali) per la prenotazione di biglietti di treni e/o aerei riservati a familiari e parenti vari, così da garantire un ricongiungimento frequente e duraturo. Magari, qualche volta, per dormire tutti insieme all'Hotel Flora, gustando il panorama da uno dei tetti del mondo. Come si suol dire, una botta di vita.

Altrimenti, nei tempi in cui la professione lo richiede, i nostri parlamentari potrebbero considerare anche l'ipotesi di vivere una onorevole solitudine. Non sarebbero i primi, non saranno gli ultimi.

fonte: http://www.aprileonline.info/4340/onorevole-solitudine

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Previti gioca d'anticipo: si dimette


Cesare Previti si è dimesso per evitare di essere cacciato

La Camera ha accettato le dimissioni



L'aula della Camera ha accolto a scrutinio segreto con 462 voti favorevoli le dimissioni di Cesare Previti. Gli subentra Angelo Sartori. Cesare Previti, condannato con sentenza passata in giudicato, ha presentato martedì pomeriggio le sue dimissioni da deputato, mentre l'aula della Camera stava discutendo sulla sua decadenza. Il Presidente della Camera Fausto Bertinotti ha dichiarato valide le dimissioni di Previti ed ha chiesto all'aula di votare sul loro accoglimento. 462 deputati hanno votato a favore, 66 contro, 4 gli astenuti.

Il voto sulle dimissioni di Cesare Previti si è svolto con scrutinio segreto. Previti aveva chiesto il voto palese. Il Presidente Bertinotti in un primo momento aveva accettato «in via eccezionale» il voto palese, a patto che tutti i deputati fossero d'accordo. Marco Boato ha presentato una eccezione.

Bertinotti ha quindi optato per lo scrutinio segreto. Nelle dichiarazioni di voto Ulivo, Sd, Prc, An hanno dichiarato parere favorevole all'accoglimento delle dimissioni. Lo stesso Previti aveva invitato i deputati di Fi a votare a favore. Ove la Camera avesse respinto le dimissioni, l'aula avrebbe comunque successivamente votato sulla decadenza di Previti.


Pubblicato il: 31.07.07
Modificato il: 31.07.07 alle ore 18.02

fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=67870
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Il cinema in lutto per la morte di Michelangelo Antonioni


31/7/2007 (10:46)
La camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio

Michelangelo Antonioni




È morto questa notte il grande regista Michelangelo Antonioni. Aveva 94 anni, era nato il 29 settembre del 1912 a Ferrara. La camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio.

Laureato a Bologna in economia e commercio, inizia a lavorare come critico cinematografico al Corriere padano e a Cinema prima di trasferirsi a Roma dove frequenta il Centro sperimentale, collaborando anche con Rossellini.

Nella sua terra realizza il primo documentario, «Gente del Po», terminato nel ’47. Dopo la guerra come sceneggiatore lavora a «Caccia tragica» di Giuseppe De Santis (1946) e allo «Sceicco bianco» di Fellini (1952).

Il suo primo film, «Cronaca di un amore» (dopo altri due documentari) è del 1950 e già rivela alcune propensioni del futuro autore dell’ «Avventura»: uno spunto quasi giallo e l’interesse per i risvolti psicologici dei suoi personaggi borghesi. Seguono «I vinti» (1952) sulla crisi della gioventù europea, e «La signora senza camelia» (1953) sull’ ambiente del cinema.

«Le amiche» (1955) e «Il grido» (1956) precedono quello che molti considerano ancora oggi il suo capolavoro e l’inizio di una ideale trilogia: «L’ avventura» (1959), accolto a Cannes da pareri discordanti (anche se per molti è la rivelazione di un autore raffinato e poetico che avrà sempre più consensi nella critica che fra il grande pubblico) a causa di uno stile severo e rigoroso, troppo a lungo scambiato per lento o noioso.

All’ «Avventura» fanno seguito «La notte» (1960) e «L’eclisse» (1962) che, fra l’altro, rinsaldano il legame, personale e professionale, con Monica Vitti, interprete principale di tutti e tre i film. «Deserto rosso», del 1964, sempre con Monica Vitti, segna il suo passaggio, anche questo oggetto di numerose analisi critiche, al colore.

Con i film successivi Antonioni allarga i suo orizzonte dalla borghesia italiana alla società internazionale: «Blow-up» (1966) ambientato in Inghilterra, «Zabriskie Point» (1970) nell’ America della contestazione giovanile e della musica rock (celebre la scena finale dell’ esplosione con la musica dei Pink Floyd).

La Cina è invece al centro di un nuovo documentario («Chung Kuo: Cina», 1972) prima di spostarsi a Barcellona e in Africa per «Professione reporter» con Maria Schneider e Jack Nicholson (1975).

Antonioni è anche attratto dalla sperimentazione e realizza su supporto magnetico «Il mistero di Oberwald» (1980), ancora con la Vitti. L’ attenzione agli altri media lo porta, subito dopo, anche a realizzare un videoclip per Gianna Nannini («Fotoromanza»).

Torna al cinema nell’ 82 con «Identificazione di una donna» con Tomas Milian, recuperato dal personaggio del Monnezza, e poi, dopo un lungo silenzio dovuto alla malattia, con «Al di là delle nuvole» (1995), a quattro mani con Wim Wenders e l’ultimo «Eros», per cui realizza l’episodio «Il filo pericoloso dele cose».

fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200707articoli/24256girata.asp

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Rutelli: basta ricatti delle minoranze



Intervista con il vicepremier. «Intercettazioni, bisogna dire sì».

