Minimo retribuito
Tre lavoratori su quattro non riescono a rinnovare il loro contratto, e gli stipendi stentano a tenere il passo dell’inflazione. Entra in crisi la concertazione e c’è chi propone di limitare il ruolo dell’accordo nazionale
di Manuele Bonaccorsi
«Migliora la bilancia commerciale, cresce la produzione industriale, torna il segno più davanti al Pil: l’economia italiana riprende a viaggiare, lenta ma caparbia. Sale anche la produttività del lavoro che negli anni bui della recessione berlusconiana era stata addirittura negativa, svelando il retroscena di un paese incapace di investire in tecnologia e qualità. L’unica cosa che non cresce sono i salari. Colpiti dalla recessione del ’93, affondati dall’inflazione dal 2000 al 2005, le buste paga sono riuscite a stento a tenere il passo dell’aumento dei prezzi calcolato dall’Istat (un misura da più parti definita sensibilmente inferiore a quella reale). Secondo altre misurazioni, ad esempio quella dell’Eurispes, i lavoratori italiani hanno addirittura perso un bel pezzo del proprio salario: dal 2000 al 2005 le retribuzioni sarebbero cresciute del 4,1% contro un’inflazione superiore al 20. Al di là delle discordanze tra i numeri un dato è certo: negli ultimi 15 anni della nuova ricchezza prodotta nulla o quasi è andato nelle tasche dei lavoratori. E il trend negativo non accenna a migliorare. Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat i salari sono cresciuti nell’ultimo anno solo dell’1,8%, la performance peggiore degli ultimi quattro anni.
La causa? I contratti di lavoro. Tre lavoratori su quattro non riescono a rinnovarli. E dunque vedono le loro buste paga inesorabilmente erose dall’aumento dei prezzi, appena mitigati dall’indennità di vacanza contrattuale: il 30% dell’inflazione dopo tre mesi, il 50% dopo sei mesi, pochi spiccioli. Se a questo si aggiunge la continua crescita del lavoro precario il cerchio si chiude: la pur debole ripresa in corso non viene intercettata dai salari, la primavera per il lavoro non è ancora arrivata.
Sono senza contratto 1,6 milioni di lavoratori del commercio, 1,7 milioni di metalmeccanici, 500 mila pulitrici, 320 mila bancari, 100 mila ferrovieri, 17 mila giornalisti. A loro il triste primato: il contratto è scaduto il 28 febbraio del 2005. E da allora i rappresentanti della Fieg (l’associazione degli editori) preferiscono disertare i tavoli di trattativa. Secondo un rapporto dell’Istat del 3 settembre hanno un contratto in vigore solo il 27,7% dei lavoratori italiani. E la situazione è destinata a peggiorare: se entro la fine dell’anno nessuno delle 36 vertenze aperte dovesse essere chiusa ad avere il privilegio di un contratto sarebbe solo l’8,1% dei lavoratori dipendenti. E al popolo dei senza contratto (oggi circa 8 milioni) si aggiungerebbero 1,2 milioni di edili e 180 mila chimici, mentre tornerebbero in campo 1,7 milioni di dipendenti pubblici: il loro contratto rischia di scadere ancora prima della conclusione dell’iter di rinnovo. Non è un caso, dunque, se l’andamento dei salari ha raggiunto il suo record negativo: tra il luglio del 2006 e lo stesso mese del 2007 le retribuzioni sono cresciute solo lo 0,2% sopra l’inflazione reale (1,6). Nonostante le tante vertenze in corso da gennaio a maggio del 2007 sono state effettuate 824 mila ore di sciopero, contro i 2,2 milioni dello stesso periodo del 2006. Ma come mai è divenuto così difficile rinnovare i contratti di lavoro e salvare i salari dall’inflazione? La causa, probabilmente, sta nelle regole della contrattazione collettiva, fissate dalle parti sociali nel 1993, quando il governo Ciampi era impegnato nella lotta all’inflazione galoppante di quegli anni. Abolita la scala mobile, che legava automaticamente l’andamento ai salari all’inflazione reale, le retribuzioni furono collegate all’inflazione programmata stabilita dai governi nel Dpef che precede ogni finanziaria. Ogni due anni le parti sociali avrebbero contrattato il recupero della differenza e aggiornato i salari sulla base di quella prevista. Che è sempre inferiore alla reale crescita dei prezzi.
