"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

domenica 18 novembre 2007

QUALCHE RIFLESSIONE SUL POLIZIOTTO DAL GRILLETTO FACILE



di Mario Ciancarella



Provo a comunicare alcune riflessioni a partire dalla vicenda del tragico omicidio di un giovane tifoso laziale, per andare oltre l’angusto orizzonte delle singole vicende e chiederci se una “visione politica” adulta sulle diverse circostanze in cui ci si possa ambattere non abbia necessita’ di saper legare tra loro anche vicende apparentemente lontane ed incommensurabili.

Sono convinto che la vicenda di Arezzo
ci interroghi infatti anche sulle nostre reazioni alle vicende dei Rom, ultima delle quali lo scellerato omicidio di Roma, per risalire a Genova 2001 e via su su fino a chiederci se la deriva sociale ed istituzionale non si radichi nel progressivo abbandono di una consapevole cultura costituzionale e democratica, con la rinuncia ad una piena sovranita’ nazionale.

Che c’entra dunque la tragica vicenda di Arezzo con Roma e con Genova ed i grandi temi della Democrazia? Proviamo a ragionare.

Un poliziotto, noto per la sua “esuberanza”
nel contrasto al crimine – un atteggiamento che pur gli aveva meritato encomi per i risultati ottenuti in operazioni contro crimini e criminali patentati -, si lascia andare ad una follia in una situazione assolutamente ordinaria, e spara, ad altezza uomo, attraverso due corsie autostradali percorse da decine di auto in movimento ed elevata velocita’. Ha la “sfortuna” di colpire mortalmente un giovane sulla piazzola opposta (senza che sia dato ancora sapere se avesse intenzionalmente mirato proprio alla sua vittima), ma ha anche la “fortuna” di non colpire nessun guidatore in marcia sulla normale corsia autostradale, con il che avrebbe determinato sicuramente una ben piu’ ampia e terribile strage.

E qui abbiamo visto spegnersi improvvisamente
tutta la nobilta’ che va riconosciuta ordinariamente alla professione di poliziotto al servizio della Comunita’ sociale e della sua sicurezza, per vederla trasformarsi piuttosto in una ignobile pantomima di rifiuto di assunzione di responsabilita’. Leggiamo stamane l’ultima risibile versione del responsabile dell’evento tragico: il colpo d’arma da fuoco sarebbe partito mentre il nostro agente omicida era impegnato a registrare il numero di una targa (quale? Quella dell’auto colpita? A sessanta metri di distanza? Aquile e falchi sarebbero nulla a confronto di questo “coraggioso operatore” della sicurezza).

Ora non c’e’ chi non sappia o non capisca
che chiunque impugni un’arma lo fa con la mano di predilezione (destra o sinistra), la stessa con la quale scrive. Ed e’ allora ignobile e risibile (se non fosse tragico) affermare che mentre si registrava un numero di targa si stesse impugnando l’arma con la mano anomala e che in quella fase sia partito accidentalmente e sfortunatamente un colpo.

A proposito viene da chiedersi,
ma dov’e’ il foglio sul quale stava scrivendo l’agente, e quali numeri aveva gia’ trascritto della targa traguardata? Gia’ lui ha detto pero’ che stava scrivendoli, per mancanza di carta su una mano, come avrebbe mostrato al Magistrato – il quale, c’e’da augurarsi, abbia fatto fare un rilievo fotografico di quello scritto sulla pelle -. E dunque c’e’ da pensare che la mano su cui stava scrivendo fosse quella con cui veniva impugnata, pur in modo anormale ed anomalo, la pistola; perche’ sarebbe folle pensare che l’agente potesse scrivere tenendo allo stesso tempo l’arma nella mano con cui scriveva.

Ma allora fate una prova e valutate se, scrivendo sul dorso di una mano, questa non sia necessariamente ed istintivamente ruotata con le dita verso la parte opposta del vostro corpo e valutate la direzione in cui sarebbe rivolta in quelle condizioni la canna di quell’arma che ipoteticamente terreste in quella mano su cui stareste scrivendo…. Il gesto istintivo e ordinario di chiunque sia un “normale ed umano mortale” sarebbe quello di rinfoderare l’arma prima di accingersi a scrivere qualcosa, non vi pare?

