Nell'ottobre del 1947 la Innocenti mise in vendita il primo modello di uno scooter che per venticinque avrebbe goduto di grande popolarità. Prima di scomparire
Lambretta, quelle le due ruote che rimisero in movimento l'Italia
di EDMONDO BERSELLI
La prima Lambretta esce dalla fabbrica Innocenti nell'ottobre del 1947, sessant'anni fa. Sarà pur vero che è l'anno in cui Alcide De Gasperi sbarca i comunisti di Palmiro Togliatti dal governo e i "piselli" di Giuseppe Saragat spezzano l'unità del Partito socialista: ma rimane vero che la Lambretta "A" è subito un mezzo di locomozione autenticamente proletario. Costruzione spartana, anzi, più che spartana, essenziale al punto che oggi potrebbe essere considerata una specie di prodotto artistico, una sintesi tecnologica senza scarti, l'essenzialità fatta scooter, un oggetto da esporre in qualche museo d'arte moderna culturalmente tendenzioso, insieme con la Lettera 22 della Olivetti e i migliori oggetti del design italiano.
Lambretta, ovvero funzionalità: classico motore a due tempi, 125 centimetri cubi da alimentare a miscela, che soprattutto nella fase di avviamento era in grado di rilasciare nell'atmosfera un magnifico e oggi inquietante fumo azzurrino. Cambio a tre velocità, 55 chilogrammi di peso, quasi da libellula. Una linea agli inizi senza troppe carenature, "esposta", dove tutto è in bella vista, dal motore ai pezzi assemblati come se fossero pacchetti, o meglio scatole. Un puzzle, o un collage industriale, il design del nuovo scooter italiano. E un prezzo piuttosto ingombrante, in quel 1947, cioè 156mila lire, quando lo stipendio medio mensile di un operaio era di ventimila lire. Ma era cominciata la ricostruzione, le industrie di guerra stavano per essere riconvertite, arrivavano i soldi del piano Marshall e il successo del nuovo scooter avrebbe consentito la produzione di massa, e quindi l'abbattimento dei prezzi (nel 1954, il modello "F" costa 112mila lire).
La Lambretta della prima serie aveva "innumerevoli difetti", secondo i tecnici, non superava i 70 chilometri orari, ma consumava poco, un litro di miscela per 39 chilometri, a velocità di crociera, Con il progredire dei modelli e l'affinamento delle soluzioni tecniche si giunse rapidamente a un consumo assai inferiore: 50, addirittura 60 chilometri con un litro per il modello "F" del 1954. Ci vuol poco quindi a intuire come il nuovo scooter realizzato da Ferdinando Innocenti, nato a Pescia nel 1891, industriale specializzato nei tubi, autore fra l'altro del ponteggio di manutenzione nella Cappella Sistina, diventasse rapidamente uno degli strumenti centrali nello sviluppo dell'Italia degli anni Cinquanta.
Bastano pochi anni, infatti, e la Lambretta diventa uno dei totem dell'orizzonte italiano fra la ricostruzione e il boom economico. Anni di frenesia produttiva, di uno sforzo collettivo gigantesco, in cui l'urbanizzazione e l'industrializzazione trasformano profondamente lo stesso panorama del Paese. E popolano le strade, asfaltate o ancora bianche, di quegli strani oggetti meccanici, che non sono motociclette autentiche, hanno una forma particolare, sono gli "scooter". Oggetti sommamente disprezzabili, secondo i puristi della moto, quelli che vogliono sentire il rotondo scoppiettio del motore a quattro tempi: perché lo scooter ha le ruote piccole, "è meno sicuro alle alte velocità", ma soprattutto contraddice vistosamente la sostanza maschia della due ruote classica, quella con il serbatoio da stringere virilmente fra le cosce e con la testata del motore in vista, pronta a rilasciare generose macchie d'olio sui calzoni del "centauro".
Lo scooter invece è più cittadino, borghese, forse intrinsecamente impiegatizio, adatto alla giacca e cravatta, e anche alle signore, volendo. E pazienza per la Lambretta, che con la suprema sobrietà delle sue linee sembra riassumere uno spirito ancora popolare, quasi una gaddiana e ingegneresca arte della meccanica che si imprime sui metalli e stampa la lamiera di pedane e carenature; ma il fatto è che un anno e mezzo prima della Lambretta era nata la sua concorrente diretta, la Vespa di Enrico Piaggio e dell'ingegner Corradino D'Ascanio. Fortunata, fortunatissima la Vespa, perché nessun prodotto italiano aveva mai avuto la fortuna di un colpo di marketing come il film del 1953 di William Wyler, Vacanze romane, in cui Gregory Peck e Audrey Hepburn avevano unito la loro bellezza sullo sfondo di una Roma incantata e incantevole, girando la capitale sui sellini dello scooter per eccellenza.
Troppo, troppo. Anche per il "paternalista" Innocenti, per il "capitano d'industria", il "pioniere", "l'osannato creatore di lavoro", era cominciata una rivalità che avrebbe contrassegnato un'epoca e una psicologia collettiva. Vespisti e lambrettisti. Ognuno convinto della superiorità implicita, connaturata, addirittura ontologica, ancorché probabilmente indimostrabile, del mezzo prescelto. Perché naturalmente lo scooter, in quegli anni Cinquanta, è un oggetto di fede. Si diventa, o meglio si nasce, lambrettisti o vespisti, mentre Ferenzi lancia il suo slogan irresistibile: "Vespizzatevi".