Rutelli: basta ricatti delle minoranze

«Gli accordi non si toccano. Bertinotti? Non si possono cavalcare tutte le proteste» Il premier: spero che la ripresa sia serena. Padoa-Schioppa: non farò mai il politico



Francesco Rutelli(E. Beltrami/ Emblema)
Francesco Rutelli(E. Beltrami/ Emblema)
ROMA
Liberazione accusa: Prodi e Montezemolo vogliono un nuovo '98. Ci mettono con le spalle al muro, scrive Rina Gagliardi, per costringere la sinistra a «un'alternativa micidiale, o rompere o cedere». Siamo a questo punto? Francesco Rutelli, vicepremier e ministro dei Beni Culturali, scuote la testa. Non ci sta a subire quelli che giudica ricatti delle minoranze e ai quali vuole dire basta. «La vera alternativa davanti alla sinistra radicale — spiega — è un'altra: vogliono concorrere a governare il Paese, oppure preferiscono sventolare le loro bandiere? Quando abbiamo formato l'alleanza di governo, abbiamo scommesso sulla prima opzione. Anche perché nelle primarie di due anni fa non abbiamo scelto Bertinotti, che ben rispettiamo, ma Prodi. Vede, anche nel partito laburista di Blair e Brown ci sono forze massimaliste, ma non è mai in questione la guida riformatrice moderna del Paese. So che in una parte della sinistra italiana esiste il rischio che prevalga la seconda opzione, ma io confido che scelgano di contribuire in modo costruttivo al governo ».

Ma la sinistra preme per rimettere in discussione il protocollo su
Il vicepremier al dibattito di Brescia sulle riforme (Ermes Beltrami/Emblema)
Il vicepremier al dibattito di Brescia sulle riforme (Ermes Beltrami/Emblema)
pensioni e precariato. Lo ritiene possibile?

«Per le vie delle città ci sono manifesti bellicosi: "Pensioni, così non va". Non li ha stampati la destra, ma forze di governo. Io credo invece che sulle pensioni abbiamo fatto un lavoro equilibrato e mantenuto gli impegni con gli elettori: sbloccato la previdenza integrativa, alzate le pensioni basse per tre milioni di persone, migliorato la posizione contributiva dei lavoratori precari, trasformato l'ingiusto "scalone" in ragionevoli "scalini", tutelato le posizioni di chi ha un lavoro per davvero usurante. Non solo, però: abbiamo rimesso in pista i coefficienti previsti dalla riforma Dini, che evitano l'esplosione insostenibile del sistema e, visto il veloce aumento della vita media, assicurato un aumento graduale dell'età lavorativa, come avviene in tutta l'Europa. Ogni misura può essere meglio definita. Ma la sostanza è intoccabile. E nessuno pensi di aprire come per la Finanziaria 2007, come per l'extragettito, un pastrocchio di ritocchi e ripensamenti. Io stesso potrei proporre alcuni miglioramenti "riformisti". Ma l'accordo è concluso, e le decisioni non si toccano».

Rifondazione e Comunisti italiani annunciano un autunno caldo e minacciano di portare di nuovo la gente in piazza.
«Spero di no».

Ma è corretto, come dice Fausto Bertinotti, indossare sia l'eskimo sia la grisaglia? Essere partiti di lotta e di governo?
«Avere ideali, convinzioni, passioni è positivo. Ma chi governa cerca la sintesi. O c'è qualcuno che pensa davvero che si guadagnino fiducia e consensi cavalcando tutte le proteste? No alla Tav, no ai termovalorizzatori per smaltire i rifiuti, no all'aeroporto militare Usa. Pensi che nei giorni scorsi c'è stata anche una protesta contro di me perché dopo 40 anni sto finalmente per demolire l'"ecomostro di Alimuri", su una riva vicino a Sorrento. Ma abbatterlo costa, e qualcuno forse immagina che possa provvedere lo Spirito Santo; e altri lamentano che i titolari avranno in cambio una licenza per costruire un nuovo albergo dove non vi siano vincoli paesaggistici. Proteste per un albergo, mica per una fabbrica di armi chimiche».

Ma allora ritiene quasi impossibile il dialogo con Rifondazione?
«Vede, io ho governato la Capitale, con un largo consenso, sia senza, che con la sinistra radicale. Collaboro ottimamente con la Mazzonis, sottosegretaria alla cultura di Rifondazione. Mi aspetto da loro un'utile sottolineatura di traguardi sociali: migliorare i servizi, dare più tutele ai lavoratori discontinui e precari, ad esempio. Assieme a Prodi e a tutta la coalizione sono pronto a formare un'agenda comune e fare compromessi nell'interesse generale. Ma se mi si dice che era sbagliato superare la scala mobile, che è sbagliato il passaggio al regime contributivo per le pensioni, che è dannosa la flessibilità sul lavoro, che anche domani si dovrà andare in pensione a 57 anni, beh questa è proprio una politica conservatrice di sinistra. Renderebbe il Paese più povero, i giovani senza futuro».