In piu’ nulla ci e’ stato detto della posizione del corpo dello “scrivente”, all’atto della inopinata scarica, e se cioe’ fosse voltato in una delle due direzioni delle corsie, ovvero se fosse ad esse trasversale come sarebbe stato necessario e piu’ plausibile, per quanto detto sulla lettura della targa. Chiedetevi dunque quale avrebbero potuto essere le posizioni reciproche del corpo e della mano che impugnava l’arma perche’ il colpo inavvertitamente esploso potesse essere dirigersi in direzione della piazzola opposta. E vi accorgereste facilmente (ed e’ per questo che sarebbe dunque importantissimo conoscere la posizione del corpo dell’agente) che sarebbe stato materialmente impossibile che l’agente stesse realmente traguardando ad un numero di targa da trascrivere perche’ il colpo seguisse la traiettoria mortale che in realta’ gli e’ stata impressa.

Ordinariamente e necessariamente la canna dell’arma, nella condizione descritta, dovrebbe essere rivolta sulla propria destra o sulla propria sinistra (a seconda della mano con cui la si vuole impugnata) per costituire la base di appoggio del “foglio” (foss’anche il dorso della mano) su cui si sarebbe intenti a registrare la targa. E sarebbe comunque criminale se un poliziotto consentisse a se stesso di impugnare con trascuratezza un’arma, con il colpo in canna e senza sicura, rivolta verso una trafficata corsia autostradale.

E non e’ finita, perche’ la traiettoria di un colpo sparato accidentalmente, nella condizione di precaria ed instabile presa collegata alla scena cosi’ descritta, sarebbe ben diversa ed anomala (non fosse che per il rinculo certamente non controllato e non controllabile in quella situazione, che avrebbe portato il colpo a dirigersi quanto meno verso l’alto) rispetto a quella parallela al terreno descritta ed accertata invece dai rilievi balistici.

No, caro il nostro agente, la volontarieta’ del tiro e’ quasi smaccatamente dimostrata e dunque la responsabilita’ personale e’ gravissima. Ma siamo al punto cruciale.

E’ infatti possibile che,
nello sviluppo di una cultura professionale e di un addestramento specifico, la lotta alla criminalita’ e le sue necessarie metodiche possano avere il sopravvento su una consapevole e responsabile coscienza del proprio ruolo e della propria funzione di garanzia costituzionale di ordine e sicurezza pubblici. E solo in questo caso si comprende perche’ possa essere possibile estrarre un’arma, sbloccarla dalla propria sicurezza, armarla (colpo in canna), mirare e sparare senza porsi nessun problema di congruita’ della reazione alle condizioni reali in atto. Passaggi questi tutti necessari a meno che uno non si senta uno sceriffo del far west e un po’ tanto Rambo (ma cosi’ tanto sciocco) da precostituire consapevolmente condizioni di assoluta insicurezza personale e dei propri colleghi partners, portando ordinariamente l’arma nella fondina libera da sicurezza e gia’ con il colpo in canna.

Ma tutto questo ci descrive allora
una cultura di polizia degenerata rispetto alle esigenze costituzionali ed alle garanzie democratiche che sono le uniche condizioni che danno dignita’ ad una professione che non puo’ prescindere anche dall’uso organizzato della violenza e delle armi.


G8 Genova


In questa cultura infatti l’unica circostanza che distingue un poliziotto da un criminale e’ che il primo non porta armi come il secondo con il solo intento di intimidire, minacciare ed esibire potere; ma le porta nella consapevolezza di doverla comunque utilizzare solo per fronteggiare un pericolo certo ed imminente di essere esposto al fuoco avversario, e di dover comunque rispondere ad una autorita’ “terza” sia sul piano disciplinare che di legittimita’ giudiziaria, per l’accertamento del legittimo e congruo uso delle armi, ovvero dell’eccesso, cosi’ come di un suo eventuale “non-uso” in circostanze che pur ne avressero esigito l’impiego.

Non e’ schizofrenia, ma piuttosto quella cultura del diritto e del pieno rispetto delle persone, ivi compresi i “prigionieri”, che nel lungo e faticoso cammino della civilta’ ha conferito legittimazione e dignita’ allo Stato, differenziandolo – proprio per i diversi riferimenti etici e deontologici e per i concreti comportamenti assunti dei suoi funzionari e rappresentanti – dai banditi e dai criminali, fino all’antistato delle organizzazioni mafiose.

Sono dunque queste alterazioni e devianze, dalla ordinaria cultura costituzionale che dovrebbe animare gli apparati dello Stato e le sue espressioni a qualsiasi livello, gli aspetti che andrebbero allora analizzati, per capirne i percorsi ed i contorni, per diagnosticarne la gravita’ e sperare di saper individuare percorsi e strumenti terapeutici efficaci.

