ROMA (7 agosto) - L'attentato di via Rasella del 24 marzo 1944 contro i tedeschi del battaglione Ss Bozen, attuato dai partigiani guidati da Rosario Bentivegna, fu un "legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente dei militari". Lo sottolinea oggi la Corte di Cassazione, con la sentenza 17172 della Terza sezione Civile, confermando la condanna al risarcimento per diffamazione (45 mila euro) nei confronti del quotidiano Il Giornale che, nel 1996, aveva pubblicato articoli denigratori, con fatti non veri, dei gappisti e di Bentivegna.
La Cassazione ricorda (fatto emerso nel processo del 2003 alla Corte di Appello di Milano) che non era vero che i poliziotti tedeschi fossero "vecchi militari disarmati", come invece sostenuto dal Giornale. Erano invece "soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole". Non era poi vero che il Bozen "era formato interamente da cittadini italiani", perché "facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica".
Il quotidiano milanese ha falsato anche la "triste contabilità dei morti", perché, ricorda la Cassazione, "ora nessuno più mette in discussione" che le vittime civili furono due e non sette. Non era poi vero che subito dopo l'attentato (33 morti) "erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie", asserzione che trova "puntuale smentita nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era iniziata circa 21 ore dopo l'attentato, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta".
Dunque, scrive la Cassazione, tutti questi fatti "non rispondenti al vero" non possono essere considerati "di carattere marginale" e in maniera "motivata" la Corte di Appello di Milano ha riconosciuto che si sarebbero potute esprimere "dure critiche sulla scelta dell'attentato, l'organizzazione, i suoi scopi". Ma, ciò premesso, è legittimamente da ritenersi "lesiva dell'onorabilità politica e personale" di Bentivegna "la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l'ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all'attentato di Via Rasella e l'assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna".
fonte: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=6654&sez=HOME_INITALIA
...Ricordo di Pasquale Balsamo
uno dei Gap di via Rasella
“Pasquale Balsamo, audacissimo studente diciannovenne, fu arrestato e successivamente liberato credendo che appartenesse a una banda di rapinatori. Essendo anche uno degli autori dell'agguato a via Rasella avrei fatto il mio dovere a farlo fucilare…”
Così racconta Kappler, il boia delle Ardeatine, a Renzo Di Mario, comandante del carcere militare di Gaeta ove Kappler era ristretto, insieme a Reder, il boja di Marzabotto (v. Renzo Di Mauro, "Orrore e Pietà", ed. Sovera, Roma, 1999, pag. 218). E' noto infatti che i rapinatori non disturbavano le operazioni belliche e poliziesche della Grande Germania (anzi…).
Il rammarico di Kappler di non aver potuto compiere quest'altro assassinio, e l'esternazione pubblica del suo odio personalizzato, vale più di una medaglia d'oro.
Pasquale era un ragazzino di 19 anni, quel giorno, a via Rasella, ma si era già distinto in numerose azioni di guerriglia nella città come comandante del Gruppo di Azione Patriottica "Sozi", uno dei GAP Centrali delle formazioni Garibaldi di Roma, diretti prima da Antonello Trombadori, poi da Carlo Salinari e Franco Calamandrei, strutture del Comando Garibaldino Centrale dell'Italia centrale, diretto da Giorgio Amendola, rappresentante del PCI nel CLN Nazionale e nella Giunta Militare Nazionale del CLN.
Era intelligente, spiritoso, vivace, allegro. In via Rasella, ebbe il compito di collegamento tra i comandanti Salinari e Calamandrei, le staffette che presidiavano il percorso dei nazisti, gli elementi di copertura e di appoggio ai i due gruppi di fuoco che intervennero nell'agguato alla 11a Compagnia del 3° Battaglione dello SS Polizei Regiment Bozen.
Il Reggimento Bozen era costituito da volontari che avevano preferito (dopo l'annessione della provincia di Bolzano al 3° Reich, il 1° ottobre del '43), entrare in quel corpo specializzato antipartigiano, piuttosto che nella Wermacht, evitando così spostamenti su più lontani e pericolosi fronti di guerra, e ottenendo anzi un "soldo" più consistente: fu addestrato specificamente in funzione di repressione antipopolare (rastrellamenti, persecuzioni, feroci rappresaglie in molte parti d'Italia, soprattutto al Nord (Istria, Bellunese, Agordino, ecc.). La 11a compagnia, annientata dai partigiani romani il 23 marzo del '44 in via Rasella, doveva entrare in funzione nel Lazio il giorno successivo: non fece in tempo. Contrariamente alle loro abitudini, quel giorno i tedeschi ritardarono ad arrivare. Io ero lì, alle 14 in punto, pronto ad aprire il fuoco, non appena Cola (Franco Calamandrei) me ne avesse dato il segnale: ma il tempo passava, non i minuti. Ma le mezze ore, un'ora, un'ora e mezza… e che cavolo!
Ogni tanto Pasquale mi passava vicino: un sorriso, una ammiccata e via…. Ma non il segnale. Accadde due volte, tre: alla terza volta (erano ormai le 3, 45 del pomeriggio, Pasquale mi bisbigliò: “Se per le 4 non sono venuti, prenditi il carrettino e vieni via”.
“Dove?”, gli risposi. “Dietro uno di noi”. Bell'affare, pensai, tornare a girare per Roma, mezz'ora prima del coprifuoco, con 18 chili di tritolo nel carretto…. Poi, invece, venne il segnale, e alle 15, 52 la mia miccia si accese ed aprii i fuoco….