La crisi del modello di contrattazione ha spinto il governo e le parti sociali a interrogarsi sul suo superamento. Il protocollo firmato lo scorso luglio prevede sgravi fiscali per la contrattazione aziendale per favorire aumenti delle retribuzioni legati all’andamento delle imprese. La proposta è stata accolta favorevolmente da Cisl e Confindustria, mentre la Cgil è divisa al suo interno tra i possibilisti e chi vede nei contratti nazionali un istituto irrinunciabile, per la sua capacità di garantire il 70% dei lavoratori che non riesce ad intraprendere la contrattazione nei posti di lavoro. Ma il dibattito in corso non potrà prescindere da un dato: la contrattazione non funziona più, e non riesce a difendere il potere d’acquisto dei salari, specialmente nelle categorie più deboli. E’ quello che cercheremo di spiegare nel nostro breve viaggio tra i “lavoratori scaduti”.
La causa? I contratti di lavoro. Tre lavoratori su quattro non riescono a rinnovarli. E dunque vedono le loro buste paga inesorabilmente erose dall’aumento dei prezzi, appena mitigati dall’indennità di vacanza contrattuale: il 30% dell’inflazione dopo tre mesi, il 50% dopo sei mesi, pochi spiccioli. Se a questo si aggiunge la continua crescita del lavoro precario il cerchio si chiude: la pur debole ripresa in corso non viene intercettata dai salari, la primavera per il lavoro non è ancora arrivata.
Sono senza contratto 1,6 milioni di lavoratori del commercio, 1,7 milioni di metalmeccanici, 500 mila pulitrici, 320 mila bancari, 100 mila ferrovieri, 17 mila giornalisti. A loro il triste primato: il contratto è scaduto il 28 febbraio del 2005. E da allora i rappresentanti della Fieg (l’associazione degli editori) preferiscono disertare i tavoli di trattativa. Secondo un rapporto dell’Istat del 3 settembre hanno un contratto in vigore solo il 27,7% dei lavoratori italiani. E la situazione è destinata a peggiorare: se entro la fine dell’anno nessuno delle 36 vertenze aperte dovesse essere chiusa ad avere il privilegio di un contratto sarebbe solo l’8,1% dei lavoratori dipendenti. E al popolo dei senza contratto (oggi circa 8 milioni) si aggiungerebbero 1,2 milioni di edili e 180 mila chimici, mentre tornerebbero in campo 1,7 milioni di dipendenti pubblici: il loro contratto rischia di scadere ancora prima della conclusione dell’iter di rinnovo. Non è un caso, dunque, se l’andamento dei salari ha raggiunto il suo record negativo: tra il luglio del 2006 e lo stesso mese del 2007 le retribuzioni sono cresciute solo lo 0,2% sopra l’inflazione reale (1,6). Nonostante le tante vertenze in corso da gennaio a maggio del 2007 sono state effettuate 824 mila ore di sciopero, contro i 2,2 milioni dello stesso periodo del 2006. Ma come mai è divenuto così difficile rinnovare i contratti di lavoro e salvare i salari dall’inflazione? La causa, probabilmente, sta nelle regole della contrattazione collettiva, fissate dalle parti sociali nel 1993, quando il governo Ciampi era impegnato nella lotta all’inflazione galoppante di quegli anni. Abolita la scala mobile, che legava automaticamente l’andamento ai salari all’inflazione reale, le retribuzioni furono collegate all’inflazione programmata stabilita dai governi nel Dpef che precede ogni finanziaria. Ogni due anni le parti sociali avrebbero contrattato il recupero della differenza e aggiornato i salari sulla base di quella prevista. Che è sempre inferiore alla reale crescita dei prezzi.