Lei ha lanciato un documento, il manifesto dei coraggiosi, nel quale si invoca «un sano shock politico e progettuale per il centrosinistra » e si preconizzano alleanze «di nuovo conio ». La sinistra l'ha subito accusata di volerli scaricare per correre al centro ma anche Arturo Parisi e Dario Franceschini le hanno rimproverato di puntare a rompere lo schema bipolare.
«Lo schema bipolare deve restare, ma va rinnovato radicalmente. Altrimenti, che facciamo a fare il Partito democratico? Vogliamo che continui l'influenza perversa dell'incoerenza, o addirittura del ricatto delle minoranze? Io cerco una moderna democrazia dell'alternanza. "Alleanze di nuovo conio" significa non essere obbligati a coalizioni a destra persino con i gruppi neo-nazisti o, a sinistra, dell'estremismo anti- capitalista. Il Pd fa uscire dalla frammentazione, vuole unire le più avanzate culture riformiste, ambientaliste, liberali, progressiste. Soprattutto, deve interpretare meglio una società che cambia e non ascolta più gli slogan di venti o trenta anni fa. Non vogliamo essere spazzati via dalle nazioni che corrono, non vogliamo lasciare ai nostri figli un paese in Serie B. Il Pd non può essere una sorta di "piccola Unione", né un campionario delle culture "ex", come scriveva Matvejevic (ex comuniste, ex democristiane di sinistra o cristiano-sociali): alla maggioranza degli italiani non interessa. La rendita anti-Berlusconi è finita. Dobbiamo recuperare milioni di elettori in crisi e cominciare a conquistarne di nuovi, soprattutto al Nord».

Le spinte contrapposte all'interno della maggioranza sembrano comunque sempre meno mediabili. Così come farete ad affrontare la Finanziaria?
«Con la prossima Finanziaria potremo finalmente raccogliere i frutti di tanta fatica. Parte il taglio delle tasse sul lavoro. Dal 2008 elimineremo l'Ici a milioni di famiglie di reddito basso. I conti pubblici tornano in ordine. Piuttosto pensiamo a nuovi traguardi coraggiosi: sostegni immediati alle donne che lavorano e potranno lavorare più a lungo soprattutto se hanno figli, poiché vogliamo sconfiggere l'"inverno demografico". Molta più severità verso chi calpesta le regole e crea insicurezza: c'è troppo lassismo in Italia. Verso chi incendia i boschi, chi guida in stato di ebbrezza, persino verso chi riduce bambini in schiavitù e li costringe a rubare. Sto preparando una proposta di legge per togliere la patria potestà agli schiavisti. Ci rendiamo conto che in Italia chi rispetta la legge è sfavorito rispetto a chi delinque?».

Riuscirete a fare una nuova legge elettorale o si arriverà al referendum? Qual è il sistema che preferirebbe?
«Il referendum obbliga ad approvare una nuova legge elettorale in Parlamento con convergenze larghe: ci siamo impegnati a non ripetere l'affronto della "porcata Calderoli". Tra i modelli elettorali principali, preferisco nell'ordine il sistema francese, poi quello tedesco, poi quello spagnolo. Vedremo in autunno la soluzione».

È senza tentennamenti per Veltroni o le candidature di dirigenti del suo partito, la Margherita, come Rosy Bindi e Enrico Letta, in qualche modo la tentano?
«In Veltroni ho piena fiducia, oltre che amicizia. Certo, non andiamo mica verso un partito personalizzato, e nessuno di noi manda il cervello all'ammasso. Ma se la competizione è libera ed aperta, vedo Walter capace di sintesi e innovazione, e non interessato a un profilo parziale ».

Non pensa che sia sbagliato chiudere burocraticamente le porte in faccia a Marco Pannella e a Emma Bonino? Lei ha anche avuto una giovanile esperienza nel Partito radicale e converrà che tutto si può dire tranne che non siano sinceri democratici.
«Non è questo il punto. Il Pd non sarà mica una federazione tra partiti diversi. Io ho quasi concluso l'enorme, e paziente, lavoro di guida politica della Margherita, durato 6 anni, che ha aiutato la nascita del Partito Democratico. Chiunque voglia entrare nel Pd è libero di farlo, anche i radicali che condividano le regole stabilite. Ma tutti i partiti esistenti debbono fare la stessa scelta coraggiosa e generosa che abbiamo fatto noi: decidere di sciogliersi. Un nuovo partito non può candidare come leader nazionale qualcuno che continui ad essere parte di un altro partito, che può avere strategie politiche e persino elettorali differenti».

E intanto c'è la storia delle intercettazioni. Che risposta deve dare il Parlamento alle richieste del giudice Forleo?
«Le richieste vanno accolte. E va approvata una normativa che consenta ai magistrati di indagare liberamente ma non consenta a qualunque scriteriato di intercettare chiunque, compresi parlamentari e ministri, e di pubblicare i numeri personali di telefono o conversazioni irrilevanti di comuni cittadini. Vede, anche sull'ordinamento giudiziario la maggioranza ha fatto un buon lavoro, correggendo le storture delle controriforme della destra e non cedendo al giustizialismo. Dobbiamo fare lo stesso trovando il punto di equilibrio tra tutela della privacy e piena autonomia e responsabilità degli inquirenti».

