"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

domenica 29 luglio 2007

IL CONTROLLO DAL BASSO PER IL POTERE DI TUTTI



LA PRECARIETA'

ANDREA BAIANI, SCRITTORE E GIORNALISTA, RACCONTA IN "D" DEL 19.5.2007:

"La prima volta che ho parlato con un direttore del personale mi ha detto: «Le do un consiglio: non si affezioni a nessuno».

Era il 1999, mi ero laureato da poco, e il tempo che avevo lo impiegavo per il 50 per cento a cercare un lavoro e per l'altro 50 a tenere in piedi i lavoretti con cui mi barcamenavo.

Torino la tagliavo in bicicletta da una parte all'altra più volte al giorno, mangiavo panini pedalando, mi cambiavo parlando al telefono, e gli amici mi maledivano perché era impossibile riuscire a vedersi con calma.

Era la prima volta che avevo a che fare con un'azienda vera, di quelle con la targa al portone e la signorina sorridente alla reception oltre la porta.

Era la prima volta che mi si prospettava non dico il miraggio della stabilità, ma quanto meno il pensiero confortevole di diminuire il numero delle camicie sudate aggrappato al manubrio.

Per cui, a convocazione arrivata, avevo prontamente risposto presentandomi con una camicia nuova, un paio di scarpe appena comprate e una rassettata al curriculum.

Quando il direttore del personale mi aveva dato quel consiglio (consiglio che io, avevo pensato, avrei dato soltanto a un plotone di reclute in partenza per il fronte) avevo chiesto: «Perché?». Il direttore del personale aveva fatto il giro della scrivania, mi aveva dato una pacca sulla spalla, una stretta di mano, e poi mi aveva detto: «È un discorso troppo lungo, lo capirà da solo».


E INFATTI CON IL TEMPO L'HO CAPITO, CHE COSA VOLEVA DIRE QUEL SIGNORE CON LA CRAVATTA APPOGGIATA SULLA PANCIA QUANDO MI DICEVA

DI NON AFFEZIONARMI A NESSUNO.

Me l'aveva detto quasi come un vaticinio, con l'espressione criptica e allusiva di chi sa che sta per succedere qualcosa e non può ancora dirlo in giro.

Era il 1999, quello che doveva succedere aveva già incominciato a succedere, ma ancora non si era aperta la voragine di precarietà che si sarebbe spalancata di lì a pochi anni.

Ecco, credo che non ci possa essere modo peggiore, nel legarsi alle persone, di quello espresso in un consiglio così formulato.

L'espressione "allacciare rapporti" è quella che secondo me illustra di più la natura dei legami: allacciare una persona a un'altra, come fa la scarpa col piede, diventare complementari.

Il "Non si affezioni a nessuno" nega tutto ciò, perché sottende la riduzione di una relazione alla sola funzionalità, elimina il camminarci dentro, la scarpa. Elimina il fatto che a camminarci dentro per un po', il piede si conquista la scarpa, la piega alla propria conformazione, alla postura, al calore, la rende affezionata, in qualche modo.

Ma il mio direttore del personale parlava di rapporti di lavoro, non di scarpe da allacciarsi intorno ai piedi e vedere come stanno. E, ripeto, è bastato poco per capire quale fosse il significato di quell'invito a non affezionarsi a nessuno.

In quell'azienda ci sono stato più di un anno, tendenzialmente fermo in un unico ufficio, svolgendo mansioni - le più disparate - con l'attenzione rivolta costantemente alla scadenza sempre imminente di una nuova proroga contrattuale.

La mia scrivania era di fronte a una scrivania che dai dipendenti di quell'azienda veniva additata come la sedia dei morti.

Era, quella, la scrivania su cui si avvicendava un turn over piuttosto significativo di forza lavoro in affitto. Da lì passavano stagisti, neocollaboratori, interinali di lungo corso (ma di breve permanenza), e quando i dipendenti li vedevano arrivare facevano scattare con occhiate di sadica complicità una sorta di implacabile conto alla rovescia.

I nuovi arrivati si piazzavano lì, in poco tempo tentavano di diventare amici di tutti (chi lavorando fino allo sfinimento, chi sorridendo a oltranza. chi tornando dalle vacanze con gran copia di vassoi stipati di souvenir gastronomici), e poi con altrettanta rapidità scomparivano, si dissolvevano.

