Siamo tutti
“non rieducabili”
di Gianni Rossi
Il Teatro Valle di Roma gremito come non mai, un’atmosfera carica di commozione, un’ora e mezza di “teatro verità” in stile brechtiano. Il ricordo della Politkovskaja è passato lungo le parole dei suoi scritti, rielaborati da Silvano Piccardi e magistralmente interpretati da Ottavia Piccolo, con l’intercalare musicale surreale dell’arpa, suonata da Floraleda Sacchi.
Abbiamo compreso così da quegli articoli, elaborati con lo stile alla Maksim Gorkji, la tragedia del popolo ceceno e la fragilità della democrazia russa sotto il potere del “piccolo zar” Putin, ex-colonnello del KGB, la centrale spionistica, già comandante delle forze speciali proprio nei periodi più bui della guerra in Cecenia.
di Gianni Rossi
Il Teatro Valle di Roma gremito come non mai, un’atmosfera carica di commozione, un’ora e mezza di “teatro verità” in stile brechtiano. Il ricordo della Politkovskaja è passato lungo le parole dei suoi scritti, rielaborati da Silvano Piccardi e magistralmente interpretati da Ottavia Piccolo, con l’intercalare musicale surreale dell’arpa, suonata da Floraleda Sacchi.
Abbiamo compreso così da quegli articoli, elaborati con lo stile alla Maksim Gorkji, la tragedia del popolo ceceno e la fragilità della democrazia russa sotto il potere del “piccolo zar” Putin, ex-colonnello del KGB, la centrale spionistica, già comandante delle forze speciali proprio nei periodi più bui della guerra in Cecenia.
Un lungo calvario, quello di Anna, che si dipana dal 2001 fino al giorno della sua morte, il 7 di ottobre del 2006, quando un killer, assoldato dalla mafia cecena o da alcuni settori dei servizi segreti o, ancora, dagli apparati del potere illiberale moscovita, ha sparato quattro colpi contro il suo fragile e già maltrattato corpo di giornalista.
Una donna esile, una madre, una testimone del nostro tempo che con una grazia incredibile riusciva a dar voce agli umili della Cecenia e portava alla luce dell’opinione pubblica russa e mondiale il dramma, la tragedia, le torture e i misfatti che si stanno ancora oggi consumando in quelle terre.
E’ stata anche una lezione di giornalismo non gridato, non spettacolarizzato, ma carico di umanità, alla ricerca testarda di verità nascoste, inconfessabili.
Anna, negli ultimi suoi cinque anni di vita e di professione, ha vissuto sulla propria pelle, come una martire, la “sporca guerra” cecena, fatta di terrorismo irredentista e disumano, ma anche di repressione militare crudele, a tratti riecheggiante i metodi del nazismo. Un odio profondo divide la Cecenia dalla Russia, alimentato anche da motivi religiosi ( islamici contro ortodossi), ma soprattutto dal controllo delle ingenti ricchezze energetiche presenti nella zona. Chi sono i “cattivi” e chi, invece i “buoni” in questa guerra ormai dimenticata, lontana dai riflettori dei media internazionali?
Difficile dare una “risposta intelligente”, come scriveva Anna in uno dei suoi reportage. Di certo le vittime sono gli “umili della terra”: le donne stuprate dalle bande cecene e dalle forze speciali russe e poi cacciate dalle loro famiglie, i bambini straziati dalle mine e dai kalasnikov, i contadini strappati dalle loro terre e deportati lontano, “desaparecidos”, le tradizioni culturali e religiose bruciate con i gas, i lanciafiamme e le armi chimiche. Le città bianche asiatiche, ridotte ad un cumulo di macerie grigie.
Tutto questo dramma era documentato con una scrittura quasi “romantica”, ottocentesca, da Anna, senza fronzoli e senza la minima partecipazione politica, ma con una obiettività che lasciava il segno. E con un senso di umanità tutta femminile, che è stata all’origine della sua sentenza di morte!