I Ds, che nella tempesta di Tangentopoli sono sempre stati dalla parte dei giudici, anche nell'illusione di poter cambiare la storia politica nelle aule di tribunale, ora si ritrovano nel ruolo di vittime. Una nemesi?
«Veramente, all'avvio di Tangentopoli non mi pare fossero i Ds a sventolare il cappio nell'Aula di Montecitorio. Fu la destra. Certo: se da tutta questa storia uscirà una maggiore, più netta separazione tra politica e azione giudiziaria, se tornerà generalizzata una sobrietà e maggiore incisività dell'azione penale anche al di fuori delle inchieste che producono titoloni sui giornali, sarà meglio per tutti».

Questa vicenda quanto pesa nella formazione del partito democratico?
«In generale, credo che il fallimento delle scalate dei "furbetti" sia di grande aiuto per la nascita del Pd. Si è voltata pagina da tempo rispetto all'epoca in cui per fare politica occorrevano soldi dall'America o dalla Russia, o il controllo di partecipazioni statali. Ora è finita, spero, anche l'epoca in cui si cerchi di controllare banche, gestire da vicino cooperative o imprese che organizzino affari».

Marco Cianca

lunedì 30 luglio 2007

Pd, in corsa anche Pannella e Di Pietro


Scaduto il termine per la presentazione delle firme a piazza Santi Apostoli

Il leader radicale e il ministro confermano la propria candidatura alle primarie del 14 ottobre.
Undici in lizza, ma due non ce la fanno



Marco Pannella e Giovanni Stanzani si presentano a Santi Apostoli per la consegna delle firme (Lapresse)
Marco Pannella e Giovanni Stanzani si presentano a Santi Apostoli per la consegna delle firme (Lapresse)
ROMA
- Alla fine ci sono anche Marco Pannella e Antonio Di Pietro tra i possibili candidati alla guida del Partito democratico, anche se la loro corsa deve essere ancora ufficializzata. I due esponenti politici, infatti, sono leader di altre formazioni politiche e lo stesso Veltroni ha lanciato nuovamente il tema dell'incompatibilità di una doppia appartenenza: o si sta nel partito democratico, aderendovi o fondendovi all'interno i propri partiti come già hanno deciso di fare Ds e Margherita, oppure non ci si può candidare. Resta ora da capire quali decisioni prenderà in proposito il comitato elettorale di Santi Apostoli, ovvero l'Ufficio Tecnico Amministrativo che si è già riunito e che dovrà esaminare le istanze di candidatura e stabilire, entro 48 ore, l'ammissibilità o meno dei candidati.


LE FIRME - Quella di lunedì è stata in ogni caso una giornata convulsa nella sede ulivista, dove fin dalla prime ore del mattino è cominciata la processione dei rappresentanti dei comitati che hanno depositato le firme a sostegno delle candidature per la leadership del futuro Partito democratico, in vista delle primarie del prossimo 14 ottobre (■ Il sito delle primarie).

Walter Veltroni (Ansa)
Walter Veltroni (Ansa)
VELTRONI PRIMO
- I primi a presentarsi, intorno alle 9, sono stati i delegati del Comitato per Walter Veltroni, che hanno consegnato le 2.950 sottoscrizioni raccolte dall'organismo presieduto dal senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro. Subito dopo, alle dieci circa, è stata Rosy Bindi a varcare il portone per recapitare le sottoscrizioni. È stato invece il presidente della commissione Esteri della Camera e parlamentare diessino Umberto Ranieri, a depositare le firme per la candidatura del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta.

PANNELLA C'E' - Nel pomeriggio c'è stata grande attesa per l'arrivo nella sede dell'Ulivo degli altri candidati alla leadership del Pd. Il più atteso era Marco Pannella che si candiderà in abbinata a Emma Bonino: i plichi con le firme sono stati recapitati poco prima delle venti dal l fondatore di Radio radicale Sergio Stanzani e dai dirigenti radicali Michele De Lucia e Marco Staderini. Poco dopo è arrivato a piazza Santi Apostoli lo stesso Marco Pannella.

IL FINTO NO DI DI PIETRO - Antonio Di Pietro nel pomeriggio aveva sviato i cronisti dichiarando di non avere alcuna intenzione di voler entrare in lizza per la leadership del Pd. Ma se il ministro delle Infrastrutture e leader dell'Idv si chiamava fuori, dal partito trapelavano in realtà informazioni diverse e non a caso si faceva notare che per la consegna delle firme c'è tempo fino alle 21 di oggi. E con circa un'ora di anticipo rispetto allo scadere dei termini, Leoluca Orlando si è presentato a Santi Apostoli per ufficializzare la candidatura dell'ex Pm.

GLI ALTRI CANDIDATI - Ce l'ha fatta in zona Cesarini, o comunque è a dieci minuti dalle 21 che si è presentato a consegnare i plichi con le sottoscrizioni, il senatore ds ed ex direttore dell'Unità, Furio Colombo. E sono riusciti nell'impresa di superare il quorum delle 2 mila firme di sostegno l'economista Pier Giorgio Gawronski e l’esponente dei «iMille» e animatore di blog politici Mario Adinolfi. Dovrebbe anche far parte della partita il direttore dell'Agenzia europea di investimenti standard ethics Jacopo Gavazzoli Schettini. Non ce l'ha invece fatta l’ex vice presidente delle Comunità montaneLucio Cangini, che si è fermato a 700 firme. Alle 21,30, teoricamente fuori tempo massimo, si è presentato nella sede ulivista anche Amerigo Rutigliano.

