"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

giovedì 4 ottobre 2007

Istat, in Italia 7 milioni e mezzo di poveri



In stato d'indigenza l'11,1% della famiglie. Di solito si tratta di nuclei con tre o più figli nei quali il capofamiglia presenta un basso livello d'istruzione od è disoccupato

I 2/3 vivono al Sud, sempre peggio gli anziani

di ROSARIA AMATO


ROMA - Due milioni e 623.000 famiglie in stato di povertà, corrispondenti a 7.537.000 persone, il 12,9 per cento della popolazione. La povertà nel 2006 è rimasta "sostanzialmente stabile", secondo l'Istat: interessa l'11,1 per cento delle famiglie residenti. In forte peggiomento però le condizioni degli anziani: solo tra loro, infatti, l'incidenza della povertà è aumentata da 5,8 a 8,2 per cento. E rimane più che mai marcato l'abisso tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno vive il 65 per cento delle famiglie povere.

Ma i poveri del Sud vivono anche in condizioni peggiori: le famiglie in stato d'indigenza infatti presentano una spesa mensile inferiore del 22,5 per cento rispetto alla "soglia di povertà". L'incidenza della povertà è maggiore tra le famiglie numerose, con tre o più figli. Di contro, risulta meno diffusa tra i single e tra le coppie senza figli di giovani e adulti.

La soglia di povertà. Per il 2006 la "soglia di povertà", cioè la spesa mensile per consumi della famiglia al di sotto della quale un nucleo viene definito povero, è stata fissata dall'Istat in base all'indagine sui consumi a 970,34 euro per una famiglia di due persone (di tratta della cifra equivalente alla spesa media procapite). Per una persona sola la soglia di povertà si attesta a 582,20 euro di spesa mensile; per una famiglia di quattro a 1581,65 euro.

Caratteristiche delle famiglie povere. Risiedono al Sud, il capofamiglia presenta un basso livello d'istruzione o un basso livello professionale o è disoccupato, hanno molti figli o almeno un componente anziano: è l'identikit delle famiglie povere italiane, così come è delineato dall'Istat. "Si mantengono tutte le caratteristiche strutturali degli anni precedenti - spiega la responsabile dell'indagine sulle condizioni delle famiglie dell'Istat, Linda Laura Sabbadini - in condizioni peggiori le famiglie con tre o più figli".

Le differenze territoriali. Nel Mezzogiorno oltre un quinto delle famiglie residenti (22,6 per cento) è sotto la linea di povertà relativa. Nel Centro la percentuale è del 6,9 per cento, al Nord il 5,2 per cento. Al Sud, rileva l'Istat, "ad una più ampia diffusione del fenomeno si associa una maggiore gravità: le famiglie povere presentano una spesa media mensile di 752,01 euro (l'intensità è del 22,5 per cento) contro i 797,62 e 806,35 osservati per il Nord e il Centro". Di conseguenza, al Sud risiedono i tre quarti delle famiglie "sicuramente povere", la cui spesa media mensile è cioè inferiore di oltre il 20 per cento alla soglia minima. Mentre al contrario i tre quarti delle famiglie "sicuramente non povere" (cioè oltre il 20 per cento sopra la linea standard) risiedono al Nord. Al Sud, rileva Sabbadini, incide anche lo "scoraggiamento" delle donne: "Negli anni sta crescendo il livello di inattività femminile, e quindi ci sono sempre più famiglie monoreddito. Questo incide pesantemente sulla diffusione della povertà".

Single, anziani, disoccupati e working-poor. Solo il 3,3 per cento dei single è povero, e il 4,9 per cento delle coppie senza figli. La povertà in Italia sembra essere sempre più una condizione che si accompagna alle famiglie numerose: sono povere quasi un quarto dei nuclei con cinque o più componenti. L'incidenza sale al 30,2 per cento per le coppie con almeno tre figli minori. L'incidenza della povertà sale poi di almeno due punti sopra la media nazionale tra le famiglie di anziani (13,8 per cento, ma al Mezzogiorno una famiglia su quattro).