Senza che nessuno ne sapesse nulla, succedeva che una mattina la sedia dei morti restasse vuota, io guardavo l'ora per valutare l'ineluttabilità della cosa, e i dipendenti dell'azienda (quelli che sembrava stessero lì da sempre, e che con ogni probabilità sarebbero sopravvissuti all'azienda anche quando questa non ci sarebbe più stata), sogghignavano di sadico piacere.

Uno dei motivi per cui non bisognava affezionarsi a nessuno era proprio questo: evitare traumi di fronte ai sempre più frequenti trapassi di personale, trapassi che nelle aziende sono diventati un'abitudine consolidata.

Il mercato del lavoro è cambiato, e questa è una frase che per molti ha connotazione di fatalistica presa di coscienza di qualcosa che c'è e che così resterà nei secoli dei secoli.

Prima il mondo dei lavoro era fatto di lavori di routine, di gente che passava quarant'anni della propria vita a guardarsi in faccia tutte le mattine per tutti i santi giorni, domeniche escluse, che Dio mandava in Terra.


C'ERA QUESTO MODO TRA LO SFINITO E IL RASSEGNATO DI STARSI ACCANTO, DI CONDIVIDERE.

Poi, dopo quarant'anni, ci si stringeva la mano, ci si diceva «Noialtri ne abbiamo viste», e con buona pace delle stagioni della vita si finiva a invecchiare davanti alla televisione. Ogni tanto ci si incontrava, si faceva amarcord, e si ritornava a invecchiare davanti alla televisione, le mogli che di lavorare non smettevano mai e dicevano ai mariti «Era meglio quando lavoravi». Più o meno funzionava così, e i figli regalavano nipoti e i nipoti qualche volta staccavano i nonni dalla televisione, con gran sollievo di tutti, figli, nonni, nipoti e nonne che non ne potevano più.

Poi il mercato del lavoro è cambiato. È arrivata la flessibilità. E allora nelle aziende ha cominciato a esserci tutto un andare e venire di gente, in principio sotto lo sguardo stranito dei vecchi. Poi col tempo ci si è abituati e chi arrivava ha cominciato a essere guardato con diffidenza e curiosità, e chi se ne andava con un misto di compassione e sadico disprezzo. E così anche il modo di stare insieme, al lavoro, è cambiato, si è trasformato profondamente.


CHIUNQUE ABBIA LAVORATO IN UN'AZIENDA LO SA, CHE LA GALASSIA DEI LAVORATORI SI DIVIDE TRA CHI IL LAVORO CE L'HA STABILE E CHI INVECE CE L'HA PER UN PO' CON IL CONTRATTO SEMPRE TROPPO PROSSIMO ALLA SCADENZA.

Pietro Ichino, con una provocazione persino macabra, questa bipartizione l'ha raccontata come una nuova forma di apartheid: gli stabili, gli assunti da una parte, e i precari, i soggetti a verdetto dall'altra, che sgobbano oltre gli orari e i luoghi di lavoro e che in definitiva fanno tutto quello che gli altri non hanno voglia di fare.

La semplificazione è un po' brutale, ma mette bene in scena un modo di stare, o non stare dentro un'azienda. Chiunque abbia lavorato da assunto sa quanto stia progressivamente tramontando quel vecchio modo di aspettare pazientemente il giorno della pensione e quanto stia invece vincendo la modalità propria di chi non ha garanzie.

C'è un nuovo soggetto lavoratore, che è entrato in scena, e che probabilmente non è altro che l'evoluzione del lavoratore di un tempo.

Nelle aziende quelli a scadenza li si riconosce immediatamente, con quell'accenno di ansia che contraddistingue i loro gesti, attaccati a computer e telefoni. A passargli di fianco sembrano artificieri accanto a bombe a orologeria. Sempre di fretta, poche parole per tutti e alla fine uno strano disincanto a legarsi in maniera forte agli altri dell'ufficio.

Prima o poi da lì si va via, tanto vale sfangarla fino a quando si può e tenersi i legami che si hanno al di fuori, amici, parenti e morosi o morose. È quel che succede quando si è sotto ricatto, perché il ricatto si mangia via tutto, nei rapporti tra le persone, li rende soltanto funzionali.