«NON SI STA IN DUE PARTITI» - Proprio nel giorno della consegna delle firme Veltroni è intervenuto sulla questione candidature, sottolineando che «il fatto che da parte di Di Pietro, Pannella, Bonino ci sia la volontà di partecipare alle primarie per il Pd, vuol dire che questa nuova forza ha una grande capacità di attrazione». Il sindaco di Roma, tuttavia, mette le mani avanti e puntualizza: «Se si sta in un partito non si può stare anche in un altro». Veltroni ha infatti ricordato che dopo il 14 ottobre «non esisteranno altri partiti ma il Pd e chi lo sceglie deve chiudere la situazione nel suo attuale partito».

30 luglio 2007

fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2007/07_Luglio/30/pd_candidature_primarie.shtml

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31 luglio 2007
Pannello e Di Pietro bocciati
Nella notte il veto dell'Ufficio tecnico: «Non hanno sciolto i loro partiti». Il leader radicale: «Lo sapevo, faremo ricorso»


Veltroni, ed il "premierato" del nulla

Veltroni? Mah...

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TUTTO CAMBI.. PURCHE' TUTTO RESTI COM'E'
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Veltroni: il Paese ha bisogno di uno "choc innovativo"

Roma - Nel giorno dell'inaugurazione della sede del comitato elettorale per la sua candidatura a segretario del Pd, Walter Veltroni ha proclamato: "Dobbiamo sostenere il governo, che ha fatto molte cose buone". Il sindaco di Roma ha poi proseguito con un pizzico di criticità: "l'instabilità politica rischia di gettare ombre negative anche sulle cose buone che questo governo ha fatto e fa, come l'aver rimesso a posto i conti pubblici, l'accordo sulle pensioni e in materia di politica estera".

Interrogato dai giornalisti intervenuti all'inaugurazione sul welfare e le pensioni, Veltroni ha risposto: "è un punto di equilibrio importante, un punto di riferimento. Non ci possono essere cambiamenti che minino la sua struttura, la sua essenza". Si tratta di "un primo passo nella lotta alla precarietà della vita" e che se " bisognerà farne molti altri, quella è però la direzione giusta".

Diverse sono state le candidature alla leadership, come ad esempio quella di Marco Pannella; ciò però - ha sottolineato Veltroni - dimostra "che il partito democratico ha una grande capacità di attrazione. Ma se si sta in un partito non si può stare in due", anche perchè dal "14 ottobre non si parlerà più di ds e margherita ma solo di partito democratico".

Alcuni giornalisti hanno poi sottolineato la disparità tra i concorrenti alla leadership del partito Democratico, come ad esempio Bindi e Colombo - paragonati dagli stessi intervistatori a delle Fiat 500 - e Veltroni - che in questo caso vestiva il ruolo di una prestigiosa Ferrari. La risposta del sindaco di Roma però è stata molto puntigliosa: "Conoscete la mia storia personale, posso solo dire che la mia Ferrari è stato aver creduto in questa cosa 10 anni fa, quando era difficile sostenerla e si parlavano tutt'altri linguaggi. La gente ha percepito che ho lavorato con motivazione e onestà di valori. Questa è la mia Ferrari ma nessuno me l'ha messa a disposizione, né me la potrà mettere. L'ho costruita io pezzo per pezzo".


Comunque sia, ha proseguito, "è bene che colui che sarà eletto leader abbia la maggiore forza possibile per contrastare la frammentazione della politica italiana. Mi auguro che il 14 ottobre milioni di persone vengano a votare e sottolineo che farlo non significa iscriversi al Pd, ma fare un atto di sostegno".


Walter Veltroni ricoprirà la carica di sindaco della Capitale fino al 2011. A chi a messo in discussione l'eventualità di un conflitto tra la sua attuale funzione e quella di leader del Partito democratico, ha prontamente risposto : "Non c'è una funzione politica per la quale smettere, ce n'è solo una istituzionale. Le due cose non sono in disaccordo, sono compatibili. La competizione interna per la scelta del segretario del Pd è importante, ma va distinta da quella del 2011, che è la vera competizione per la scelta di chi guiderà il Paese. Cioè la competizione con il centrodestra".

Il 14 ottobre è un'altra tappa, una "scelta interna, che si deve fare con rispetto e - prosegue Veltroni - da parte mia ci sarà solo e sempre un grande rispetto. Capisco che qualcuno sarà portato ad alzare i toni e a dire qualche parola in più del necessario. Ma questo fa parte del fisiologico. Io in questi giorni parlerò al Paese da italiano, non da uomo di parte, perché sono in campo per dare una mano al cambiamento del Paese e lo farò con grande sobrietà e grande attenzione al sociale e alle energie nuove".

"Il sistema della decisione in Italia - ha concluso - è in crisi. Nessuno decide più nulla, il paese è immerso in una crisi democratica molto forte, profonda. Questo problema, se non sarà affrontato rischierà di determinare la crisi della democrazia stessa". L'Italia ha bisogno di uno "choc innovativo".