Sono povere il 49,4 per cento, praticamente la metà, delle famiglie "senza occupati nè ritirati dal lavoro": prive pertanto di un reddito, da lavoro o da pensione. In condizioni gravi anche le famiglie con un percettore di pensione e un componente alla ricerca di un lavoro: l'incidenza della povertà è il 28,3 per cento. Si tratta di famiglie con capofamiglia anziano, ritirato dal lavoro, e figli adulti conviventi disoccupati, diffuse soprattutto al Sud. "La presenza di occupati (e quindi di redditi da lavoro) - spiega Sabbadini - non è sufficiente a eliminare il forte disagio dovuto alla presenza di numerosi componenti a carico, soprattutto quando si tratta di working poor, cioè di persone che percepiscono un reddito basso".

Il peso dell'istruzione. Al basso titolo di studio si associa una forte incidenza della povertà, pari al 17,9 per cento, di quattro volte superiore rispetto a quella osservata tra le famiglie con a capo una persona che ha conseguito almeno la licenza superiore (5 per cento). Tra i tipi di attività lavorativa, quella più remunerativa sembra quella autonoma: infatti l'incidenza della povertà è minima se la persona di riferimento c'è un lavoratore autonomo (7,5 per cento), in particolare se si tratta di un libero professionista (3,8 per cento). Per i lavoratori dipendenti la percentuale di poveri sale al 9,3 per cento, e per gli operai o assimilati al 13,8 per cento. Se però la famiglia con a capo un operaio vive al Sud, la percentuale raddoppia (27,5 per cento).

(4 ottobre 2007)

fonte: http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/economia/poveri/poveri/poveri.html

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I NUOVI POVERI



Parlare di povertà evoca spesso scenari lontani, i paesi del Terzo Mondo, laddove fame, guerre, regimi, ingiustizie sociali e quant’altro, mietono migliaia di vittime.
Parlare di povertà in un paese sviluppato come il nostro, nelle nostre città dove il benessere si vede e talora si ostenta, sembra un vocabolo forse un po’ “esagerato”, fuori luogo, parola che aveva senso usare magari nel dopoguerra ma non certo oggi. E se proprio dobbiamo usarla, facciamo riferimento a qualcosa di residuale, non certo per indicare l’immagine della nostra società.
Già perché tutto, comunque, si misura in percentuali, anche i problemi; quanto più un problema riguarda una percentuale bassa rispetto al totale, tanto più diventa un problema secondario, insomma un problema di pochi.


Torniamo alla povertà, quella di “casa nostra”; ma chi sono i poveri? Sono un problema così “grave”, nel senso letterale della parola, ha davvero un peso così rilevante?
Cominciamo a dare un volto al problema e partiamo, come spesso si fa, dai “luoghi comuni”.
La povertà che abita soprattutto le nostre città ha il volto dei barboni, dei mendicanti, dei clochard, di chi “si sente” non appartenere ad un sistema sociale e se ne tira fuori, anche fisicamente “scegliendo” le stelle come tetto. Insomma la povertà come “scelta di vita”; che dire, ognuno si assuma le proprie responsabilità. Ma come si anticipava siamo nel campo dei luoghi comuni; chi quotidianamente incontra il variegato mondo dei senza dimora e dei senza tetto sa bene quanto tutto ciò non corrisponda al vero: tante le ragioni per le quali si finisce “fuori”, tante ma non la “libera” scelta.

Allarghiamo un po’ la visuale e scopriamo che per essere poveri non bisogna necessariamente trovarsi in mezzo ad una strada. Ed ecco tornare in gioco le cifre, le percentuali frutto di ricerche che indagano tra le pieghe della società usando la lente economica o quella sociale; e così si scopre che un certo numero di persone forse non si possono definire strettamente povere (le etichette si appiccicano sulla base di precisi parametri) ma sicuramente, come dire, “non se la passano bene!”.