Però credo che le semplificazioni non aiutino. Spaccare il mondo in due, dividere l'universo dei lavoratori tra i lavoratori stabili, coi loro rapporti tutto sommato stantii ma di lungo corso, e i lavoratori a scadenza, con rapporti disumanizzati, nevrotici e funzionali, non aiuta a capire come si sono trasformati i rapporti tra le persone.

Sempre di più, è vero, sono diventati rapporti nevrotici e funzionali, ma non soltanto tra i lavoratori col timer.

In qualche modo la "sindrome del precario" sta dilagando trasversalmente, prendendo a poco a poco tutti i lavoratori. È come se la sedia dei morti che mi stava davanti ora ce l'avessero un po' tutti, sotto al sedere, e il turn over fosse una minaccia ormai diventata implicita per chiunque.

Voglio dire, io credo che alla base ci sia un'idea diversa del lavoro, che ha smesso di essere una garanzia perché si è innestata un'ideologia che tende a trasformare il rischio in un valore, l'incertezza in un paradigma di sviluppo.

E non solo nel mondo del lavoro.

È un'ideologia che tende a trasmettere l'idea che ciò che è a rischio, ciò che è a scadenza, ciò che succede solo una volta, ha un valore infinitamente superiore a ciò che si consolida, che sta lì da tempo. Proprio per la sua natura di eccezione, di eccezionalità. Quel modo di lavorare nevrotico, quei rapporti sempre più funzionali tra le persone, nelle aziende, riguardano sempre di più tutti i lavoratori che ci lavorano dentro, stabili o precari che siano.

Io credo che questo sia un cambiamento epocale, nel modo di percepire il lavoro e i rapporti di lavoro.

Da sempre il lavoro è stato un grande vettore di socialità, ora sta smettendo di esserlo.

I momenti di socialità li decide l'azienda, li convoca, allestendo grotteschi momenti di festa aziendali, in cui tra palloncini, torte coi nomi, power point euforici, abiti casual e mariti e mogli addobbati per l'occasione, si chiede ai dipendenti di scambiarsi vistosi segni di pace, a suggello della politica di socialità che l'azienda porta avanti.

Una socialità sbandierata, comunicata, fatta pubblicità. Questo mi sembra stia succedendo nei rapporti tra le persone in ufficio.

E con ogni evidenza è ben diverso dall'idea di "allacciare" rapporti, è ben diverso da quello che fa la scarpa col piede."


Il modo di vivere che ci racconta Baiani è un modo che scimmiotta all'italiana quel diverso tipo di vita che hanno i dipendenti in USA.

I padroncini italiani si fanno più furbi dei seri americani e per pagare al minimo tasse, contributi, balzelli vari, accellerano i licenziamenti e impediscono qualsiasi prospettiva al malcapitato dipendente.

Come abbiamo visto in altre analisi del fenomeno, oltre ai malcapitati il danno ricade sui consumatori, sui clienti dell'azienda, sul sistema in generale.

La politica potrebbe come in USA disinteressarsi del problema e, di fronte al calo delle entrate, far pagare i servizi, dalla scuola alla sanità, costringendo i cittadini a impegnarsi in assicurazioni private, con grandi benefici dei banchieri, o a rassegnarsi a vivere in miseria con carità pubblica e privata.

In Europa, con vecchie tradizioni socialiste di protezione dei lavoratori, la politica sta in bilico, cercando di tenere basse le imposte e fornendo servizi pubblici nazionali nella scuola e nella sanità.

Con sempre maggiori difficoltà per l'ingordigia del ceto medio che odia le tasse e per la conseguente grande evasione fiscale, che concentra le tasse sugli indifesi lavoratori a reddito fisso.

La soluzione migliore sperimentata è stata quella socialdemocratica dei paesi scandinavi, dove, accanto a una facilità di licenziare al bisogno, i capitalisti hanno accettato di pagare più tasse e senza evasioni, lo stato aiuta i lavoratori dipendenti disoccupati, i servizi pubblici sono gratuiti ed efficienti.

Cioè la soluzione di affiancare socialismo e libertà, come proponiamo noi, aggiungendovi la scelta della nonviolenza, essenziale in un mondo imbevuto di violenza dalla cultura capitalista, diffusa dai media in tutto il mondo e avvelenata di motivazioni egoiste e di incentivi al successo a tutti i costi.

fonte: http://www.cosinrete.it/2007_07/cosinrete3272_03.htm

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