"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

lunedì 23 luglio 2007

Matrimonio e Chiesa, secondo la Storia


APPROFONDIMENTI

E la Chiesa ci andò a nozze..

Fino al IX secolo non esisteva né una teologia né una liturgia coniugale, che non figurava nemmeno nell’elenco dei sacramenti.
di Jean-Claude Maire Vigeur


In un certo senso, e per chi guarda a queste cose con il cannocchiale dello storico, si può capire l’accanimento della Chiesa a difendere la sua concezione del matrimonio: gli ci è voluto infatti non meno di dodici secoli prima di imporre al mondo occidentale questa forma ben particolare di unione tra due persone di sesso diverso. Una forma che non ha ovviamente niente di “naturale” e sulla quale anche gli uomini di Chiesa hanno a lungo ondeggiato e esitato prima di arrivare a formulare una dottrina univoca.

Il passo decisivo fu compiuto nel XII secolo. Fino a quella data si può dire che le unioni tra uomini e donne hanno continuato ad ubbidire in Occidente a regole e costumi che ben poco hanno a che vedere con quelle che conosciamo ai giorni nostri. Fu evidentemente con le pratiche in vigore nell’Impero romano che il cristianesimo ebbe da confrontarsi nella prima fase di espansione. Se si guarda all’aspetto etico e sessuale dei rapporti tra sposi, tutto o quasi opponeva la morale della Chiesa a quella di Roma antica.

Prima di tutto perché per i Romani, come per quasi tutti i popoli dell’antico bacino del Mediterraneo, la sessualità si praticava in gran parte fuori del matrimonio o perlomeno non era per niente considerata come una delle finalità principali del matrimonio anche se, in questo campo come in tutti gli altri, molto dipendeva dalle risorse di ognuno. In un articolo famoso e che fece scalpore, il grande storico dell’antichità Paul Veyne arrivò a sostenere che la sessualità per i Romani di vecchio stampo non si realizzava attraverso l’unione carnale dell’uomo con una donna, ma nell’assunzione di una posizione che consentiva all’uomo vero, quello che penetrava, di esprimere la sua superiorità sul partner, costretto a subire la penetrazione, e poco importava allora che il partner fosse di sesso maschile o femminile. Visione forse un po’ caricaturale della sessualità romana ma che la dice lunga sull’abisso che separava le idee della Chiesa sul matrimonio dai costumi sessuali di gran parte delle popolazioni pagane.

Ma quali erano appunto queste idee della Chiesa sul matrimonio? Ed è così sicuro che esistesse già allora un modello ben preciso di matrimonio cristiano? Intendiamoci bene: non c’è dubbio che dal Vangelo e dalle lettere dell’apostolo Paolo la Chiesa avesse già ricavato alcuni principi, poi teorizzati dai padri della Chiesa, in primis da Agostino.

I punti sono essenzialmente tre: il consenso dei due sposi, l’indissolubilità dell’unione e la proibizione di ogni relazione sessuale fuori del matrimonio. Il primo era l’unico a non essere in contraddizione con i costumi in vigore nell’antichità romana, visto che anche il diritto romano esigeva il consenso dei due sposi per riconoscere la validità di un matrimonio. Ma con una sfumatura di non poco conto: al consenso dei due sposi si poteva benissimo sostituire, secondo il diritto romano, quello delle due famiglie e non pare che la Chiesa abbia cercato, allora come in seguito, di reagire di fronte a un costume che si configura come uno stridente escamotage di uno dei principi fondamentali della sua dottrina. E non si può certo dire che la Chiesa si sia mostrata più esigente nei confronti degli altri due principi. Se è vero, per esempio, che da nessun vescovo, da nessun concilio è mai stato promulgato un testo o un provvedimento che cerchi di attenuare il principio dell’indissolubilità del matrimonio. Nella realtà i mariti cristiani hanno continuato, come i loro omologhi pagani, a cambiare moglie quando conveniva loro senza che la Chiesa abbia tentato di arginare un fenomeno tipico dei comportamenti dei ceti più alti della società.

Per non parlare poi del concubinato, una forma di unione anch’essa in palese contraddizione con la morale cristiana ma che fu legalizzata, indirettamente o direttamente, da varie autorità ecclesiastiche oltre ad essere praticata alla luce del sole, e talvolta anche sancita da un atto notarile, fino alla fine del Medioevo. Questo per quanto riguarda i primi secoli del Cristianesimo.