Anzitutto riscoprendo l’altissimo valore e significato della responsabilita’ personale. Non solo di coloro che commettono crimini, ma anche di coloro che nelle strutture e negli apparati dello Stato, sbagliando - e certamente guidati da sentimenti ed obiettivi diversi da quelli che animano i criminali, ma pur sempre sbagliando – commettono anch’essi crimini ed atti illeciti o illegittimi. Cosi’ come ci si aspetta che anche una intera vita di specchiata onesta’ e di correttezza e competenza professionale non debba salvare e non sia lecito che salvi un qualsiasi stimato professionista medico dalla inavvedutezza di un momento (per colpa grave o per sconcertante decisione consapevole) che avesse determinato un ingiustificato decesso o gravi danni alla salute di un paziente

Ed invece assistiamo all’indecorosa corsa alla pratica omertosa tipica del mondo criminale, quando gli errori siano consumati “dai nostri”, ed alla criminale generalizzazione della responsabilita’ quando i crimini siano perpetrati “dagli altri”. Ed e’ qui che scattano allora i paralleli con la vicenda dell’esecrabile delitto del Rom a Roma e con le vicende di Genova 2001, per le quali le funzioni politiche legislative ed esecutive non si peritano di perdere la faccia (in un dibattito democratico che pur langue e si intiepidisce) e di ostacolare qualsivoglia accertamento serio e severo delle responsabilita’ in comportamenti scellerati e devianti dei suoi funzionari.

Ma allora la dinamica politica e sociale viene incoraggiata a trasformarsi in un gioco al massacro, per cui la generalizzazione contrapposta si fa feroce e si carica di astio e spirito di rivalsa vendicativa. I Rom divengono una etnia predisposta geneticamente a delinquere, per la societa’ civile e per le forze dell’ordine, cosi’ come i poliziotti diventano tutti assassini nella vulgata urlata delle vittime (e dai loro compagni di percorso) di tragici eventi che abbiano visto coinvolti, come responsabili, Carabinieri e Poliziotti.

Dovremmo mantenere la capacita’ e la freddezza per non inseguire tali reazioni umorali e di arroccamento di casta o di cosca, per analizzare lucidamente i fatti e proporli alla riflessione comune.

Non e’ infatti accettabile ad esempio che i colleghi di un qualsiasi militare che si trovi coinvolto in tragici fatti siano piuttosto orientati alla cieca e pregiudiziale solidarieta’ omertosa che non alla consapevole, per quanto terribile, ed onesta relazione sulle dinamiche. Perche’ allora si diviene davvero i complici peggiori del crimine e della devianza, in quanto la solidarieta’ di corpo avrebbe avuto il sopravvento sul dovuto rispetto delle Leggi, nel loro spirito e nel loro dettato. E la ordinaria solidarieta’ di corpo e categoria si trasformerebbe in una tipica omerta’ di stampo mafioso.

Non e’ possibile ad esempio
che ci lasci indiffenti la circostanza che una donna rom, pur incapace di parlare la nostra lingua, pur condividendo con un criminale le stesse condizioni di appartenenza etnica, di indigenza ed emarginazione sociale, non abbia tratto da queste situazioni motivo per ritrarsi e disinteressarsi di quanto era stata testimone. Fino a sbracciarsi rischiando di farsi investire da un autista di autobus, fino a convincerlo che fosse accaduto qualcosa di grave e indurlo a chiamare la Polizia, fino a condurre i poliziotti sul luogo del crimine ed indicare il responsabile, fino a confermare davanti al Magistrato le sue testimonianze e le sue accuse (ricevendo il sentito ringraziamento dal Magistrato per il coraggio ed il senso civile dimostrati), fino a vedersi scaricare addosso minacce neppure velate di ritorsioni, ovvero accuse di infamita’ e di corresponsabilita’ di un suo familiare nel crimine denunciato, e fino ad essere oggetto di tentativi di discredito - nella ormai nota sequenza sperimentata gia’ con il primo e forse “unico vero” pentito di Mafia, Leonardo Vitale – accusandola di una follia che sarebbe documentata dai ricoveri in case psichiatriche rumene (ma forse in tempi in cui i regimi filosovietici non avevano alcuna difficolta’ a risolvere con la infermita’ mentale ed il ricovero coatto tanto le presenze indesiderabili di dissidenti politici, quanto quelle, altrettanto indesiderabili e seguendo le orme delle pratiche nazifasciste – delle etnie rom).