Bush: «La guerra in Iraq durerà a lungo»



Conferenza stampa dei due leader a Camp David
Bush: «Brown resterà al mio fianco»
Serve una nuova risoluzione dell'Onu per contrastare il programma nucleare. Il presidente Usa: «La guerra in Iraq durerà a lungo»


Bush e Brown (Ap)
Bush e Brown (Ap)
CAMP DAVID (Usa) -
Il presidente americano George W. Bush «non ha dubbi» che il premier britannico Gordon Brown «capisca quale sia la posta in gioco nella battaglia in Iraq e in Afghanistan», «capisca che le conseguenze del fallimento dell’operazione sarebbero disastrose» e quindi resterà al suo fianco. Bush lo ha detto rispondendo alle domande dei reporter nella conferenza stampa congiunta con il premier inglese, da domenica ospite nella residenza di campagna di Camp David.


SI' A NUOVE SANZIONI CONTRO L'IRAN - Gordon Brown e George W. Bush, nel corso dell'incontro, dopo aver ribadito lo stretto legame tra i due paesi, hanno anche dichiarato di essere d'accordo nel chiedere nuove sanzioni contro l'Iran, attraverso una nuova risoluzione dell'Onu, per impedire l'avanzamento del progetto nucleare di quel paese.

BUSH: «IN IRAQ LA GUERRA DURERA' ANCORA A LUNGO» - «La guerra in Iraq durerà a lungo» ha ammesso il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, rispondendo alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se della questione dovrà occuparsi il prossimo inquilino della Casa Bianca. «Ci sono stati passi avanti e ovviamente anche passi indietro», ha detto Bush nel corso della conferenza stampa congiunta con il premier britannico Gordon Brown, da domenica ospite nella residenza di campagna di Camp David. Il presidente americano ha tuttavia glissato sul dettaglio della domanda, rinviando all’importante rapporto sull’andamento dell’operazione del generale David Petraeus, a metà settembre.

DARFUR - Un altrio tema toccato dai due leader è stato quello della crisi del Darfur, definita «la più grave catastrofe umanitaria che il mondo registri oggi» dal primo ministro britannico Gordon Brown, che ha annunciato insieme al presidente George W.Bush che Usa e Gran Bretagna sono pronti «ad aumentare la pressione per metter fine alla violenza». Brown, parlando con Bush a Camp David, ha spiegato che i due leader sono d'accordo sulla necessità di «accelerare la risoluzione dell'Onu per una forza di pace congiunta Onu-Unione Africana». Bush e Brown si sono detti d'accordo sulla necessità di incoraggiare incontri di pace, esortare a «metter fine alla violenza sul terreno e ai bombardamenti aerei di civili» e a sostenere lo sviluppo economico se questo accade. Se invece la violenza non si ferma, Usa e Gran Bretagna intendono «rafforzare le sanzioni».

Iraq, è emergenza umanitaria





Iraq, è emergenza umanitaria: 8 milioni di persone rischiano la vita


 Bambini morti

Almeno otto milioni di iracheni, ovvero un terzo della popolazione, hanno bisogno di aiuti immediati. A lanciare l'ennesimo allarme per le drammatiche condizioni di vita del popolo iracheno sono Oxfam e la rete di Ong locali Ncci, che in un rapporto pubblicato ad Amman esortano il governo di Baghdad e la comunità internazionale a «prendere atto del pericolo umanitario» nel Paese e «a lavorare per fornire a tutta la popolazione acqua, cibo e servizi igienici di base».

Secondo il documento, sono almeno quattro milioni gli iracheni che non riescono a mangiare con regolarità e hanno bisogno di assistenza, oltre ai due milioni di sfollati e ai due milioni di profughi, riparati soprattutto in Siria e Giordania. Inoltre, il 70% della popolazione non ha accesso regolare all'acqua potabile, emergenza che nel 2003 riguardava il 50% degli iracheni, il 30% dei bambini è malnutrito e il 92% ha problemi legati ai traumi della guerra.

Per il direttore di Oxfam, Jeremy Hobbs, dal 2003 a oggi la malnutrizione tra i più piccoli è aumentata «drammaticamente» e i servizi di base, «danneggiati da anni di guerra e sanzioni, non possono più soddisfare i bisogni del popolo iracheno». Per questo, «il governo iracheno», ha concluso Hobbs, «deve immediatamente distribuire razioni di cibo tra i poveri e gli sfollati», mentre i Paesi donatori devono fare pressione su Baghdad e facilitare le operazioni umanitarie delle organizzazioni impegnate sul terreno.


Pubblicato il: 30.07.07
Modificato il: 30.07.07 alle ore 16.50
fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=67833

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Perché Berlusconi non dice dove ha preso i capitali Fininvest?




IL CASO GIUFFRIDA

di marco travaglio


Francesco Giuffrida, vicedirettore della Banca d’Italia a Palermo e consulente della Procura antimafia del capoluogo siciliano nel processo Dell’Utri a proposito della misteriosa provenienza dei capitali della Fininvest, venerdì scorso ha “raggiunto un accordo transattivo” con la stessa Fininvest nella causa civile per danni che il gruppo Berlusconi gli aveva intentato lo scorso anno.