Allora è più opportuno usare altre definizioni, meglio adatte a descrivere quel senso di insicurezza e instabilità che rende sempre più sfumati i confini tra chi e sopra o sotto certe soglie, tra chi è “incluso” e chi è “escluso” dalla società; parole come vulnerabilità, precarietà, “nuove povertà”… Sì perché non è solo una questione di soldi a definire i confini. Si scopre una zona grigia sempre più ampia dove povertà è anche fragilità di relazioni, precarietà lavorativa, insicurezza sociale, inadeguatezza ad un sistema dominato dalla competitività e dalla produttività, malattia.


I parametri, le soglie, le cifre, i sondaggi fanno sempre più fatica a tracciare il disegno. E così si scopre che se da un lato le disuguaglianze sociali si acutizzano (una fascia di ricchi che diventano sempre più ricchi e di poveri che diventano sempre più poveri), c’è tutta un’ampia “terra di mezzo” dove si rischia sempre più spesso di trovarsi, forse non ancora classificabili come poveri, ma indubbiamente in uno stato di insicurezza crescente reale e percepita.

Di fronte a questo scenario si scopre allora che la povertà non è concetto spaziale e temporale da noi poi così remoto. Si scopre una povertà che abita le nostre città, il nostro quartiere, il nostro condominio, una povertà che ha un volto meno riconoscibile rispetto a certi clichè e forse proprio per questo ancor più “pericolosa” in quanto invisibile.
La povertà non più solo come condizione economica oggettivamente misurabile, ma come senso di insicurezza, di instabilità. E’ come camminare su una fune, in equilibrio precario, con il timore di cadere e l’ancor più dolorosa paura di non trovare nulla e nessuno ad attutire il colpo. Anzi un senso di inadeguatezza e persino di vergogna che isola, emargina, ti fa sentire un peso. “Poveri equilibristi”, vite spese in uno sforzo costante per non precipitare, vite “sopravvissute”, vite dove c’è spazio solo per l’essenziale, per quello che permette di tirare a fine mese. Il resto è “un di più” destinato solo a chi “se lo può permettere”.

A fronte di ciò l’equazione povero = “chi non ha” risulta quantomeno inadatta. Povertà è anche e, forse soprattutto, esclusione da un sistema sociale dove si vedono calpestati diritti di cittadinanza che dovrebbero essere irrinunciabili e strenuamente difesi, dove l’accessibilità agli stessi è talora resa impossibile, vite sospese tra diritti negati e reti di sostegno troppo spesso sfilacciate, dalle maglie sempre più larghe, frutto di mutamenti sociali che spezzettano la coesione delle comunità, ma anche di scelte politiche che intaccano e minano lo stato sociale.
Decisioni politiche dunque che si giocano anche sul terreno della responsabilità morale ed etica laddove le scelte si intrecciano con i poteri forti che dettano legge, che costruiscono sistemi sociali sempre più dominati dal profitto, dalla competitività, sistemi sempre più “esclusivi” dove non c’è spazio per tutti. Ma non commettiamo il solito errore di pensare la responsabilità politica come questione che interroga solo i politici, le istituzioni.

Tutti siamo responsabili della società che costruiamo o distruggiamo. Sono anche le scelte di vita di ciascuno a creare più o meno giustizia o ingiustizia sociale, terreno su cui le scelte della politica, della finanza, dell’economia possono o meno incidere, possono o meno indirizzarsi verso la giustizia sociale, la coesione, la moralità, oppure verso il profitto che non guarda in faccia a nessuno, l’individualismo, l’immoralità e l’ingiustizia. Non partire dal basso, dalla responsabilità individuale che si fa certo anche responsabilità collettiva, quando scegliamo i “nostri” rappresentanti politici, ma anche quando ci si pensa individui sì, ma in un contesto sociale che chiede relazioni, attenzione, sostegno di chi è in difficoltà, significa assumersi la responsabilità di lasciare le cose come stanno, di aderire solo formalmente a grandi slogan che invitano a sconfiggere la povertà, basta poco, basta un sms al modico costo di 1 euro!

Articolo tratto dal sito Consumi Etici

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1 commento:

Franca ha detto...

Le mense della Caritas sono piene di nuovi poveri, persone che solo pochi anni fa non avrebbero mai pensato di poter sopravvivere solo grazie a questo tipo di aiuti