La crisi del modello di contrattazione ha spinto il governo e le parti sociali a interrogarsi sul suo superamento. Il protocollo firmato lo scorso luglio prevede sgravi fiscali per la contrattazione aziendale per favorire aumenti delle retribuzioni legati all’andamento delle imprese. La proposta è stata accolta favorevolmente da Cisl e Confindustria, mentre la Cgil è divisa al suo interno tra i possibilisti e chi vede nei contratti nazionali un istituto irrinunciabile, per la sua capacità di garantire il 70% dei lavoratori che non riesce ad intraprendere la contrattazione nei posti di lavoro. Ma il dibattito in corso non potrà prescindere da un dato: la contrattazione non funziona più, e non riesce a difendere il potere d’acquisto dei salari, specialmente nelle categorie più deboli. E’ quello che cercheremo di spiegare nel nostro breve viaggio tra i “lavoratori scaduti”.
Pulitrici
Sono oltre 500 mila e il loro contratto è scaduto nel maggio del 2005. Impegnate per il 60% negli uffici pubblici, dove spesso vale la regola degli appalti al massimo ribasso, il 90% è assunta a part time, con una paga media che si aggira intorno ai 500 euro. I sindacati chiedono un aumento di 90 euro, ma il prolungarsi della trattativa ha reso anche questa richiesta insufficiente per recuperare il potere d’acquisto perduto. «Nei due anni di trattativa abbiamo perso 59 euro di salario reale. Forse anche per questo non riusciamo a rinnovare il contratto, perché le imprese non hanno interesse a farlo, preferiscono risparmiare», spiega Carmelo Romeo, della Filcams Cgil. Confcommercio e le centrali cooperative chiedono anche l’abrogazione della maggiorazione del 25% prevista per il sesto giorno lavorativo, si dicono indisponibili a pagare i primi tre giorni di malattia, e chiedono ai sindacati di combattere l’assenteismo: «Capisco i problemi delle imprese, ma bisogna guardare il fenomeno per quello che è: con paghe di 400 euro molte pulitrici sono costrette al doppio lavoro, e se gli orari si sovrappongono non hanno altra possibilità», spiega il sindacalista. «Non può andare avanti così: firmiamo un accordo ogni quattro anni, non ogni due. Ci vuole una misura di legge che renda obbligatoria la chiusura dei contratti».
Commercio
Con 1,6 milioni di addetti è una delle categorie più ampie del mondo del lavoro. Il loro contratto è scaduto il 31 dicembre del 2006, ma nei tavoli di confronto non si è ancora discussa la proposta di aumento salariale (78 euro per 14 mensilità). Gli incontri si sono arenati sulla regolazione dei contratti atipici, con Confcommercio che si è più volte detta indisponibile a limitare l’uso delle tipologie contrattuali previste dalla Legge 30. Si litiga anche sulle domeniche lavorative; i datori di lavoro chiedono di abolire la maggiorazione del 30% prevista. Il part time è diffusissimo, e riguarda circa l’80% dei lavoratori della grande distribuzione. Una cassiera al quarto livello ha un salario di 1297 euro lorde, poco meno di mille al netto. Per calcolare la paga di un part-time basta dividere per due.
Bancari
Per 320 mila bancari il 2007 è l’anno della riscossa. Con una richiesta di 188 euro i sindacati non si limitano a rivendicare il recupero dell’inflazione, ma chiedono anche una quota della ricchezza prodotta. D’altronde ai bancari non si può certo rinfacciare di non aver a cuore l’andamento delle aziende. Per rilanciare il settore nel biennio 1997-98 le associazioni dei lavoratori sopportarono il blocco dei salari. Da allora il mondo del credito è stato investito da profondi processi di restrutturazione, che hanno costretto la categoria a dotarsi di un fondo di solidarietà per gestire i frequenti esuberi provocati da delocalizzazioni e fusioni. La trattativa è ancora in alto mare. La richiesta dei lavoratori è stata definita dall’Associazione banche italiane «incompatibile con lo scenario nel quale operiamo». Il settore è finora riuscito a contenere l’inflazione e a imporre una stabile contrattazione di secondo livello. Ma neppure i lavoratori delle banche sono nababbi. Un apprendista appena assunto ha un salario di appena 1000 euro.
