La guerra è madre di tutte le cose. Divagazioni semiserie di un cuore irriducibilmente anarchico
"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci
domenica 16 settembre 2007
Piccola storia di classe
Riporto liberamente dal blog di KorvoRosso, che ringrazio ancora. Sia per l'autorizzazione che per il testo:
"I nomi e i luoghi sono immaginari. La storia è assolutamente, dettagliatamente e dolorosamente vera.
Nino è un ragazzone di trentasette anni, alto un metro e novanta, dal fisico possente dovuto alla sua passione per la palestra. Il viso, e soprattutto lo sguardo, rivelano però la sua gioventù “movimentata” e la sua oramai definitivamente superata dolorosa esperienza con l‘alcool. Diventato irriducibilmente astemio con la sola forza della sua volontà, risponde senza vergogna “me sò bevuto pure l’anima” a chiunque gli offre da bere non conoscendo il suo problema. Un lieve accenno di balbuzie rende il suo parlare particolarmente dolce e pacato, quasi sommesso. Assolutamente spoliticizzato, si dichiara fascista, ma in realtà è l’antitesi del fascista tipo: carattere tranquillo e melanconico, temperamento pacato, istintivamente altruista. Possiede una primitiva e solida coscienza di classe, odia i padroni e si sente a sfruttato e vittima di ingiustizia: a trentasette anni, con una moglie e una figlia a carico, sopravvive lavorando come interinale nei mesi estivi, arrotondando il salario come cameriere nei fine settimana, lavoro che svolge, sempre soltanto nei fine settimana e a nero, anche d’inverno. Il suo dichiararsi fascista è dovuto al suo senso di appartenenza al mondo delle palestre, unico svago che si concede, più che a convinzione politica. Entra alla “Chemical Sud” in giugno, con un contratto di tre mesi, settore logistica al carico e scarico merci, come addetto al carrello elevatore, per permettere ai “fissi” di andare in ferie a rotazione, visto che la Chemical è una fabbrica a ciclo continuo e l’estate non chiude. “Me tocca solo lavorà” ripete spesso con un sorriso malinconico sulle labbra. Salvatore è quello che un tempo veniva chiamato “caposquadra”. Ha una decina d’anni in più di Nino, ventidue anni di fabbrica sul groppone, anche lui entrato con un contratto a termine, due anni da precario, il terzo anno dovettero assumerlo, a quei tempi funzionava così. E’ comunista e politicizzato: milita attivamente in un partito dell’estrema sinistra. Vive la fabbrica con sofferenza. E’ diventato “preposto” oltre che per l’esperienza, per la sua discreta padronanza del computer, cosa che l’azienda sfrutta utilizzandolo in ufficio a compilare documenti di spedizione quando manca qualche impiegato. Quando il suo rappresentante sindacale gli ha proposto di piantare una grana per un possibile avanzamento di livello, ha accettato solo l’adeguamento salariale per il lavoro da impiegato, diffidandolo dal rivendicare un avanzamento di categoria che peraltro difficilmente avrebbe ottenuto: “non ce provà, io sò operaio e voglio rimanè operaio”. Considera questa cosa uno schiaffo morale al padrone. Ha tre unici grandi motivi di soddisfazione dal suo lavoro: ha imparato la difficile arte di proteggere i colleghi di cui è responsabile riuscendo ad accontentare il padrone senza che nessuno schiatti di lavoro. Questo grazie al porsi rispetto agli altri come collega e non come capo, a salire sul carrello come gli altri quando gli altri non ce la fanno, all’organizzare il lavoro della giornata insieme agli altri addetti facendo una piccola riunione tutte le mattine. Non costringendo nessuno a fare niente per forza usando la forza dell’esempio. Si è incazzato qualche volta all’inizio quando qualcuno ha scambiato il suo metodo per debolezza e ha provato ad imboscarsi caricando gli altri del proprio lavoro. Si è incazzato di brutto, ma non gli è mai passato per la testa di denunciare il lavativo di turno ai superiori, e la cosa alla fine ha pagato. Il padrone non mette becco nel reparto di Salvatore. Magari alla fine gli tocca lavorare più degli altri, ma a lui sta bene così. Il secondo motivo è la stima dei colleghi, conquistata con l’esempio e col metodo che ha reso la vita più facile a tutti. Il terzo è che non ha mai “leccato il culo” a nessuno e non ha mai bucato uno sciopero, spendendosi nelle assemblee per convincere gli indecisi. Anni addietro ha avuto problemi con un capo settore infame, problemi che gli hanno causato due lettere di contestazione, ma si è tolto la soddisfazione di gridargli vaffanculo a due centimetri dalla faccia. Quel capo settore è passato, tagliato alle gambe, Salvatore è rimasto. Considera la fabbrica un luogo a democrazia sospesa, in cui la forza per andare avanti è data dalla solidarietà di classe tra operai, che in un modo o nell’altro irrompe e si manifesta. Gode quando gli capita di fare volantinaggio per il suo partito davanti ai cancelli della sua