In cambio del ritiro della denuncia, Giuffrida dichiara che la sua consulenza depositata nel 1999 sulle operazioni “anomale” riscontrate nei finanziamenti alle holding di controllo della Fininvest a cavallo tra gli anni 70 e 80 era soltanto “parziale” e “non definitiva”, visto che si interruppe sul più bello nel 1998 con l’archiviazione del fascicolo aperto a carico di Silvio Berlusconi (per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco) per decorrenza dei termini d’indagine. Fin qui, nulla di nuovo: la circostanza era già stata precisata dai pm e da Giuffrida al processo Dell’Utri.


PROVVISTA INTERNA?

La novità è che Giuffrida dichiara di essersi sbagliato quando, sotto giuramento dinanzi al Tribunale, sostenne che alcune operazioni finanziarie erano “anomale” e che 113 miliardi di lire dell’epoca (pari a circa 300 milioni di euro di oggi, in parte addirittura in contanti e assegni circolari) erano “flussi di provenienza non identificabile”: ora, otto anni dopo, ha avuto una folgorazione e improvvisamente ha scoperto che “le operazioni erano tutte ricostruibili e tali da escludere l’apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest”. La provvista dei soldi dunque non era esterna, come da lui sostenuto al processo sotto giuramento, ma “interna”. In pratica, i soldi a Berlusconi li dava Berlusconi stesso. Nessun sospetto di capitali mafiosi o poco trasparenti, dunque. Il Cavaliere è candido come giglio di campo, limpido come acqua di fonte. Tutto è bene quel che finisce bene (anche se resta da capire chi finanziava Berlusconi per consentirgli di finanziare se stesso).

Sulle ali dell’entusiasmo, i giornali del Cavaliere traggono deduzioni mirabolanti. “Libero”: “Su Silvio un mucchio di balle”, “Ritratta tutto il perito dei giudici che accusò Fininvest di essere nata con i soldi della mafia. E’ la fine di una persecuzione e dei teoremi di Travaglio & C.”. “Il Giornale” titola: “Crollano i teoremi sulla nascita della Fininvest”; sotto, un cronista appena licenziato da Repubblica perché avvertiva il Sismi di quel che scrivevano i suoi colleghi, racconta a modo suo “Il partito di Giuffrida che ha ispirato libri e show. Da Travaglio a Grillo e Luttazzi, così la sinistra ha elevato il funzionario di Bankitalia a eroe della resistenza anti-Cavaliere”. L’on. avv. Nicolò Ghedini si sporge un tantino oltre: “Berlusconi ha creato ricchezza e decine di migliaia di posti di lavoro in modo assolutamente corretto. Oscuri giornalisti sono diventati famosi e analfabeti di ritorno sono diventati scrittori, diffamando Berlusconi in merito all’origine del suo patrimonio. Molti dovrebbero scusarsi con lui”.

L’On. Avv. non spiega chi avrebbe diffamato il Cavaliere, visto che tutte decine di cause civili intentate da lui e dai suoi cari contro i giornalisti (ma anche contro Daniele Luttazzi e Carlo Freccero) che hanno raccontato i misteri delle sue fortune sono finite con l’assoluzione dei denunciati e la condanna di Berlusconi & C. a rifondere le spese processuali. In ogni caso, se un consulente dichiara una cosa in un pubblico dibattimento, un giornalista la riferisce e poi il consulente ritratta, perché mai dovrebbe scusarsi il giornalista?


FATTI NUOVI O BUGIE?

Spetta ora a Giuffrida spiegare quali fatti nuovi (non indicati nella transazione firmata venerdì) l’abbiano indotto al clamoroso voltafaccia. In caso contrario, spetterà eventualmente alla magistratura accertare quando il consulente abbia mentito: se al processo Dell’Utri (sotto giuramento) o nella transazione con la Fininvest. E, soprattutto, perché. Tantopiù che Giuffrida ha firmato la resa da solo, all’insaputa dei suoi legali, gli avvocati Maria Taormina Crescimanno e Antonio Coppola, che sabato l’hanno scaricato con una secca nota all’Ansa: “Il dottor Giuffrida ha personalmente ricevuto la proposta di transazione dalla Fininvest e solo il 18 luglio ha sottoposto ai suoi legali una bozza di accordo che gli stessi non hanno condiviso, ritenendo che quanto affermato nel documento non corrispondesse alle reali acquisizioni processuali. Il successivo 26 luglio il dottor Giuffrida ha inviato all'avvocato Coppola il testo della bozza parzialmente corretto. Consultatisi i difensori hanno tuttavia ritenuto di non condividere la proposta di transazione. Ieri i difensori hanno saputo dai media, e solo successivamente da Giuffrida, della stipula dell'atto che non hanno sottoscritto e che non sottoscriveranno non condividendo la ricostruzione dei fatti e le affermazioni in esso contenute” (dal che si deduce, tra l’altro, che l’atto diffuso dalla Fininvest e pubblicato da “Libero” con i loro nomi tra i firmatari, è un falso).

Noi, come facemmo con la consulenza del 1999, riferiamo anche la ritrattazione del 2007. E possiamo comprendere il tormento di un uomo solo che si trova chiamato in giudizio da un gruppo tanto influente sul piano politico, mediatico e finanziario. Ma, visto l’uso disinvolto che si fa della transazione a tarallucci e vino, qualche precisazione s’impone.