È vero che tutti i ragazzi di paese diffidano degli scooter. Sono in grado di recitare i nomi delle migliori moto di quell'epoca: sigle bellissime e silhouette molto romantiche: la veloce Mondial, la filante Morini, la solida Mi-val. E poi la bella e rossa Gilera, la ruggente Ducati di Borgo Panigale, poi la potentissima Laverda. E la Emmevì Agusta, l'Aermacchi, la Bianchi, la Benelli, e l'imbattuta veloce Parilla. I più esperti conoscono a memoria l'intero bestiario della Guzzi: lo Zigolo, lo Stornello, la Lodola, il Galletto, l'Astore, l'Alce, il Falcone. E non ignorano che ci sono anche ibridi, chimere fantastiche come il grintoso ma confortevole Galletto, mezzo scooter e mezzo motocicletta, la "moto dei preti".
Ma per restare al dualismo competitivo fra Lambretta e Vespa, bisogna dire che la prima, con quel nome che richiamava Lambrate, la Lombardia, il triangolo industriale, il Nordovest, viene sempre identificata con Milano. E quindi con una classe operaia che si sta evolvendo, accede ai nuovi consumi del sopravveniente miracolo. Ci si trova davanti alla "democrazia del motore", dicono i cinegiornali mostrando ministri che tagliano nastri e inaugurano raduni, mentre vescovi e cardinali benedicono l'Italia motorizzata.
Orgogliosi gli operai e i quadri della Innocenti, per i quali la forza della Lambretta, un milione di esemplari nei primi dieci anni di produzione, è la capacità continua di sperimentare soluzioni tecniche e di design. Soddisfattissime le nuove generazioni urbanizzate, che con quattro o cinque stipendi operai possono permettersi il lusso di apparire davanti al caffè e magari di invitare la ragazza, con il debito foulard sui capelli, per una promettente "scampagnata".
In effetti si fa fatica a tenere dietro alla diffusione dello scooter nordista: verrà esportato in centoventi paesi, prodotto in aziende dislocate nel mondo intero. Nel momento del massimo successo la Lambretta è anche un prodigio fordista: sulla linea di montaggio occorrono poco più di cinquanta secondi per assemblarla. Cento esemplari vengono forniti alle Olimpiadi di Roma del 1960, staffette dello sport mondiale e dell'Italia rinata, mentre lo scooter modificato per le alte prestazioni, carenato in modo tale da assomigliare a un siluro, batte i record di velocità, 202 chilometri orari sull'autostrada di Monaco di Baviera (e il Quartetto Cetra canta nella pubblicità il Lambret Twist, "Inventiamo qualche cosa che vi faccia strabiliar...", e giù rime sulla velocità).
Quanto ai pregi della rivale Vespa, i lambrettisti, a partire dai tecnici e dagli operai della fabbrica madre, minimizzavano, ridimensionavano, mugugnavano: bel congegno, bella macchina, ma ha sempre usato lo stesso "cofano", cioè la stessa forma esteriore. Senza cogliere, in questo, o perlomeno senza voler ammettere, che uno dei segreti della Vespa risiedeva proprio nell'avere incorporato nel prodotto industriale un elemento distinguibile di estetica: erano le forme dello scooter Piaggio, al di là del suo contenuto tecnico e motoristico, a risultare così affascinanti, con quelle curve al posto giusto, inevitabilmente allusive.
Sicché nel periodo della motorizzazione, dopo che le Seicento e le Cinquecento invadono città e strade, la Lambretta si ritrova in difficoltà. Anche la Innocenti prova a scommettere sull'auto, con alterne fortune. Il fatto è che la Lambretta non riesce a proporre altro che la propria funzionalità, mentre il nuovo mondo del consumo vuole anche feticci, un alone di bellezza, una "cultura" iscritta nel prodotto. Proprio ciò che la Vespa era riuscita a imporre nell'immaginario mondiale. D'altronde, tutti possono capire che c'è una differenza fra un testimonial come Gregory Peck, nella meravigliosa favola romana con la Hepburn, e una star cinematografica di secondo livello come il lambrettista Rock Hudson.
Ragion per cui la Lambretta si spegne (l'ultimo modello esce nel 1971), perché all'improvviso si ritrova fuori dal gusto, dalla tendenza, da un'idea di glamour. Non è inutile sottolineare che al suo tramonto diviene proprietà di una società indiana (Scooter India Ltd), che continuerà a produrla per venticinque anni: quasi un segno concreto che l'invenzione industriale di Ferdinando Innocenti era uno strumento perfetto per una fase di modernizzazione, il simbolo del massimo risultato con il minimo sforzo, la perfetta applicazione della tecnologia produttiva alle necessità di un tempo particolare, dove il risultato conta ancora più della forma.
Che poi ci siano ancora oggi club e gruppi di appassionati, che si disputano carburatori, pedane, manopole e vari pezzi di ricambio all'asta su eBay, non fa che confermare lo spirito del lambrettismo. Uno spirito fatto di efficienza e di solidità, di motori potenti, di funzionalità completa ed eclettica. Ancora oggi, chi predilige la Lambretta ama quell'eccezionale fusione di stile "povero" e di efficienza assoluta, senza nessun orpello, senza gadget stravaganti. E nel rivedere le vecchie versioni dello scooter, quel disegno che sembra un piccolo Beaubourg motociclistico, nella sua nudità di scatole e tubi, sembra di ritrovare l'immagine di un'epoca, e di risentire il rumore bellissimo e irripetibile di quando il nostro tempo andava a due tempi.
(7 ottobre 2007)
fonte: http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/cronaca/lambretta-italia/lambretta-italia/lambretta-italia.html
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