UN PO' DI STORIA PATRIA
Quest'anno si celebra il bicentenario della nascita di Giuseppe GARIBALDI, l'eroe dei due Mondi.
Abbiamo pensato di farlo anche noi, inserendo un "pezzo" sulla sua opera più famosa (ma forse non tanto, solo i veri bibliofili ormai conoscono questo raro volume), I Mille.
Anche questo è un pezzo di storia patria importante, che meriterebbe di essere meglio conosciuta ed approfondita, con gli strumenti critico-storici di oggi.
Una volta di più, si evince come le rivoluzioni non le avvii il "popolo", anche se, perché diventino "realmente" tali, tocchi poi al popolo portarle a compimento.
Buona lettura!
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(uno scomodo e polemico libro dell'Eroe dei due Mondi)
L'opera "I MILLE" fu scritta da Giuseppe Garibaldi dieci-dodici anni dopo la sua famosa impresa, quindi all'incirca dal 1870 al 1872, come del resto si rileva dalle affermazioni stesse dell'Autore nel testo, dalle sincrone situazioni politiche internazionali ivi accennate, e da una lettera che Garibaldi inviò a Riboli il 20 febbraio 1872, nella quale gli dà notizia che il manoscritto è pronto per la stampa.
Da Caprera Garibaldi vi aggiunse il 21 gennaio 1873 la prefazione "Alla Gioventù italiana".
Rifiutata da vari editori per l'aspro contenuto, in certi casi fortemente irriverente (nei confronti della Francia, dei preti, dei mazziniani, di tutti e di tutto), l'opera, solo tramite una sofferta (con grande delusione di Garibaldi) sottoscrizione, fu pubblicata (la prima ed unica volta fino al 1933) l'anno dopo, nel 1874 in pochi esemplari (4322), con i tipi di Camilla e Bertolero di Torino. I volumi riportano in fondo in stampa in ordine alfabetico tutti i nomi dei sottoscrittori, le copie acquistate ed il rendiconto dell'operazione:
(l'esemplare che possediamo, qui riprodotto, è quello sottoscritto e quindi appartenuto al Dott. Riboli Timoteo di Torino)
Per quanto quindi fosse un'edizione privata per i soli sottoscrittori, ciò nonostante la sua uscita suscitò vivacissime ed aspre polemiche. Sono pagine politiche scritte con una vena di ribellione che ha tutto l'impeto di una forza naturale che prorompe e quindi non conosce misura; un Garibaldi con l'animo amareggiato, sferzante, spesso irriverente, che insorge contro i preti, contro i conservatori, contro la monarchia, contro Mazzini, contro tutti e tutto, infine contro l'ordinamento sociale, ch'egli considera fondato su l'ingiustizia e sulla violenza.
Anche lui - più tardi - convenne che il suo livore nel libro aveva passato il segno.
60 anni dopo, nel 1933, il manoscritto originale fu poi donato munificamente da Donna Clelia Garibaldi all'Archivio del Museo del Risorgimento.
Nella solitudine pensosa di Caprera egli sfogò sempre nei suoi scritti con rudi espressioni l'amarezza dell'animo esacerbato da pungenti ricordi e dall'umiliazione di vedere l'Italia ben diversa da quella che aveva sognato. Insofferente dei compromessi della politica, indignato dalla corruzione del mondo parlamentare, deluso dalla litigiosità e dalla debolezza dei governi della sinistra. Quando darà le dimissioni da deputato scrisse alla redazione del giornale romano "La Capitale" di non voler "essere tra i legislatori di una paese dove la libertà è calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti ed ai nemici dell'Unità d'Italia". " Tutt'altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all'interno e umiliata all'estero".
Con orizzonti sempre più larghi, lasciò spaziare la mente su problemi interessanti tutta Europa e la vita politica, morale e religiosa di tutti i popoli: il senso amoroso della fratellanza umana, la simpatia viva per le classi lavoratrici, il desiderio che le associazioni democratiche si unificassero, l'aspirazione ad una repubblica federale, la redenzione degli umili, la emancipazione del lavoro, il suffragio universale.