fabbrica all’entrata del turno notturno e all’uscita del pomeridiano, sogghignando divertito ai turnisti che lo guardano, chi stupito, chi scettico, chi ammirato mentre gli porge il volantino. Quando Nino e Salvatore si incontrano, il primo giorno di lavoro di quest’ultimo, scatta subito la simpatia reciproca. Salvatore ha una naturale propensione a “proteggere” gli operai, soprattutto se interinali. Nino è piacevolmente sorpreso da quel “capoccio” anomalo che per prima cosa gli dice: “stai tranquillo e prendila con calma, nessuno ti corre dietro”. Quando cominciano a entrare in confidenza e Salvatore conosce la storia di Nino, la sua sofferenza di fabbrica si acuisce. Giura a se stesso che farà di tutto per rendergli la vita il più facile possibile ma è un guaio: Nino è un gran lavoratore, nonostante nessuno gli imponga alcun super lavoro, si deve costringerlo a fermarsi per fare una pausa. Ogni suo minuto di lavoro, ogni sua azione, ogni suo sguardo mentre lavora dicono: “guardate, sono un lavoratore, mi faccio il culo come gli altri, merito anch’io un lavoro sicuro”. E se lo fa il culo, più e meglio degli altri. Salvatore viene a sapere che Nino è fascista grazie alla comune passione per i tatuaggi. Nino ne è pieno, soliti temi da palestra: gladiatori, tigri, samurai e tribali. Nessuna croce celtica né fascio romano però. Salvatore ha un Che con falce martello e pugno sul braccio. Quando glielo mostra e gli chiede: “te piace?”, Nino risponde: “bello, ma io sò fascista, però no me frega ‘n cazzo della politica”. Alchè Salvatore scatta sull’attenti ed esclamando: “a noi!” accennando un saluto romano che subito si trasforma nel gesto dell’ombrello. Nino non si scompone e sollevato di peso il per lui minuscolo Salvatore lo deposita tra le risa e le grida di quest’ultimo sul tettuccio del carrello elevatore intimandogli con la sua inimitabile parlata dolce-balbettante: “ o me canti faccetta nera o te faccio scende alle cinque meno cinque”.
Quel sabato mattina di agosto si ritrovano poco prima delle sei del mattino a timbrare il cartellino. C’è del lavoro urgente da fare, dei camion da caricare che devono consegnare il lunedì successivo e il venerdì in produzione non si era arrivati a quantità. Salvatore ha proposto a Nino se gli andava di farsi un sabato straordinario e questi ha accettato di buon grado. Ai cartellini Salvatore nota che Nino ha una faccia un po’ più stanca del solito ma pensa che sia dovuta al sonno. Dopo il solito imbevibile caffè all’automatico, i due cominciano a darsi da fare: contano di finire il lavoro in tre o quattro ore. Ma Nino non è il solito degli altri giorni. Non che Salvatore pretenda il ritmo a cui Nino è solito lavorare, al contrario. Ma la “moscerìa” dell’amico lo preoccupa. Al secondo scatolone che Nino urta col carrello Salvatore lo prende di petto: “Che c’è Nì, te senti bene?” “ tutto a posto Salvatò, ‘nte preoccupà” “ nun ce provà cò me Nì, che c’hai?” La verità viene a galla: Nino aveva staccato venerdì alle 14 (inizio turno alle 6 del mattino), alle 16 era tornato a lavorare presso il ristorante in cui prestava servizio nei fine settimana per un “addio al celibato” di 500 persone e aveva lavorato fino alle 4 di sabato mattina. Non era andato a dormire e alle 6 era in fabbrica. Praticamente lavorava ininterrottamente da 24 ore. Salvatore sentì una fitta allo stomaco, ma non lo diede a vedere. “a Nì, ma che te voi arriccà?” fu quello che riuscì a dire, per sdrammatizzare, per non imbarazzarlo. “me tocca solo lavorà, Salvatò” “ Stamme a sentì: mò te ne vai dentro all’ufficio, te stendi sulla poltrona e te fai ‘na bella dormita, te chiamo io quando è ora d’annassene. E la cosa rimane tra noi” Nino provò a resistere, ma Salvatore, col sorriso sulle labbra e la rabbia che gli contorceva lo stomaco, fu inflessibile. Finì il lavoro per le 13, senza quasi accorgersene, aveva la testa da un’altra parte. Andò a svegliare Nino e decidono di rimanere fino alle 14, “vaffanculo n’ora a ‘sti stronzi gliela potemo pure fregà”. Il 31 agosto è scaduto il contratto, e Nino è stato messo fuori. Salvatore ha parlato col capo settore, che è abbastanza umano, assillandolo, mettendola sul piano “un lavoratore come Nino non si trova tutti i giorni”. Sapendo che, ammesso che il capo settore lo prendesse a cuore, la decisione non spettava a lui. Spettava al padrone. Si sono salutati promettendosi di rimanere in contatto, Nino abita in un paese a 20 km da Salvatore. Salvatore cerca di mostrarsi allegro e rassicurante: “Hai fatto ‘na bella impressione Nì, vedrai che da qui a poco te richiamano”, ma avrebbe voglia di appiccare un incendio o di buttare qualcuno giù dalla finestra della “palazzina”. E si chiede, come sempre, quanto sia complice di questi crimini, quanto il padrone gli abbia rubato l’anima e il corpo.
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