E non e’ accettabile che tutto questo non ci liberi dal pregiudizio generalizzato verso i cittadini rom (anche fossero, come sono in larga parte, di cittadinanza italiana) o rumeni ritenendoli geneticamente ed insopportabilmente predisposti a delinquere con buona pace di qualsiasi minimale ricordo del principio della responsabilita’ personale. E tutto questo proprio mentre ben tre colleghi di pattuglia dell’agente Spaccarotella non abbiano saputo offrire nella immediatezza, e con completezza ed attendibilita’, una precisa descrizione della dinamica dei comportamenti del loro commilitone.

E’ questo che da’ alla vicenda l’insopportabile puzza della complicita’ omertosa in ragione della condivisione professionale, e del quotidiano rischio personale certo, ma sono ragioni insufficienti a cancellare i doveri di responsabilita’ e consapevolezza costituzionale nello svolgimento dei propri compiti e funzioni.

Sul fronte opposto dei negazionisti
(che sono altra cosa dalle espressioni dell’antagonismo sociale e politico) di qualsivoglia dignita’ istituzionale agli apparati ed ai loro uomini si rischia di giustificare allora ancor di piu’, con simili atteggiamenti di protezione negazionista della verita’, la tendenza emotiva a colpevolizzare e criminalizzare tutto l’apparato indifferenziatamente.

Ma e’ il medesimo atteggiamento mentale
e culturale per cui un poliziotto addestrato esasperatamente a contrastare il crimine nelle forme necessarie ed idonee (nonche’ legittime, ma prive di contrappesi di ordine etico costituzionale) rischia di non saper piu’ distinguere tra le circostanze diverse che e’ chiamato a fronteggiare e tra i diversi soggetti con cui debba misurarsi. Se “la’ fuori sono tutti criminali e cani rognosi” non vi e’ dubbio che ci si possa sentire legittimati all’uso indiscrinato della violenza e dei suoi mortiferi strumenti. Certo, la valutazione di merito della Magistratura sulle responsabilita’ dovra’ a sua volta essere capace – secondo le Leggi che il Parlamento le avra’ dettato – di valutare tutti i gradienti e le motivazioni in cui un crimine o un atto comunque illecito vengano perpetrati, ma questo non potra’ mai divenire presunzione di impunita’ e pretesa di immunita’ per irresponsabilita’ oggettiva. L’unica oggettivita’ attiene alle conseguenze del crimine o dell’atto illecito, ed essa esige una condanna, graduata e motivata, ma una condanna non priva di severita’.

E questo ci riporta a Genova 2001
e alla considerazione che, aldila’ degli specifici e tragici episodi, appare irresponsabile una politica che, messa di fronte ad innegabili ed inaudite violenze illegittime dei suoi apparati, non senta l’urgenza e l’obbligo di avviare severe commissioni di indagine amministrativa e politica (forse ancor prima e ancor piu’ della autonoma attivita’ delle funzioni giudiziarie), per accertare, definire e comunicare con limpidezza le repsonsabilita’ personali ed eventualmente i percorsi ed i meccanismi sui quali si e’ inceppata la garanzia di costituzionalita’ che gli apparati dovrebbero offrire in ogni circostanza, anche la piu’ drastica, anche la piu’ violenta.




Ben sapendo che il comportamento degli apparati e’ sempre e comunque dettato dalla volonta’ politica prevalente e gerarchicamente sovraordinata, questa garanzia recentemente ribadita con l’affossamento della Commissione di Inchiesta di imperscrutabilita’ e non indagabilita’ degli apparati, ancor prima che di immunita’ ed impunita’, appare allora come una pregiudiziale, quanto inaccettabile, riserva da parte della funzione politica esecutiva dell’uso violento e prevaricatore che essa intenda sentirsi libera di fare dei propri apparati, anche quando le ambizioni politiche che li suggerissero fossero dettate da illegittimita’ e voglia di attentare alle Istituzioni Democratiche.

Questo e’ il vero nocciolo della discussione, non le accuse rimbalzate tra le parti politiche e spesso condivise in modo bipartizan di voler colpevolizzare e mettere sotto accusa in modo indiscriminato con inchieste serie l’intero sistema degli apparati. Perche’ e’ proprio facendo luce e discrimine tra i comportamenti diversi, e sulle malintese facolta’ e modalita’ di gestire l’ordine pubblico che si puo’ arrivare a diagnosticare correttamente le eventuali devianze, saperne valutare la natura episodica o patologica e indicare percorsi terapeutici efficaci.