E questo, a parte le irriverenze contenute, ci sembra, l'alto insegnamento morale che sgorgando luminosamente dagli scritti di Giuseppe Garibaldi, ne assicurano la perenne vitalità.
La genesi di quest'Opera risale alle aspre polemiche seguite alle pubblicazioni del "Diario privato-politico-militare" del Persano, dell'"Epistolario" di Giuseppe Farina e dell'opuscolo scritto dal Bertani in risposta a quest'ultimo: "Ire politiche d'oltre tomba". Questi tre scritti provocarono lo scatenarsi delle passioni di parte di un'infinità di articoli editi in varie pubblicazioni periodiche. Uno di questi articoli segnalato a Garibaldi probabilmente dal Canzio, nel solitario esilio di Caprera, gli suggerì prima lo scritto già visto nella prima parte delle Memorie ("Ai miei concittadini" - il quale non è altro se non un'appassionata requisitoria contro Mazzini), poi la stesura de " I Mille", perchè ci si accaniva su quell'impresa dei Mille, che anche per alcuni suoi contemporanei aveva solo il sapore di una pittoresca leggenda; e poichè i fattori prima di essa furono Garibaldi e Mazzini, le loro figure assunsero l'importanza di segnacolo in vessillo nella contesa assai aspra.
Si aggiunga a questi elementi di discordia il dibattito, assai ardente agli albori del socialismo in Italia e sulla questione sociale. Inoltre intorno all'anno 1870 la recrudescenza dell'anticlericalismo in Italia toccò l'apice; mentre invece il mazzinianismo era al suo tramonto, non come dottrina ma come prassi politica. (Garibaldi in Inghilterra nello stesso 1870, concepì e pubblicò un irriverente "Romanzo" Storico Politico - CLELIA: IL GOVERNO DEI PRETI ( anche questo lo riportiamo integralmente su questo stesso sito a partire dal 1° gennaio 2007).
Nel 1870, si arrivò a questo assurdo: che Mazzini per ragioni spirituali combatteva i difensori della Comune parigina, ed i garibaldini materialisti esaltavano gli insorti perché si battevano per un'idea, perchè il popolo di Parigi "in sostanza, combatte eroicamente per i suoi diritti". Questo il giudizio di Garibaldi in una lettera al Petroni, dove chiarisce le ragioni della sua adesione (lui che aveva drammaticamente combattuto i francesi a Roma!) e ci fa comprendere come egli abbia potuto, nell'Opera "I Mille", identificare l'Internazionale, con una società perfetta "che ha l'audacia di voler la fratellanza di tutti gli uomini a qualunque nazione essi appartengono, che non vuole preti, non eserciti permanenti, non caste privilegiate".
Il nome di Garibaldi in questi anni, era una bandiera per molti transfughi mazziniani; e del fascino che sempre ne emanava, non poco conto fecero i fautori dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori e Bakounin stesso, per tentare di gettare nella penisola italiana le fondamenta del movimento sociale della sinistra radicale, oltr'alpe già possente.
La sua camicia rossa divenne pure una bandiera, l'emblema ufficiale dei repubblicani, in risposta alla nuova bandiera nazionale dopo l'entrata nel 1870 delle truppe regie in Roma che iniziarono ad adottare sì il tricolore (che ricordiamo nacque dopo la rivoluzione francese prima in Francia e poi in Italia - a Reggio Emilia nel 1897 - con la prima Repubblica Cisalpina napoleonica) ma con al centro lo stemma sabaudo, snaturando così il vessillo repubblicano.
E con l'emblema del vessillo rosso nacque anche la canzone "Bandiera Rossa": "Avanti o popolo, alla riscossa, Bandiera rossa, Bandiera rossa Avanti o popolo, alla riscossa, Bandiera rossa trionferà" .... ecc. ecc.
MA CHI ERANO I MILLE?
La lista con 1089 persone fornita dal Ministero della Guerra fu pubblicata nel 1864, dal Giornale Militare come risultato di un'inchiesta istituita dal Comitato di Stato. Questo comitato fu creato per determinare quanti e chi erano i reali partecipanti a quella storica spedizione e come avvenne lo sbarco l'11 maggio del 1860 in Marsala.
