Rileggendo Montaigne, per riscoprire il suo messaggio di apertura mentale e di tolleranza.
“Ripieni di ogni genere di malvagità, cattiveria, cupidigia, malizia, invidia, omicidio, lite, frode, malignità, maldicenti in segreto, calunniatori, odiatori di Dio, insolenti, superbi, orgogliosi, ideatori di male, ribelli ai genitori, senza intelligenza, senza lealtà, senza amore, senza misericordia” (Paolo, Lettera ai romani, I, 29-31). Se tra i fondamenti della religione cristiana noi includiamo questo pensiero di Paolo sulla comunità cristiana di Roma, se consideriamo questa valutazione sulla condizione umana così preda del peccato, difficilmente possiamo aprire una prospettiva di tolleranza della diversità. Naturalmente il cristianesimo non è solo questo ma questa visione gioca ancora oggi un posto importante nel definire l’etica religiosa del cattolicesimo.
A questa pesante impostazione del pensiero occidentale si sono ribellati, nel corso della storia del pensiero, numerosi filosofi, umanisti, liberi pensatori. Ma un posto del tutto speciale, soprattutto per la straordinaria attualità delle sue riflessioni sul tema, merita Michel de Montaigne (1533-1592). Nei Saggi, il più celebre libro dell’autore, molti sono i temi trattati dato il carattere eterogeneo dell’opera. In particolare, Montaigne dimostra davvero di essere interessato all’argomento della diversità ed alle sue implicazioni.
Dapprima egli affronta il problema sotto il punto di vista del giudizio: è inopportuno giudicare una persona usando come parametri le proprie caratteristiche, bisogna invece considerare le persone per quello che sono in sé per poter essere in grado di esprimere un parere il più oggettivo possibile. È indispensabile non lasciarsi prendere dall’invidia e saper riconoscere negli altri tutte le qualità.
Scrive infatti: “Io non incorro affatto nel comune errore di giudicare un altro secondo quel che io sono. Ammetto facilmente cose diverse da me. Per il fatto di sentirmi impegnato a una certa forma, non vi obbligo gli altri, come fanno tutti; e immagino e concepisco mille contrarie maniere di vita; e, diversamente dalla gente comune, noto in noi più facilmente la differenza che la rassomiglianza”.
Sono racchiusi in questi passi alcuni elementi di valutazione di se stessi nei confronti dell’altro che richiamano un sano e giusto relativismo metodologico e, al contempo, l’affermazione forte di concetti che si vorrebbero universali. Infatti nel momento in cui, si dichiara la necessaria disponibilità a non assurgere la propria identità a unico spazio di incontro, si sostiene, al contempo, l’inevitabilità della diversità, riconoscendo in questo un necessario valore universale. Quando Montaigne afferma che “c’è altrettanta differenza tra noi e noi stessi che tra noi e gli altri” egli riconosce implicitamente che ognuno di noi è l’insieme di più identità e che così facendo e così riconoscendo è più facile scoprire una o più identità comuni a quelle di altri.
A testimonianza del sincero interesse che Montaigne nutre nei confronti del diverso concorre il fatto che egli abbia dedicato a questo tema un intero saggio (Dei cannibali).
In questa sede l’autore, prendendo a pretesto il proposito di riferire il racconto di un suo ospite che ha vissuto a lungo nella Francia Antartica (l’attuale Brasile), traccia un elogio degli abitanti di queste terre. Essi, infatti, così incorrotti ed innocenti per le loro abitudini primitive, sono molto meno selvaggi di quanto comunemente si pensi. Se si intende giudicarli, però, prima di tutto, come testimoniano opere di autori del passato, è necessario rendersi indipendenti da ogni pregiudizio, afferma con semplicità ma con determinazione il pensatore francese. I suoi pensieri e le sue riflessioni costituiscono ancor oggi un utile esercizio metodologico che dovrebbe impegnare le nostre considerazioni che spesso invece lasciamo traboccare da un comune sentire frutto di una cultura solo apparentemente tollerante.
Citando esempi concreti egli vuol dimostrare come sia stato semplicistico valutare in modo condizionato e ideologico ogni popolo, quando il riferimento erano i parametri propri del cosiddetto senso comune, che in realtà nasconde quasi sempre dei pregiudizi appunto ideologici, formulati da chi svolge un ruolo di potere e spesso di sopraffazione. Nei confronti di queste operazioni culturali Montaigne ci mette in guardia in modo chiaro e forte: “Ecco come bisogna guardarsi dall’aderire alle opinioni volgari, e come bisogna giudicarle con la ragione, e non per quello che ne dice la gente”.
Barbarie o ottusità?
