ALTRI POLITICI, ALTRE RAZZE. MA GLI ITALIANI SON SEMPRE QUELLI.
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10 giugno 2003
"Il Messaggero"
Caro signor Gervaso, la politica mi ha sempre appassionato anche se quella cui assistiamo oggi, dentro e fuori i Palazzi del potere, mi disgusta. Rimpiango i tempi di De Gasperi e di Togliatti, di Einaudi e di Saragat, di La Malfa e di Malagodi. Quelli, sì, che erano statisti, di cui l'Italia ancora oggi deve essere fiera. L'altro giorno, discutendo con alcuni amici variamente schierati, chi a destra, chi a sinistra, chi al centro, il discorso è caduto su Aldo Moro. I giudizi espressi su di lui (eravamo un decina di persone) sono stati molto contraddittori. Forse lei lo ha conosciuto ma, anche se non l'ha conosciuto, mi piacerebbe sapere la sua opinione su un uomo ucciso barbaramente dalle Brigate rosse.
Totò Bonura - Palermo
Risponde Gervaso
Caro Bonura, Moro l'ho visto una volta sola: un incontro casuale e di pochi minuti. Mi fece l'impressione di un uomo onesto e severo, educato e cortese, taciturno e pensoso. Ci scambiammo poche parole, e tutto finì lì.
Lei mi chiede un giudizio su di lui e io glielo do, ripetendo quello che in tante occasioni ho detto e scritto, attirandomi i moccoli e le censure dei suoi "amici", come tra loro si chiamavano i vecchi democristiani, specialmente quando si odiavano.
Il nostro è un Paese dove non si può parlare male di Garibaldi, di Fellini, di Pasolini, di Gianni Agnelli, di Aldo Moro, e di pochi altri mostri sacri o padri della Patria. Ma io non ho mai avuto peli sulla lingua e queste interdizioni non le accetto, memore della lezione dei miei due maestri Montanelli e Prezzolini.
E veniamo al defunto presidente della Dc, scannato come un cane dai brigatisti rossi, dopo cinquantacinque giorni di prigione "popolare". Colui che qualcuno ribattezzò il "Dottor Divago" o il "Pandit Moro", e che Montanelli liquidò come un generale che, "sfiduciato del proprio esercito, credeva che l'unico modo di combattere il nemico fosse quello di abbracciarlo", fu un politico molto fortunato e molto sfortunato. Molto fortunato perché dominò la Dc, assurgendone a nume tutelare, quanto, o più, di De Gasperi, cui incautamente laudatores servili lo hanno paragonato. Molto sfortunato perché, dopo aver condotto in porto il grande disegno clerico-marxista, che metteva insieme, sotto lo stesso tetto e nello stesso letto, democristiani e comunisti, l'ascetico Berlinguer e lo scialbo Zaccagnini, fu abbandonato al suo destino da chi aveva visto in lui l'uomo della Provvidenza.
La sua non fu, con buona pace dei nostalgici dell'inciucio, vera gloria. E non fu neanche martirio, esito tragico di una vocazione che mette nel conto torture e morte. Il professore di Maglie non fu un San Sebastiano né un Tommaso Moro. Fu la vittima del fanatismo feroce e visionario di deliranti utopisti. Non morì per un'idea. Morì per la ragion di Stato che lo voleva morto o, più democristianamente, non lo voleva vivo.
Fece di tutto per salvarsi e, fino alla fine, se ne illuse. Fece quello che al suo posto tanti altri avrebbero fatto. Ma che chi rappresentava la Nazione e lo Stato non doveva fare. Tragica ironia della sorte, a lasciarlo solo (ma che alternativa avevano?) furono gli stessi compagni di partito e di viaggio, che al suo posto avrebbero forse fatto come lui. Fu il Sacro Collegio di piazza del Gesù; fu il sinedrio del "Bottegone". Solo Craxi che, non riamato, non lo amava, cercò di dargli una mano, legittimando in questo modo - e fu un grande errore - i rapitori.
"Calvinista a rovescio (altro spietato marchio montanelliano), invece che nella predestinazione della grazia, Moro credeva in quella della disgrazia". Insomma, non fu uno statista, come oggi lo celebrano coloro che ieri non mossero un dito né un'unghia per lui. Non fu uno statista perché chiedeva allo Stato - lui, suo autorevole ed emblematico servitore - di genuflettersi davanti a chi lo voleva mettere in ginocchio. Non fu uno statista perché uno statista non scrive le lettere che lui scrisse. Lettere che mai sarebbero uscite dalla penna di un De Gasperi, di un Einaudi, di un Churchill, o di un De Gaulle. E, forse, nemmeno di un Fanfani.
Non fu uno statista né un leader, di cui gli difettavano il piglio e il cipiglio, il fascino, l'arte di sedurre e di trascinare. Fu un abile tessitore levantino e un astuto mediatore bizantino che, non credendo in nulla, o solo nel potere, pensò di conquistarlo, dilatarlo, consolidarlo, in un momento storico colmo di tensioni, in quei "formidabili" anni di sangue e di fango che squassarono una democrazia codarda e imbelle, rinunciataria e concussionaria, impudente e impunita. Il "Dottor Divago", invece di contrattaccare, si mise a elucubrare, spaccando il capello in quattro, avvolgendo in un sudario intriso di rosolio, cosparso di melassa, imbevuto di cloroformio un Paese che aveva bisogno di una corazza e di uno scudo e, absit iniuria verbis, di un gladio. Invece di vigorosi antibiotici, gli somministrò soporifere tisane e inerti placebi. Invece di affondare il bisturi nel bubbone, iniettò nelle vene del paziente dosi cavalline di pentothal, che gli valse il titolo di "massimo anestesista del secolo".
Scriverà di lui Giorgio Bocca sull'"Espresso" del 9 ottobre 1983: "Moro... un cattivo maestro... un grande insabbiatore... il prodotto magari raffinato, certo intelligente, ma quasi sempre in negativo, di una cultura cattolica, di un rapporto fra la Chiesa e lo Stato che ha permeato di sé il costume e il modo di essere degli italiani, sempre pronti a ridurre il morale a moralistico".
Come dargli torto?
1 commento:
Dell'articolo mi sento di sottoscrivere questa frase:
"Morì per la ragion di Stato che lo voleva morto o, più democristianamente, non lo voleva vivo."
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