di Umberto Maiorca
«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senzasperanza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza»1. Il 4 novembre 1918 si concludeva,per gli italiani, la Prima Guerra Mondiale. Un conflitto che gli interventisti avevano salutato come la Quarta Guerra d’Indipendenza, vedendovi il compimento e la conclusione del Risorgimento, con il raggiungimento dei confini naturali e la liberazione degli italiani ancora sotto il dominio degliAsburgo.
Una guerra che fu, comunque, una prova durissima, superata da una nazione unita da poco più di cinquant’anni, non senza difficoltà e con un costo in vite umane altissimo: 650.000 morti, un milione tra mutilati e invalidi. Papa Benedetto XV la definì, a più riprese, «flagello dell’ira di Dio»2; «orrenda carneficina che disonora l’Europa»3; esternando preoccupazione per un mondo «fatto ospedale e ossario»4; “il suicidio dell’Europa civile» e «la più fosca tragedia dell’odio umano edell’umana demenza»6 per arrivare, infine, all’invito di cessare da «questa lotta tremenda, la quale,ogni giorno più, apparisce inutile strage»7
Finita la guerra per Benedetto Croce la vittoria «è venuta piena, sfolgorante e, quel che è meglio, meritata». Le riflessioni di Croce alla fine della guerra mondiale, però, rispecchiano anche uno stato d’animo che era in tutti coloro che vi avevano preso parte, in maniera diretta o meno. Era la pietosa memoria dei morti, quel sentimento che si stava diffondendo in tutta Italia e che dava luogo, fin nei borghi più sperduti, all’innalzarsi di monumenti ai caduti. Statue di marmo e targhe di bronzo ricordavano il sacrificio di chi era morto combattendo per l’Italia. Tra il 1918 del 1921, quindi, si passò dall’aperto bellicismo, dall’esaltazione della guerra e della vittoria, al mito dei caduti; ad un ripiegamento interiore, vedendo la guerra non solo come completamento dell’Unità d’Italia, ma come una tragedia di tutti, anche degli sconfitti, la cui morte non poteva considerarsi inutile. Nel 1921, quindi, venne presentato al Parlamento italiano un disegno di legge per “trasportare solennemente a Roma i resti di un Caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a Loro e a seicentomila fratelli”.
Il 24 maggio del 1915 il paese aveva dichiarato guerra agli Imperi Centrali, pur essendo diviso fortemente tra interventisti e neutralisti. Divisioni che erano state fortemente attenuante dalla sconfitta di Caporetto e dalla volontà di non cedere di fronte al nemico e che, nel 1918, saranno cancellate dalla Vittoria. Alla fine del conflitto, portati a termine i festeggiamenti, molti italiani,soprattutto, madri e mogli piangono ancora i propri cari, caduti sui vari fronti. Tra queste molte non hanno neppure una tomba su cui posare un fiore.
Caduti senza nome e corpi mai ritrovati erano,infatti, all’ordine del giorno tra le trincee e il filo spinato della prima linea. Per cercare di lenire il dolore di queste donne e, soprattutto, con l’idea di onorare le migliaia di caduti attraverso l’uso simbolico della salma di un solo combattente anonimo prese corpo in tutte le nazioni che avevano partecipato al conflitto. In Italia la proposta fu lanciata dal colonnello Giulio Douhet il 24 agosto1920. L’idea non piacque per nulla allo Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano. Non piacque perché proponeva un vero e proprio capovolgimento della storia, della politica, dell’ordinamento sociale e dell’idea risorgimental-sabauda, dell’Unità d’Italia raggiunta attraverso solo i propri capi e non attraverso i soldati che avevano combattuto (quella stessa idea che non faceva considerare il numero di perdite per conquistare qualche metro di terra di nessuno).
In secondo luogo, attribuire la vittoria non più al condottiero, al capo, ma al soldato e, in particolare, a quello di cui non si conosceva né il valore né il nome era in netto contrasto con le basi stesse del regime politico al potere. Per questo lo Stato Maggiore non vedeva di buon occhio una proposta che capovolgeva imeriti dal generale al fante.
L’idea, invece, piacque molto ai socialisti. Sull’“Avanti” venne scritto che «il milite ignoto era certamente un figlio del popolo un proletario e che tutti avrebbero dovutorendergli omaggio senza che questo risultasse un’esaltazione della guerra»8.