E nel popolo dei “cannibali” c’è davvero qualcosa di barbaro? Non si tratta piuttosto di ottusità da parte di coloro che giudicano? L’uomo europeo, civilizzato, è convinto che tutto ciò che produce sia perfetto e tende a dimenticare che solo la natura, la “grande e potente madre natura” è fonte ed esempio di bellezza e ricchezza e che l’intero complesso delle arti umane non è altro che una banale copia di tale perfezione. I selvaggi abitatori del Nuovo Continente e tutte le piante da cui traggono nutrimento, quindi, come frutti della stessa natura sono altrettanto degni e anzi, forse ancora di più.
Scrive ancora il filosofo francese: “Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi”. Infatti troppo spesso abbiamo come punto di riferimento, che riteniamo fondante, per la verità quello delle opinioni, degli usi, delle tradizioni, dei valori e degli ordinamenti, della nostra presunta superiore civiltà occidentale. Anzi, come giustamente sostiene Montaigne, “essi (gli altri, ndr) sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto”.
I valori, poi, degli uomini che appartengono a questi popoli non sono così diversi da quelli “comuni”: “tutta la loro scienza etica contiene solo questi due articoli, la fermezza in guerra e l’amore verso le loro donne” inoltre, la loro tenacia nei combattimenti è straordinaria poiché essi non conoscono paura e fuga. Persino la loro usanza di mangiare i propri prigionieri, che può lasciare più perplessi, viene presentata da Montaigne come qualcosa di valutabile criticamente e poi presa come spunto di riflessione. Come può l’uomo occidentale stupirsi di fronte ad una tale usanza e allo stesso tempo chiudere gli occhi davanti ai veri e propri gesti di barbarie compiuti dai coloni portoghesi?
Scrive ancora: “Noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto (egli allude alle torture e alle violenze che la guerra fomenta e dispensa, ndr). Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”. Montaigne dunque non rinuncia a formulare un giudizio etico ma lo fa riferendosi a un valore universale, quello della ragione, che accomuna tutti gli esseri umani. Non pronuncia sentenze paragonando la propria cultura con le altre secondo parametri arbitrari e di supposta superiorità. Anzi non esita, come si vede, a denunciare la barbarie che è in noi anche se questa si presenta sotto le vesti di civiltà. Anzi, per certi aspetti, la condizione dei cosiddetti barbari rappresenta un monito continuo e forte nei confronti del degrado cui noi ci siamo sottoposti attraverso la nostra presunta superiorità. Loro, i diversi, “sono ancora nella situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro”.
Ma questi uomini detti selvaggi, cosa penseranno di chi li giudica? Che parere si saranno fatti dell’uomo occidentale, cosa penseranno dei suoi valori? Chi è veramente il “diverso”?
“Dissero che prima di tutto trovavano molto strano che tanti grandi uomini, con la barba, forti e armati, che stavano attorno al re si assoggettassero a ubbidire a un fanciullo, e che invece non si scegliesse piuttosto qualcuno di loro per comandare; in secondo luogo (essi hanno una maniera di parlare secondo la quale chiamano gli uomini la metà degli altri) che si erano accorti che c’erano fra noi uomini pieni fino alla gola di ogni sorta di agi, e che le loro metà stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri per la gola o non appiccassero il fuoco alle loro case”.
Illuminanti riflessioni
Da questi testi emerge chiaramente quanto stia a cuore a Montaigne il tema della tolleranza e della comprensione di ciò che è altro da noi. Con queste sue illuminanti riflessioni dalla sconcertante attualità, infatti, egli riesce ad instillare nel lettore il dubbio di chi siano veramente gli strani, gli insoliti: se fossimo noi quelli fuori dal comune, come vorremmo che gli altri si comportassero nei nostri confronti?
Questo ben si colloca nella sua visione profondamente scettica della realtà secondo la quale “Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa” e dunque l’atteggiamento più consono all’uomo saggio è quello del dubbio e della relativizzazione.
Quello che sembra il filosofo voglia comunicarci, dunque, è la necessità di possedere: a) un’ampiezza di vedute che ci permetta di comprendere e conoscere la molteplicità del mondo che ci circonda; b) la consapevolezza della fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto prodotti di una medesima natura.
Montaigne, in sintesi, critica la tendenza dell’uomo europeo a chiamare barbarie quello che non è nei suoi usi, mette sullo stesso piano le usanze dei popoli “civili” e dei popoli “primitivi” e professa un atteggiamento di accettazione dei comportamenti che deviano dall’uso della maggioranza dando in tal modo al mondo occidentale una lezione di tolleranza che spiazza per la sua attualità e che è auspicabile che ciascuno di noi tenga presente.
Francesco e Marta Codello
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