L’arrivo dei popoli germanici in Occidente a partire dal V secolo, poi la loro progressiva conversione al Cristianesimo non aiutarono la laboriosa elaborazione, da parte della Chiesa, di una dottrina cristiana del matrimonio. Oltre ad avere comportamenti sessuali totalmente opposti a quelli che la Chiesa a malapena tollerava nel quadro del matrimonio, tutti questi popoli praticavano infatti varie forme di unione di cui troviamo una eccellente illustrazione nella biografia di Carlo Magno, il grande imperatore franco la cui esuberanza sessuale, va detto en passant, non gli impedì di essere canonizzato, in epoca successiva. Carlo Magno ebbe cinque mogli legittime (ma sarebbe meglio dire “di primo rango”). La prima fu ripudiata per motivi politici: era la figlia del re dei Longobardi Desiderio, la famosa
Ermengarda di Manzoni, contro il quale Carlo Magno, su richiesta del papa, si apprestava a entrare in guerra. Rimase vedovo delle altre quattro mogli successive, che tutte gli avevano dato dei figli; salvo l’ultima. Parallelamente, ebbe relazioni stabili con almeno altre sei donne, conosciute nei periodi di vedovanza e tutte gli dettero dei figli. Il primo dei venti figli di cui le fonti ci hanno tramandato il nome era nato da un’unione con una donna che senza avere il rango di moglie godeva nondimeno di uno statuto ufficiale.

Al figlio fu infatti dato il nome di Pipino, un nome che era stato quello del padre di Carlo Magno e che faceva del bambino un legittimo aspirante alla successione. La donna si chiamava Imiltrude e al tipo di legame che la univa a Carlo Magno gli storici danno il nome di Friedelehe. La Friedelehe non ha niente di clandestino: richiede il consenso del padre della donna e conferisce diritti ai figli nati da questa unione. Ma non è considerata un’unione definitiva anche se, dopo un periodo di prova, lo poteva diventare: Pipino il Breve per esempio, il padre di Carlo Magno, finì per sposare con tutti i crismi dell’ufficialità Bertrarda, la donna che da tempo era la sua Friedelfrau e da cui aveva avuto Carlo, il futuro imperatore. Lo stesso Carlo che tanto amava le sue figlie, al punto di preferire la loro compagnia a quella dei figli maschi, non volle che si sposassero, probabilmente per non complicare oltre una successione che si annunciava difficile. Ma incoraggiò le loro unioni “private”, ossia sul modo della Friedelehe, con vari maschi della corte dai quali ebbero parecchi figli, tutti doverosamente provvisti dal nonno di cospicui patrimoni e prestigiose cariche.

Simili comportamenti non scomparirono con Carlo Magno. In uno splendido libro pubblicato nel 1981, Il cavaliere, la donna e il prete, Georges Duby ha mostrato che anche i re più pii dei capetingi, la dinastia che succedette ai carolingi sul trono di Francia, continuarono per tutto l’XI e il XII secolo a comportarsi come se il matrimonio fosse un’istituzione essenzialmente laica, per assicurare la dinastia e accrescere la sua potenza. E lo stesso si verifica ancora a tutti i livelli della società aristocratica. Mentre pare di capire che nello stesso periodo, qualcosa fosse già cambiato nei comportamenti sessuali e matrimoniali degli altri ceti sociali e che anche nei confronti dei più potenti la Chiesa fosse allora decisa ad ottenere cambiamenti radicali dei loro costumi. Cosa era dunque successo dall’epoca di Carlo Magno?

Era successo, per farla breve, che la Chiesa aveva cominciato a riflettere sul matrimonio, a partire dagli ultimi anni del regno di Carlo Magno molto più sistematicamente di quanto aveva fatto fino ad allora e a dotarsi su questo terreno di una vera dottrina, una dottrina capace di prendere in considerazione tutti gli aspetti della questione e di proporre un’insieme di regole chiare e coerenti. Non era stato il caso di farlo fino al IX secolo. All’infuori dei grandi principi che rimanevano totalmente estranei alla mentalità dei più, la Chiesa non aveva enunciato che poche regole, spesso contraddittorie, e non interveniva minimamente nella celebrazione delle unioni, che i laici erano quindi liberi di gestire come a loro piaceva. In altri termini fino al IX secolo non esisteva né una teologia né una liturgia del matrimonio che del resto non figura in quel periodo nell’elenco dei sacramenti canonici.