L’invito del giornale si chiudeva con: «onoratelo maledicendo la guerra»9. La proposta fu, comunque, approvata e l’esercito inviò 6000 soldati, 150 ufficiali, 35 cappellani militari e 700 soldati a setacciare tutto l’arco alpino per dare degna sepoltura ai caduti. Vennero eseguite 200.000 tumulazioni; 2000 di soldati senzanome. A questo punto venne anche scelto il luogo ideale dove celebrare il soldato, non il condottiero. Sarebbe stato l’Altare della Patria, proprio ai piedi della dea Roma. Per scegliere la salma venne eseguita una ricognizione in tutti i luoghi dove si era combattuto e furono selezionate undici spoglie.
Già negli anni di guerra la maggior parte dei caduti era stata trasportata nelle retrovie, ove erano sorti i primi cimiteri, contrassegnati da paletti e croci, da nomi incisi sul legno dalla pietà dei compagni. In diversi villaggi alpini le popolazioni ottennero di mantenere intatti in custodia i piccoli cimiteri militari ai quali si erano affezionati e per i quali promettevano assidua cura. Dall’arco alpino al mare, per centinaia di chilometri, una costellazione di cimiteri raccoglieva la sacra testimonianza del sacrificio offerto dai soldati italiani durante gli anni di guerra.
La commissione per la designazione del Milite ignoto era costituita da un generale e un colonnello, da un tenente mutilato e da un sergente decorati di medaglia d’oro, da un caporale maggiore e da un soldato semplice decorati di medaglia d’argento. Tutto l’esercito era rappresentato. La commissione partì dallo Stelvio per scegliere una salma per ciascuna delle zone di Rovereto, Dolomiti, Altipiani,Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele e da Castagnevizza fino al mare, in rappresentanza dei caduti dei reparti da sbarco della Marina. Le salme ignote erano raccolte in campi speciali e distinte da un numero. I foglietti venivano mescolati e un membro della commissione ne estraeva uno. Se durante la dissepoltura appariva un elemento che potesse portare all’identificazione, anche parziale del caduto, le spoglie venivano sotterrate. Il triste compito si concluse nella zona del Carso e del fiume Timavo dove la salma di un soldato con le gambe spezzate e il capo perforato venne rinchiusa in una cassa di legno identica alle altre dieci che custodivano le spoglie già raccolte.
A Udine, dietro gli affusti di cannone sui quali vennero trasportate le bare avvolte nel tricolore,c’erano centinaia di madri e di vedove. Dovunque le salme passarono, la commozione dilagò e il popolo si affollò a gettare petali di fiori. Le salme vennero poste nella chiesa accanto al Castello e circondate da una ringhiera di vecchi moschetti raccolti nelle trincee. A Gorizia, per accogliere le bare, venne scelta la chiesa di Sant’Ignazio, devastata dalle granate, con la statua del santo decapitata e mutilata. Dinanzi ai feretri la popolazione sfilò giorno e notte per otto giorni per recitare il rosario. Il 26 ottobre il corteo mosse alla volta di Aquileia, mentre le salve del cannone tuonavano e un cappellano militare benediceva le salme. L’itinerario dovette essere allungato, poiché molti sindaci richiesero che le salme transitassero per ricevere il saluto delle popolazioni. Il 27 ottobre del 1921 le salme raggiunsero la basilica di Aquileia.
La Canzone del Piave intonata dagli alunni delle scuole elementari accolse il corteo. Le bare vengono portate in cattedrale da madri di caduti, da combattenti e mutilati. Le accolse un mazzo di undici crisantemi. Era stato inviato da Ines Meneguzzo, una bambina di sei anni, che non ricordava il papà, partito per la guerra quando era troppo piccola. C’era anche un biglietto: “Chissà che questi fiori vadano al mio papà, che morì e non fu ritrovato”. Le urne erano identiche, contenenti i resti dei militi ignoti, coperte con la bandiera. Furono anche scambiate di posto per attribuire la scelta solo al fato e alle mani di una donna, una madre che non aveva più rivisto il figlio da quando era partito per il fronte. Anche in questa scelta si cercò di dare un segno simbolico e fu scelta una donna di Trieste; si chiamava Maria.
1Bollettino della Vittoria del generale Armando Diaz.
2Messaggio dell’8 settembre 1914.
3Messaggio del 28 luglio 1915.
4Appello di Natale del 1915.
5Messaggio del 4 marzo 1916.
6Messaggio del 31 luglio 1916.
7Messaggio del 1 agosto 1917.
8L’Avanti del 27 ottobre 1921.
9Ibidem.
fonte: http://www.drengo.it/sm/11/maiorca.milite.pdf.
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1 commento:
Di un soldato che combatte per seguire un ordine e non per scelta, si può dire solo «onoratelo maledicendo la guerra»
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