Per la maggior parte i volontari erano Lombardi 434, Veneti 194, Liguri 156, Toscani 78, Siciliani palermitani 45, Stranieri 35; pochissimi i piemontesi, poco più di una decina. Altri 26 erano i siciliani di vari paesi e città dell'Isola.
La composizione sociale: 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti, circa 500 ex artigiani, ex commercianti. E una sola donna (la moglie di Crispi).
Di popolino o contadini, quasi nessuno. La composizione politica era una sola, quella di sinistra repubblicana, mentre quella sociale, quasi la metà erano professionisti e intellettuali, l'altra metà artigiani, affaristi, commercianti, qualche operaio. Comunque tutti avevano alle spalle delle esperienze cospirative; alcuni erano reduci dei Cacciatori delle Alpi, o ex appartenenti al "BATTAGLIONE DELLA MORTE", e c'erano alcuni siciliani e no che avevano avuto sull'isola o in altre regioni meridionali, noie con la giustizia (famosi i due della grande truffa del lotto in Sicilia, che inseguiti dalla giustizia borbonica, si rifugiarono proprio a Quarto, e rientrarono sull'isola con la spedizione. Uno ci morì, l'altro più tardi si suicidò).
Al corpo dei volontari fu dato in un primo tempo il nome di "Cacciatori delle Alpi".
Furono divisi in sette compagnie, comandate da BIXIO, VINCENZO ORSINI, FRANCESCO STOCCO, GIUSEPPE LA MASA, FRANCESCO ANFOSSI, GIACINTO CARINI e BENEDETTO CAIROLI; il comando dei carabinieri genovesi fu dato ad ANTONIO MOSTO, all'intendenza furono messi ACERBI, BOVI, MAESTRI, RODI, allo Stato Maggiore CRISPI, MANIN, CALVINO, MAJOCCHI, GRIZIOTTI, BOCCHETTE, BRUZZESI, con a capo SIRTORI; furono scelti come aiutanti di campo il TURR, CENNI, MONTANARI, BANDI, STAGNETTI e come segretario il generale BASSO.
GARIBALDI salì a bordo del "Piemonte", di cui era pilota il siciliano SALVATORE CASTIGLIA, mentre BIXIO ebbe il comando del "Lombardo".
Per quanto riguarda le presenze straniere, spesso taciute dalla storia ufficiale e dai testi scolastici, inglese era il colonnello Giovanni Dunn, così come inglesi furono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome, Giuseppe Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell'italiano Specchi). Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody. Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La legione ungherese divenne preziosa per l'occupazione della Sicilia e per tante battaglie. La "forza" dei "volontari" polacchi aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i turchi spicca Kadir Bey. Fra i bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza si deve ricordare Wolff, al quale fu affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone.
Tra le curiosità che possono essere desunte dalla lista dei nomi e le date, vi è il numero dei caduti. In totale sono circa 80. Di cui, a Calatafimi, 34.
Fonte: http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/garibal4.htm
3 commenti:
Ah! Se Peppino Garibaldi avesse accettato l'invito dei Comunardi parigini che lo volevano a capo della Comune, probabilmente sarebbe morto sulle barricate...ed oggi ce lo ritroveremmo sulle T-shirt, come Guevara.
Infatti mi aspetto che qualcuno si metta a lucrare anche in questa occasione. Grazie, dunque, a "Solleviamoci" che rimette la sua figura nella giusta prospettiva storica.
Grazie a te, equo, per essere così sollecito e puntuale.. Giuseppe avrà avuto molti difetti, ma non gli mancava certo la coerenza. Quanto al lucrare, ahimè, l'uomo non si smentisce mai.
A proposito di lucrare :-): io ed Elena volevamo invitarti a collaborare con noi, tempi e modi tuoi permettendo, e pubblicare qualche tuo post.. Facci sapere!
"...l'animo esacerbato da pungenti ricordi e dall'umiliazione di vedere l'Italia ben diversa da quella che aveva sognato. Insofferente dei compromessi della politica, indignato dalla corruzione del mondo parlamentare, deluso dalla litigiosità e dalla debolezza dei governi della sinistra."
...che strana sensazione di Deja-Vu...e povero Garibaldi.
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