Ad esempio una Commissione di indagine sui comportamenti delle Forze dell’Ordine dovrebbe a mio parere rendere pubblici, per una comune e condivisa valutazione, i criteri e le modalita’ di preparazione ed addestramento tanto nell’ordinarieta’, quanto nelle circostanze speciali. Come fu ad esempio dei periodi di addestramento con istruttori statunitensi nel periodo immediatamente precedente i fatti di Genova.

Per capire quanto possa essere legittimo,
o ad “alto rischio democratico”, decidere di lasciar addestrare i propri uomini degli apparati di sicurezza da chi ( per quanto sia alleato) ritiene (e legittimamente forse, nella propria specifica cultura) la pena di morte un criterio non negoziabile della propria amministrazione della Giustizia. Di chi abbia inteso denunciare le convenzioni di Ginevra sul rispetto dei prigionieri e delle popolazioni civili, e pretende di sottrarre gli uomini dei propri apparati ad ogni indagine per responsabilita’ nella violazione dei diritti umani e nella consumazione di crimini contro l’umanita’ durante le operazioni loro assegnate.


Dovrebbe chiedersi e valutare come mai nei nostri apparati e nelle nostre Forze Armate non esistano centri di appoggio e di sostegno psicologico per gli operatori, formati da personale scelto e “addestrato al sacro rispetto dei vincoli costituzionali”, e comunque tali da poter continuamente monitorare le condizioni di stress degli operatori e la loro devianza potenziale quanto pericolosa per la democrazia. Come mai esistano solo forme embrionali di “Uffici Disciplinari”. I quali non sembrano essere orientati, addestrati e preparati ad orientare e verificare la capacita’ degli operatori di agire con lucidita’ e con riferimenti etici e valoriali compatibili con il dettato ed i principi costituzionali, verificando e contrastando l’insorgere di tentazioni autoreferenziali ed autoassolutorie di qualsiasi comportamento illecito in nome del rischio o del pericolo cui gli operatori sono esposti. Rischio e pericolo che tuttavia dovrebbe essere stato scelto ed accettato con responsabile consapevolezza.

E dunque capire perche’ tali “Uffici Disciplinari”
appaiano piuttosto orientati a garantire la obbedienza passiva, pronta cieca ed assoluta anche di fronte ad ordini illegittimi, piuttosto che su quella consapevole e leale voluta dai principi costituzionali

E’ solo da qui che puo’ iniziare
il percorso virtuoso di un rapporto di empatia della societa’ civile con gli uomini degli apparati, per un vero ed efficace isolamento delle espressioni di violenza illecita ed illegittima. Perche’ si offrirebbe cosi’ una immagine dello Stato non blindato nelle sue certezze e sicumere di arbitrio insindacabile, ma alla ricerca condivisa di equilibri sempre piu’ avanzati di adesione al dettato costituzionale. Uno Stato che non abbia timore di mettere sotto accusa un proprio funzionario, solo in virtu’ della sua appartenenza all’apparato.
Ma se manca questo, tutto puo’ succederci. Se perdiamo il senso profondo dello Stato costituzionale, se perdiamo il convincimento e la pretesa, da Cittadini Sovrani, che ogni potere politico e funzione costituzionale debba rispondere in trasparenza del suo operato ad organi terzi (l’esecutivo al Parlamento, il Parlamento al Paese, la Magistratura e gli apparati alla Legge, e tutti insieme alla Costituzione), se consentiamo che il potere politico invece limiti la pubblica conoscenza dei comportamenti propri e dei suoi apparati, che impedisca accertamenti giudiziari su tali comportamenti, ed affronti con astiosi comportamenti censori la libera informazione, accadra’ prima o poi che qualcuno vorra’ appropriarsi dello Stato in maniera autoritaria e arbitraria cancellando ogni garanzia costituzionale e democratica.


E per realizzare tutto cio’ basta creare le condizioni del “caos” gia’ ampiamente indicate e sperimentate da un periodo di terrorismo mai compiutamente indagato, in cui ha avuto non poca influenza la condizione di sovranita’ limitata.

Questo dovrebbe spingerci
a quella che un tempo si chiamava vigilanza democratica, e che oggi ci chiamerebbe a non assecondare l’onda del qualunquismo e della generalizzazione in nome di una sicurezza che sembra nessuno sappia e voglia piu’ declinare abbinandola ai concetti di “democratica e costituzionale, cioe’ fondata sul primato indiscutibile ed assoluto dei Diritti Fondamentali della Persona Umana”.


Mario Ciancarella


fonte: ricevuto via e-mail


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