"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

martedì 18 settembre 2007

Sabra e Shatila, la strage 25 anni fa

di Rachele Gonnelli


commemorazione 25ennale strage di Sabra e Shatila a Beirut, foto Unità
Familiari delle vittime


BEIRUT
-La dottoressa Ang Swee Chai l'aveva visto alla televisione, il massacro di Sabra e Shatila. Era il 16 settembre 1982 e a Londra ne parlavano come di una rappresaglia contro i «terroristi» dell'Olp. La dottoressa Chai, una religiosa metodista, non aveva ragione di pensare diversamente. Se non fosse che quelle immagini al telegiornale facevano vedere così tanti corpi di donne e bambini. Anche loro erano terroristi dell'Olp? Decise di vederci più chiaro e partì.


Arrivò a Beirut passando per Cipro, con gli aeroporti e lo spazio aereo libanese ancora chiuso. La dottoressa Ang Swee Chai è un chirurgo britannico di origini malesi . A vederla sembra una figurina di cartone con lunghissime, sproporzionate, belle mani. La portarono direttamente al Gaza Hospital, un ospedale-bunker fatto costruire da Yasser Arafat. Operò incessantemente per 72 ore prima di riemergere al sole implacabile del Libano.

Perde un poco della sua levità zen nel racconto di quelle gambe da amputare, pance da ricucire, bambini straziati, cancrene, sangue mancante per le trasfusioni. «Fino a quel momento non vedevo di buon occhio l'Olp - ammette - ma in quei giorni ho avuto modo di constatare che era l'unica forma di Stato esistente, gli unici che si occupassero dell'emergenza, della gente». La signora Chai ora sessantenne è tornata solo in questi giorni a Beirut per la prima volta da allora, venticinque anni fa. Ha ripercorso a ritroso quella sua storia accettando la proposta di un documentario sulla quella esperienza del Medial East Concil of Churchs di un giovane regista italiano. E ha partecipato alla delegazione internazionale -composta da italiani, malesi, americani, canadesi -che nei giorni scorsi ha celebrato l'anniversario di quel terribile massacro rimasto a tutt'oggi senza giustizia.

La dottoressa Chai ha anche testimoniato davanti alla commissione d'inchiesta israeliana presieduta dall'ex magistrato della Corte Suprema Kahan che collocò in congedo alcuni ufficiali israeliani implicati nella strage e dichiarò Ariel Sharon responsabile personalmente di ciò che era successo e perciò non idoneo a ricoprire la carica di ministro della Difesa che allora ricopriva. Ma quella commissione non accettò le testimonianze palestinesi e comunque Ariel Sharon nel 2001 è stato investito addirittura della carica di primo ministro.

Nel frattempo i fatti sono stati accertati ma non ancora il numero dei morti. Oltre alle 3100 vittime finite nelle fosse comuni del campo di Shatila, per i palestinesi c'è anche una lista di altri 1987 nomi di scomparsi, persone che come il figlio del signor Kamal che aveva 19 anni e lavorava all'Unicef non hanno mai più fatto ritorno dalla retata del 16 settembre 1982.

Quel giorno di 25 anni fa - nel pieno dell'invasione israeliana del Libano - le milizie cristiane falangiste entrarono nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila e diedero inizio a una mattanza di tre giorni sotto la supervisione dell'esercito israeliano. Quello che inizialmente - come ha ricostruito nel suo ultimo libro il giornalista irlandese Robert Fisk - ai palestinesi sembrava un controllo di massa delle carte d'identità con relativi interrogatori, fu in realtà un calvario di efferatezze. Il 18 settembre, l'ultimo giorno della mattanza, si calcola che almeno mille uomini prelevati dal campo furono concentrati nell'ex stadio della Cité Sportive per un ulteriore «interrogatorio». La maggior parte non ha più fatto ritorno. Le torture, le uccisioni in massa davanti a buche pronte ad accogliere i corpi, furono opera dei falangisti. Ma la direzione delle «operazioni» fu degli uomini dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano. E come testimonia un dispaccio dell'agenzia Associated Press, fu Ariel Sharon il 15 settembre del 1982 a dichiarare che la responsabilità dell'assassinio del capo della Falange libanese, Bashir Gemayel, era da attribuire ai «terroristi dell'Olp».



commemorazioni per il 25ennale della strage di Sabra e Shatila, Beirut, foto Unità
Celebrazioni a Shatila


Nei 12 campi palestinesi in Libano
dove attualmente vivono almeno 147mila persone - il 60 percento delle quali sotto la soglia di povertà, senza servizi sanitari, fognature né acqua potabile - si continua a chiedere un processo internazionale contro i responsabili libanesi e israeliani di questo massacro. Ma le autorità israeliane e libanesi non hanno interesse a aprire il loro «armadio della vergogna». E anzi, dopo i fatti recenti del campo di Nahr el Bared, anche i rapporti tra popolazione libanese e profughi palestinesi che si erano riavvicinati durante la guerra contro Israele dell'estate dell'anno scorso, sono di nuovo tesi. «L'unica consolazione - dice un uomo figlio di un «martire» di Shatila interrompendo la commemorazione ufficiale nella Casa dei Figli della resistenza - è che Sharon è rimasto tra la vita e la morte: Dio lo ha punito». Le sue parole sono pacate, senza grida di lotta. Ma si sa che quando la giustizia degli uomini allarga le sue maglie, nel vuoto dove rimane intrappolata la rabbia le erbe cattive hanno molto spazio per crescere.

Pubblicato il: 16.09.07
Modificato il: 16.09.07 alle ore 17.11

fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=68943

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1 commento:

Franca ha detto...

Sabra e Chatila, un passato che non può passare fino a quando le responsabilità non saranno ufficialmente chiarite e i colpevoli non avranno pagato