1) Dell’Utri è stato condannato dal Tribunale di Palermo a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e non per riciclaggio. Dunque non in base alla consulenza Giuffrida, ma a una gran mole di prove (i giudici parlano di “imponente produzione di documenti rappresentativi di fatti, persone e cose mediante fotografie e filmati tv; perquisizioni nei luoghi di pertinenza anche di Dell’Utri; intercettazioni telefoniche e ambientali; sequestri di cose pertinenti ai reati e di documenti presso istituti di credito”). Correttamente la II sezione ha preso atto delle dichiarazioni di Filippo Alberto Rapisarda e dei mafiosi pentiti Francesco Di Carlo, Gioacchino Pennino e Tullio Cannella (in parte ritrattate in udienza dagli ultimi due) sul riciclaggio di denaro della mafia da parte della Fininvest, ma le ha ritenute insufficienti per trarne conclusioni così gravi. Quanto alla consulenza Giuffrida, gli stessi giudici la definiscono fondata su “una parziale documentazione”. E osservano che “evidenzia la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984”, ma soprattutto che Giuffrida “non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell’Utri”: il professor Paolo Iovenitti.

2) Per tentar di dimostrare che le operazioni sospette erano regolari e trasparenti, Dell’Utri getta in pista Iovenitti, luminare della Bocconi. Il quale però, in udienza, è costretto ad ammettere, dinanzi alle contestazioni dei pm e di Giuffrida, che alcune operazioni erano “potenzialmente non trasparenti”. Scrivono i giudici: “Non è stato possibile, da parte di entrambi i consulenti, risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all’origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. E allora le ‘indicazioni’ dei collaboranti e del Rapisarda non possono ritenersi del tutto ‘incompatibili’ con l’esito degli accertamenti svolti (…). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame, pur avendo il consulente della difesa la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest”. Ora la ritrattazione di Giuffrida “scavalca” addirittura il consulente Fininvest che – si legge nella sentenza – “non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie ‘anomale’ e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest, in modo da escludere una volta per tutte la possibilità che Dell’Utri avesse utilizzato la Fininvest per la sua attività di riciclaggio”. Possibile che il consulente dell’accusa, in assenza di fatti nuovi, sia diventato più “buono” di quello della difesa?


Ora che Giuffrida dice che è tutto regolare, c’è da sperare che se ne convinca anche il Cavaliere. E, visto che non ha nulla da nascondere, ritrovi la favella. Altrimenti si verrebbe a creare una situazione davvero curiosa: un funzionario della Banca d’Italia sa dove Berlusconi ha preso i soldi, e Berlusconi non lo sa.\u003cbr /\>PS. La Corte d’appello di Milano ha appena condannato a 2 anni Dell’Utri per tentata estorsione mafiosa insieme al capomafia di Trapani Vincenzo Virga ai danni dell’imprenditore Garraffa, che rifiutava di pagare un credito non dovuto di 750 milioni, per giunta in nero. Poco prima di mandargli il boss, Dell’Utri lo avrebbe avvertito con queste parole: “Abbiamo uomini e mezzi capaci di farle cambiare idea”. Così, a puro titolo di cronaca.


PERCHE’ NON PARLI?

Su un punto i berluscones hanno ragione: questa storia delle origini misteriose dei capitali Fininvest si trascina da troppo tempo. Ma chi meglio del titolare, cioè di Silvio Berlusconi, potrebbe fare piena luce? L’occasione d’oro gli si presenta il 26 novembre 2002, quando il Tribunale di Palermo che processa Dell’Utri gli rende visita a domicilio a Palazzo Chigi, con gran seguito di pm, avvocati e consulenti, per interrogarlo in veste di indagato di reato connesso. Ma lui, invece di chiarire una volta per tutte dove ha preso quei soldi, si avvale della facoltà di non rispondere. Il pm Ingroia lo stuzzica: “La sua deposizione sarebbe preziosa per dare un importante contributo all’accertamento della verità”.E snocciola le questioni che giudici e pm han deciso di sottoporgli: “I rapporti del sen. Dell’Utri con Rapisarda, Gaetano Cinà, Vittorio Mangano, la provenienza dei capitali...”. Il premier pare tentato di replicare, ma Ghedini lo stoppa, ribadendo la di lui intenzione di tenere la bocca chiusa. Giudici, pm e avvocati se ne tornano a Palermo a mani vuote.

Scriverà il Tribunale nella sentenza Dell’Utri: “Il premier si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica, incidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone, e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio”.
Ora che Giuffrida dice che è tutto regolare, c’è da sperare che se ne convinca anche il Cavaliere. E, visto che non ha nulla da nascondere, ritrovi la favella. Altrimenti si verrebbe a creare una situazione davvero curiosa: un funzionario della Banca d’Italia sa dove Berlusconi ha preso i soldi, e Berlusconi non lo sa.

PS. La Corte d’appello di Milano ha appena condannato a 2 anni Dell’Utri per tentata estorsione mafiosa insieme al capomafia di Trapani Vincenzo Virga ai danni dell’imprenditore Garraffa, che rifiutava di pagare un credito non dovuto di 750 milioni, per giunta in nero. Poco prima di mandargli il boss, Dell’Utri lo avrebbe avvertito con queste parole: “Abbiamo uomini e mezzi capaci di farle cambiare idea”. Così, a puro titolo di cronaca. 29 Luglio 2007 L'Unità

marco travaglio

fonte: http://www.marcotravaglio.it/casogiuffrida.htm