Di Silvia Baraldini
(15 giugno 2007)
Nel lontano1993, quando fu scoperto il corpo martoriato della giovane Alma Chavira Farel nel deserto che circonda Ciudad Juárez, nello stato di Chihuáhua, Messico, nessuno poteva immaginare che dieci anni più tardi il suo assassino, e quello di ben oltre trecento donne uccise in questo periodo, sia ancora sconosciuto ed impunito. La violenza contro le donne di Juárez ha raggiunto livelli inauditi e, nell’assenza di un forte intervento da parte degli organi di giustizia locali e nazionali per proteggere le donne, gli unici a battersi in difesa delle vittime sono stati i familiari, le organizzazioni femministe e le associazioni per i diritti umani.
Nonostante la mancata identificazione dell’assassino/i, che potrebbe fornire una spiegazione sul perché la città di Juarez sia diventata il teatro di questa violenza, le indicazioni non mancano. Se si analizza attentamente la trasformazione della città nella seconda parte del secolo scorso, le radici di questa violenza emergono con chiarezza.
Storicamente Ciudad Juárez era un piccolo centro sulla sponda del Rio Grande, di fronte ad El Paso, Texas, con solo 200 mila abitanti, la cui sopravvivenza era basata principalmente sul turismo e sulla prostituzione. I clienti di questo commercio erano i soldati Usa stazionati nelle basi militari che circondano El Paso. Ciudad Juarez incominciò a cambiare negli anni sessanta, quande il governo messicano lanciò il Programma per l’industrializzazione della frontiera. Questo piano di sviluppo era basato sulla costruzione di maquiladoras, stabilimenti di proprietà straniera, principalmente americana, dove si sarebbero dovuti assemblare, con parti importate, prodotti come televisori, radio, computers per essere rivenduti all’estero. L’assenza dei sindacati e la possibilità di vendere il prodotto finale ad un prezzo ridotto perché l’imposta sul valore aggiunto sarebbe stata calcolata in base al costo ridotto della mano d’opera messicana, attrassero molte multinazionali e oggi a Juárez esistono oltre 400 maquiladoras.
Sin dall’inizio i proprietari degli stabilimenti decisero che le donne, giovani e senza nessuna esperienza lavorativa, erano i lavoratori ideali per queste fabbriche. Secondo il loro pensiero, simile ai pregiudizi affrontati dalle donne in ogni società al momento della loro entrata nel mercato del lavoro, queste giovani sarebbero state più capaci di tollerare la ripetizione noiosa del lavoro e le loro mani erano più agili. Inoltre si speculava sulla loro docilità, con la speranza che allontanasse il pericolo di sindacalizzazione e sulla loro inesperienza, come garanzia di un ritmo elevato di lavoro, senza potenziali interruzioni per vertenze contro la direzione.
Gli stabilimenti, collocati nelle zone periferiche della città, funzionano ancor oggi senza interruzioni, ventiquattro ore al giorno; se un’operaia arriva con qualche minuto di ritardo per il suo turno, trova l’entrata serrata ed è costretta a ritornare alla sua abitazione a piedi. Non a caso, molte delle donne uccise a Juárez lavoravano nelle maquiladoras e hanno incontrato il loro assassino durante il tragitto.
La presenza delle maquiladoras e la posizione geografica di Juárez sulla frontiera con gli Stati Uniti attragono milioni di messicani provenienti dalle regioni più povere ed interne del paese. Molti arrivano con la speranza di poter attraversare il confine e trovare un lavoro migliore negli Stati Uniti, ma la recente militarizzazione della zona e la presenza della Migra - la forza di polizia che pattuglia la frontiera - hanno reso alquanto difficile conseguire questo obiettivo. Tutte queste persone, però, non ritornano nei loro luoghi di origine. Si stabiliscono invece nelle colonias che circondano Juárez dove vivono senza acqua potabile, elettricità e in casette costruite con legno e catrame. Di conseguenza, negli ultimi dieci anni, la popolazione della città è aumentata esponenzialmente, arrivando ad oltre due milioni di abitanti.