Per chi è abituato a vivere e lavorare comodamente nelle grandi metropoli dell’Occidente “civile”, i resoconti di Anna sono come un pugno nello stomaco. Da corrispondente di guerra, lei ti gettava in faccia la difficoltà della vita quotidiana, dalla ricerca dell’acqua e del cibo, ai pericoli giornalieri di restare uccisi da proiettili vaganti o da ritorsioni cecene e russe. Non solo, ma la sua opera di testimone dei nostri tempi spesso l’ha portata a tu per tu con la morte, con la tortura e il carcere ad opera dei militari russi, fino alla quasi quotidiana persecuzione della polizia segreta, indispettita per i suoi reportage.
Chi ha armato la mano del suo killer? Ad un anno dal suo omicidio su commissione, l’inchiesta langue, i suoi ultimi scritti, custoditi gelosamente nel suo computer, sono ancora in mano agli inquirenti e nessun passo avanti è stato fatto per arrivare ai veri mandanti e alle tante connivenze.
Per il potere russo, retto da quel “tiranno moderno” che è Putin, tanto amico di altri potenti europei (alla sua corte sono accorsi l’ex-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Schroeder, ma anche i Berlusconi di mezza Europa), Anna è un “incidente di percorso” e come tale si sta facendo di tutto per farla dimenticare. Un’opera da “grande fratello” staliniano, che ha già avuto i suoi effetti in Russia e che rischia di avere successo anche nel resto del mondo democratico.
Per queste ragioni, non va dimenticato il suo esempio, la sua storia. Per questo va ripreso il testimone che ci ha lasciato, per costringere le autorità russe ad andare in fondo nell’indagine sulla sua morte. Va chiesto il conto a Putin e agli apparati del governo di Mosca di quel delitto, come occorre che piena luce sia fatta sugli orrendi atti di terrorismo nel teatro moscovita Dubrovka (160 i primi morti, oltre 600 feriti, intossicati dai gas utilizzati dalle forze speciali antiterrorismo) e nella scuola di Beslan in Ossetia (400 morti, di cui la metà bambini, sempre per causa dell’intervento armato russo).
Ne uccide di più il terrorismo ceceno o la contro-reazione delle forze regolari dell’esercito russo?
Una domanda alla quale Anna si è sempre sottratta, più interessata a raccontare le vicende umane di chi subiva inerme le violenze dai due fronti contrapposti. Per lei era più importante documentare la tragedia di una nazione, quella russa, che non è ancora uscita dal terrore del regime sovietico, dal sistema oligarchico e antidemocratico che trae origine dal “lungo sonno della ragione” in cui l’aveva ridotto lo stalinismo prima e il breznevismo poi, per arrivare ai giorni nostri con i due “piccoli zar” Boris Eltsin e Vladimir Putin.
Il suo scopo era di portare alla ribalta internazionale il “cancro” che rode la fragile democrazia russa, la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti, per far conoscere al mondo intero il volto vero di chi ha il potere a Mosca e dintorni, di coloro che stringono le loro “mani insanguinate” con i maggiori uomini d’affari dell’Occidente, senza curarsi dell’immane tragedia che si sta consumando nei territori sotto il “tallone di acciaio” del potere russo.
Siamo tutti “non rieducabili”, come recitava un dispaccio del comando militare russo, che poneva Anna tra gli oppositori, tra coloro che tradivano “gli ideali della santa madre Russia” e che, quindi, andavano solo spazzati via dalla faccia della terra.
Tocca a noi, giornalisti liberi, figli di un “Dio benevolo”, tenere alta la bandiera della sua testimonianza e far sì che anche le nuove generazioni in Europa e, soprattutto, in Russia, non dimentichino il sacrificio di Anna Politkosvkaja, una “grande figlia” di quell’amata terra russa, straziata dalla violenza delle oligarchie.
fonte: http://www.articolo21.info/editoriale.php?id=2787
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2 commenti:
La prova di come l'informazione libera faccia paura ai "potenti"
accidenti è già passato un anno
ma non è cm biato nulla
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