Artigiani
Sono quasi mezzo milione i lavoratori delle piccole imprese metalmeccaniche artigiane. Il loro contratto è scaduto da oltre 7 anni per la parte normativa, dal 2004 per quella economica. E la lunghissima vacanza contrattuale si è fatta sentire sulle buste paga: tra un metalmeccanico e un artigiano dello stesso livello la differenza è di circa 220 euro. I sindacati chiedono 142 euro di aumento, che salgono a 220 per le imprese che non svolgono la contrattazione regionale di secondo livello. Al centro della trattativa c’è il problema degli apprendisti. Per loro la Legge 30 prevede il sottoinquadramento. Le imprese chiedono invece di stabilire la paga sulla base di una percentuale (in genere il 70%) di quella finale. La differenza non è da poco, dato che la differenza tra un livello e il superiore è spesso di poche decine di euro. «Siamo dinanzi a un vero blocco dei contratti artigiani, che riguarda anche tessili e alimentaristi. Con l’obiettivo di abolire nei fatti il livello nazionale di contrattazione», spiega Maurizio Ladini, della segreteria nazionale della Fiom.
Metalmeccanici
A ottobre si concluderà la “moratoria”, la fase di trattativa in cui è impedita la proclamazione di iniziative di lotta. A quel punto la vertenza che riguarda 1,7 milioni di lavoratori metalmeccanici entrerà nel vivo. Per chiudere l’ultimo contratto, firmato nel gennaio del 2006 con 100 euro di aumento, ci vollero oltre 50 ore di sciopero, blocchi stradali, un corteo a Roma con 150 mila lavoratori. E questa volta la partita non si preannuncia meno dura. Ma i metalmeccanici partono in vantaggio: l’industria manufatturiera è il settore trainante della ripresa economica, e una vertenza prolungata, puntellata da frequenti scioperi, potrebbe rappresentare per le imprese un danno difficile da sopportare. Chiedono 117 euro di aumento, più 30 riservati alle aziende che non svolgono la contrattazione di secondo livello. Una proposta con la quale i metalmeccanici rilanciano il ruolo del contratto nazionale come strumento di equità tra i lavoratori. I metalmeccanici, inoltre, si oppongono alla richiesta datoriale di maggiore flessibilità nella gestione degli orari, e propongono una riduzione delle percentuali del lavoro atipico, definendo il contratto a tempo indeterminato come «la forma normale di lavoro nel settore metalmeccanico». La risposta di Federmeccanica non si è fatta attendere. Il presidente Massimo Calearo, che dentro Confindustria ha fama di falco, è stato molto netto: «Ipotesi onerose che trascurano la competitività delle imprese». Nell’ultimo incontro, inoltre, Federmeccanica ha provato a cambiare le regole in corsa, presentando una proposta che prevede la triennalizzazione e la limitazione del ruolo dei contratti nazionali. Anche i lavoratori metalmeccanici negli ultimi anni non sono riusciti ad aumentare i loro salari. Secondo una ricerca di Federmeccanica dal 2000 al 2005, al netto dell’inflazione, le retribuzioni sono cresciute in termini reali di appena lo 0,7%. Ed è in netto aumento la differenza salariale tra lavoratori manuali e impiegati, che vedono crescere il loro salario molto più velocemente.
21 settembre 2007
fonte: http://www.avvenimentionline.it/content/view/1583/1/
fonte immagine di testa: www.cirocatering.it/img/panino_ciro.gif
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1 commento:
La soluzione non può essere di certo nell'abolizione o limitazione della contrattazione collettiva nazionale
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