Furono alcuni dei grandi intellettuali dell’epoca di Carlo Magno e suoi immediati successori a gettare le basi di una dottrina cristiana del matrimonio. Si chiamavano Giona, Incmar, Paulino ed erano vescovi di città come Orléans, Reims, Aquileia; erano tutti chierici impegnati nella cura delle anime e in diretto contatto con i modi di vivere dei laici. Tengono conto dei costumi in vigore nella società nella quale vivono e non hanno nessuna intenzione di capovolgere tutto. Chiudono gli occhi sulle varie forme di concubinato, non fanno guerra al ripudio, non si immischiano nei rituali nuziali. Ma propongono una nuova visione del matrimonio, nella quale le finalità dell’istituzione non si limitano alla procreazione o agli interessi economici e politici delle due famiglie: il matrimonio cristiano, a differenza di quello pagano o barbarico, mira anche alla felicità degli sposi, che garantisce quella dei figli. Gli autori cristiani del periodo carolingio arricchiscono quindi l’istituzione matrimoniale di valori affettivi, e non solo religiosi, che sicuramente contribuiranno non poco ad assicurare, nel lungo termine, il successo del matrimonio cristiano. Ma sul momento non cambiano granché i comportamenti reali della gente e la Chiesa postcarolingia continua in gran parte a disinteressarsi del matrimonio.

La svolta decisiva interviene con la grande Riforma dell’XI secolo, quella conosciuta sotto il nome di Riforma gregoriana. Dalla metà del XI secolo fino all’inizio del XIII secolo, la Chiesa non si accontenta di enunciare tutta una serie di regole che accentuano fortemente il carattere monogamico e indissolubile del matrimonio. Rafforza l’area delle alleanze proibite per motivi di consanguineità. Rivendica per i tribunali ecclesiastici il monopolio assoluto di giudicare le cause matrimoniali. Ma soprattutto conferisce al matrimonio un carattere sacro di cui era finora quasi del tutto privo e che ha per conseguenza, tra l’altro, quella di rendere molto più difficile il ripudio: come potrebbe un uomo o una famiglia rompere un’unione che è stata suggellata e garantita da Dio? I riti religiosi del matrimonio rimangono per tutta la fine del Medioevo ancora limitati: la Chiesa non esige altro, per la validità del matrimonio, che la presenza di un prete che benedice l’unione e garantisce il libero consenso degli sposi; ci aggiunge ben presto le pubblicazioni, volte ad impedire le unioni interdette per causa di consanguineità o di parentela spirituale, quella che unisce padrino e madrina nonché i figliocci di uno stesso padrino o di una stessa madrina. Ma questi riti sono di enorme importanza simbolica: significano che il matrimonio è uscito dalla sfera della vita civile per entrare in quella del sacro, che è diventato a tutti gli effetti un vero sacramento, analogo al battesimo o all’eucaristia. Non è più l’affare degli uomini ma di Dio e degli uomini di Chiesa. È una rivoluzione ma anche una invenzione, compiuta dalla Chiesa in un determinato momento della sua storia. Altro che verità eterna.

23 febbraio 2007


fonte: http://www.avvenimentionline.it/content/view/1176/361/


3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ehm... non proprio.
Il matrimonio è sì, un affare di Dio con gli uomini; cioè gli sposi, dai tempi dell'antico testamento, cercano ed hanno la benedizione di Dio agli occhi dell'intera comunità (da precisare che comunque nell'A.T. era previsto il concubinato).
Con l'avvento del Cristianesimo, viene integrata (superandola) la legge mosaica e si definiscono già i principi generali su tutto.
Il problema semmai è da ricercarsi solo nella liturgia.
In breve: il matrimonio per essere cristiano, deve essere necessariamente consacrato in toto a Dio senza se e senza ma.
E' normale che se ci si vuole sposare in forma laica, per avere concubine (mmmm...) ed altro, non ci si deve sposare all'insegna dei sacramenti religiosi.
Solo che mi sa che la legge italiana non prevede ciò (concubinato, ecc.). Credo ci sia reato di poligamia (pur avendo la moglie consenziente?? Boh!)
Ciao.

Anonimo ha detto...

Certo, hai ragione edgar. Su tutto.
Lo scopo del post è, come senpre, l'invogliare gli amici del blog ad approfondire l'argomento, sempre ne abbiano voglia.
Che qualcuno sia su posizioni "molto" critiche nei confronti del sacramento del matrimonio, ci può stare. Ma essendo appunto un sacramento non è discutibile. Come ho già detto altre volte, la Chiesa non è una democrazia, bensì una Teocrazia.
Chi ha fede accetta, chi non ce l'ha si arrabatta con le leggi che gli uomini, di epoca in epoca, si divertono a cambiare.
La legge italiana non ammette il concubinato. Come molte altre cose.
Ma ciò non toglie che esistano parecchi casi. Sono volutamente invisibili. Ma esistono.
mauro

Anonimo ha detto...

Mauro devo dirti la verità??
Ecco, io discuterei anche i sacramenti... con attenzione, ma li discuterei. Nemmeno io prendo tutta la teologia per oro colato. Quindi, forza post "invogliatori"!!