La strategia della repressione scelta nel 1993 dall’allora presidente Clinton per rispondere alle pressioni politiche orchestrate da gruppi conservatori che volevano contenere la migrazione di popolazione messicana in stati strategici come il Texas, non ha fermato però il flusso di lavoratori che quotidianamente attraversano la frontiera in cerca di un avvenire migliore. Ha soltanto dato vita ad un nuovo gruppo di sfruttatori, i cayotes, che si arrichiscono promettendo ai loro compatrioti di trasportarli all’altro lato della frontiera evitando le pattuglie della Migra. I cayotes operano senza nessuno scrupolo, usano i passeggeri per introdurre la droga negli Stati Uniti e non esitano a abbandonarli nel deserto, incuranti della loro incolumità. La presenza di gang organizzate di cayotes ha trasformato la zona di frontiera in una no man’s land dove vige la legge del più forte. E non possiamo dimenticare l’operato della polizia messicana che con le sue azioni contribuisce a diffondere uno stato di violenza e terrore. Circa 200 persone, tra i quali ventidue cittadini statunitensi, sono spariti negli anni passati dopo essere stati detenuti da individui che portavano l’uniforme della polizia messicana.
Alla fine degli anni Novanta, nel momento del boom economico, la possibilità di trovare un lavoro ben retribuito negli Stati Uniti era una realtà: questo sogno ha incrementato il traffico degli esseri umani attraverso la frontieria e permesso ai cayotes di chiedere qualsiasi prezzo per guidare gli immigrati. Un fattore che ha inasprito la spirale di violenza a Ciudad Juárez è la presenza di falsi cayotes che, aprofittandosi della ingenuità dei nuovi arrivati, li accompagnano in zone isolate e li derubano.
In questo contesto va inquadrata la situazione delle giovani operaie che lavorano nelle maquiladoras, ricevono uno stipendio medio di cinque dollari al giorno, e vivono in una società che non offre loro nessuna tutela, anzi definisce “prostituta” una donna se va a ballare e a divertirsi in un bar, senza accompagnatori maschi e quindi non degna di essere rispettata dagli uomini. Questa divisione di genere è enfatizzata dalla organizzazione del lavoro all’interno delle maquiladoras. L’espansione degli stabilimenti ha aumentato la richiesta di mano d’opera, forzando i managers ad abbandonare la scelta di impiegare solo donne. L’introduzione di operai maschi, invece di promuovere l’integrazione sociale, ha solo aumentato le differenze di genere, esasperando la competizione lavorativa. Infatti gli uomini e le donne lavorano in sezioni strettamente segregate, dove i managers sono solo uomini che non si fanno nessun scrupolo nell’esercitare pressioni sessuali sulle operaie.
La campagna in difesa delle giovani donne di Ciudad Juárez, Alto al la impunidad: ni una muerta más [Stop alla impunità: nessun altra donna morta], promossa dalla Commissione messicana per la difesa e la promozione dei diritti umani, sottolinea come nella società ci sia una mancata consapevolezza che i diritti delle donne sono un aspetto fondamentale dei diritti umani. La soluzione di questa violenza va cercata creando un clima culturale che promuova, anche attraverso un intervento positivo e preventivo delle forze dell’ordine, la condanna della violenza contro le donne e la consideri dannosa al benessere di tutta la società messicana.
Questa mancanza di sensibilità è palese anche nell’ostilità espressa verso le organizzazioni che si mobilitano in difesa delle vittime e dei loro familiari. Ed è palese, nell’insistenza degli investigatori, di trattare questi omicidi come qualunque altro, ignorando volutamente l’aspetto legato al machismo della società messicana. Solo la condanna da parte di organismi internazionali e l’inchiesta aperta dalla relatrice straordinaria della Commissione interamericana per i diritti umani, Marta Altolaguirre, ha ridato alle vittime la dignità di essere morte non per via del loro stile di vita pericoloso, ma perché la loro femminilità le aveva messe a rischio in una società dove non si è ancora radicato il concetto che la donna è l’unica padrona del proprio corpo.