Pasquale era ritornato in basso, verso il gruppo di Comando, e vide arrivare i tedeschi mentre un gruppo di ragazzini, correndo, si addentravano verso via Rasella prendendo a calci una palla. Come un razzo si buttò in mezzo al gruppetto e dette un calcio alla palla buttandola lontano verso il Tritone: “A fjo de na mignatta”, gli urlarono contro i ragazzini, buttandosi incazzati dietro la palla e lontano dal pericolo.
L'organizzazione si mosse, e i compagni cercarono di avvisare la gente ad allontanarsi, perché “i tedeschi potevano essere pericolosi”. Anch'io avvisai qualcuno, che si squagliò subito prima e subito dopo aver dato fuoco alla miccia. Il resto è noto.
Il 4 giugno arrivarono gli Alleati, e i miei compagni, traditi da Guglielmo Blasi qualche settimana dopo via Rasella, non furono fucilati quella mattina, così com'era stato stabilito. Ma il plotone d'esecuzione continuò a crepitare, in Forte Bravetta, fino alla mattina del 3. Ma la guerra non era finita. Continuammo a combattere: alcuni di noi furono paracadutati al Nord o su altri fronti di guerra. Pasquale, insieme ad altri compagni, si arruolò nella Brigata d'Assalto Cremona e combattè sul fronte del Senio, da Ravenna fino alla liberazione di Venezia, il 27 aprile del '45.
Pasquale, per il suo coraggio e la sua iniziativa, ha ottenuto dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, su proposta del Presidente del Consiglio De Gasperi, una medaglia di bronzo e una croce di guerra al valor militare.
La sua storia non finisce qui. Entrò all'"Unità", subito dopo il congedo, come cronista; divenne capocronista, notista politico ed ivi rimase fino al 1961. Continuò la sua brillante carriera di giornalista nell' ACI, prima come redattore capo e poi come direttore della rivista dell'ACI, "l'Automobile", fino all'86.
Impostò e diresse per l'ACI, in accordo con la RAI, la rubrica radiofonica "Onda verde", dedicata ai problemi della circolazione e del traffico, e ha diretto fino a ieri una pubblicazione trimestrale dell'ACI dallo stesso titolo, "Onda Verde", dedicata ai problemi dei trasporti, dell'ambiente e del trafico. Tra le pubblicazioni per l'ACI ricordo il libro "Viaggiare in Autostrada", del '65. Per la stessa ACI ebbe anche incarichi importanti per la gestione delle pubbliche relazioni, per l'organizzazione e la conduzione delle Conferenze sul traffico di Stresa e per ogni iniziativa del genere. Nel '68, per gli Editori Riuniti, ha prodotto un'intervista a Umberto Terracini sul tema: "Come nacque la Costituzione - Storia inedita dell'Assemblea Costituente".
(a cura di Rosario Bentivegna, Liberazione, 5-10-05)
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"Sulla Resistenza romana e sulle vicende di via Rasella si sono dette troppe sciocchezze. Anche a sinistra"
di Rosario Bentivegna
Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza . Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioò che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11a compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen "fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere" (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante)
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 - il 5% - si iscrissero al P.F.R.).
I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e "schizzati".
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di "intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60): "Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica", che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma - anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) - è stata all'avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.
Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "citt� aperta"!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l'uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie", tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta.....più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!... più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120....
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d'Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che � difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro "L’Ordine � stato eseguito" ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari.
Guerra di liberazione nazionale
La nostra è stata una "guerra di liberazione nazionale", la guerra di tutti gli italiani per la libertà e per la democrazia: furono i collaborazionisti dell'invasore che cercarono di trasformarla in guerra civile, ma ci riuscirono solo in parte perché la grande maggioranza degli italiani li respinse insieme ai loro protettori e padroni nazisti.
Del resto anche i dirigenti politici e militari di Salò, ma anche i tedeschi, sapevano molto bene come stavano le cose, altrimenti le feroci rappresaglie messe in atto nelle città, e quelle ancor più feroci e indiscriminate compiute sui monti e nelle campagne non avrebbero avuto motivo contro una popolazione schierata in qualche consistente misura dalla loro parte.
Due canzoni, una delle brigate nere e una delle brigate partigiane, ricordano in modo emblematico il clima in cui vivevamo: "Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera" cantavano i fascisti; e dall'altra parte: "Ogni contrada è patria di un ribelle / ogni donna a lui dona un sospiro" cantavano i partigiani.
Basti ricordare, per chi c'era, l'atmosfera di cupo infinito silenzio della nostra città, delle nostre contrade, deserte nei mesi dell'occupazione, e l'esplosione improvvisa di gioia, affollata, urlata, felice, che accolse le forze militari anglo-americane.
Eppure è sempre più frequente che la nostra guerra di liberazione venga ricordata come guerra civile. Fa parte di una delle brecce che il revanscismo fascista è riuscito ad aprire nella memoria corrente.
(da "la RINASCITA della sinistra", 18 ottobre 2002, pagg 28-29)
3 commenti:
...e che cavolo! Finalmente un punto fermo. Fa sempre bene ribadire verità ovvie, di questi tempi.
Colgo l'occasione per riconsigliarvi lo stupendo monologo di Ascanio Celestini "Radio Clandestina", basato sul libro di Alessandro Portelli "L'ordine è già stato eseguito".
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