"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

mercoledì 9 maggio 2007

I segreti di Via Gradoli e la morte di Moro












I consigli degli americani: "Moro non doveva parlare"


Anche noi vogliamo ricordare il delitto Moro.. ormai si è detto tutto (almeno, quello che "volevano" farci sapere), o quasi. I misteri sono ancora tanti, tuttavia l'articolo che segue getta qualche luce sulle troppe ombre che ancora permangono.

Sergio Flamigni. I segreti di Via Gradoli e la morte di Moro

SERGIO FLAMIGNI (Forlì, 1925) ha aderito al Pci clandestino nel 1941, e durante la Resistenza è stato Commissario politico della 29ª Brigata Garibaldi Gap “Gastone Sozzi’’. Nel 1952 segretario Cgil della Camera del Lavoro di Forlì, nel 1956 segretario della Federazione comunista di Forlì, nel 1960 Segretario regionale dell’Emilia Romagna. Parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, ha fatto parte delle Commissioni d’inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia.

Un libro imperdibile: Il covo di Stato –Via Gradoli e il delitto Moro - La strana scelta di “Mario Borghi” e la scoperta pilotata del covo. Da via Gradoli al Lago della Duchessa; al covo di via Montalcini; alla tipografia di via Foà; alla base di Firenze; al Ghetto ebraico; allo scandalo dei fondi riservati del Sisde. Le prove documentali che la base Br di via Gradoli era un “covo di Stato”.

Un agente del Sismi, compaesano di Moretti, in via Gradoli
Flamigni rivela che al 89 di via Gradoli, nell’edificio di fronte al civico 96 dove c’era il covo-base delle Br morettiane, prima e durante il sequestro Moro abitava il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani. Il Montani aveva due particolarità: era un agente del Sismi, e proveniva da Porto San Giorgio (era dunque compaesano del capo brigatista Mario Moretti, nato a Porto San Giorgio nel 1946). Durante il sequestro Moro, il 31 marzo 1978, lo stesso contrammiraglio Fulvio Martini (allora vice direttore del servizio segreto militare) intervenne a favore del Montani in seguito a un esposto presentato ai carabinieri da alcuni inquilini del condominio di via Gradoli 89, i quali lamentavano di avere subito vessazioni da parte del sottufficiale.

L’ingegner Ferrero e il capo delle Br
Flamigni ricostruisce le vicende relative all’appartamento utilizzato da Moretti per la base-covo. A partire dallo stranissimo contratto d’affitto stipulato in fretta e furia nel dicembre 1975 dai proprietari dell’immobile, i coniugi Giancarlo Ferrero e Luciana Bozzi, con l’inquilino “Mario Borghi” alias Mario Moretti: un contratto privo delle date di stipula e di decorrenza, che non venne registrato, e firmato solo da Luciana Bozzi (benché l’appartamento fosse intestato anche al marito, e fosse stato lo stesso Ferrero a compilarlo). Il capo delle Br utilizzava anche il box-auto nel garage di via Gradoli 75 di proprietà dei coniugi Ferrero, ma questo nel contratto d’affitto non risultava. Né i locatori sono stati in grado di dimostrare quanto l’inquilino Borghi-Moretti pagasse di canone d’affitto, e neppure se lo pagasse regolarmente.
Flamigni ricostruisce poi la brillante carriera dell’ingegner Ferrero negli anni successivi al 1978; come facoltoso e potente manager di informatica e telecomunicazioni, con incarichi richiedenti il Nos (“Nulla osta di sicurezza”, la speciale autorizzazione - rilasciata dalle autorità Nato, previo parere favorevole dei servizi segreti italiani – che permette di svolgere attività nei settori strategici per la sicurezza nazionale e atlantica). Oggi l’ingegner Giancarlo Ferrero siede nel consiglio di amministrazione della Omnitel Pronto Italia, a fianco del presidente della Telecom Roberto Colaninno. Dal 1° gennaio 1999 è anche amministratore delegato della Bell Atlantic International Italia srl, filiale italiana della grande multinazionale americana di servizi e prodotti nel settore delle telecomunicazioni – servizi e prodotti che riguardano anche il settore degli armamenti Nato e la stessa sicurezza nazionale.

Contatti Br-Sismi a Firenze
Nel libro si racconta che il 3 marzo 1993, a Firenze, in un monolocale di via Sant’Agostino 3, vennero casualmente trovate armi da guerra e munizioni: il defunto padre del proprietario dell’immobile, il marchese Alessandro Pianetti Lotteringhi della Stufa, molti anni prima aveva messo quel monolocale a disposizione di Federigo Mannucci Benincasa, capo centro di Firenze del Sismi negli anni dal 1971 al 1991. Dal processo (sentenza del Tribunale di Firenze del 23 aprile 1997) è poi emerso che il centro Sismi di Firenze stabilì un collegamento con una fonte informativa brigatista nel periodo in cui le Br preparavano il sequestro Moro; che quel contatto fu attivo durante tutto il periodo del sequestro, mentre a Firenze era riunito in permanenza il Comitato esecutivo Br che dirigeva l’operazione; e che quel contatto si interruppe solo nel 1982. L’identità del brigatista informatore del Sismi non è mai stata resa nota, ma Flamigni ipotizza che potrebbe trattarsi del criminologo Giovanni Senzani, il quale abitava in Borgo Ognissanti, a due passi dal monolocale di via Sant’Agostino usato da Federigo Mannucci Benincasa.

Importanti conferme dei collegamenti via Gradoli-Sisde
Il libro riporta due documenti “riservati”: una relazione e un appunto, datati 7 maggio 1998, firmati rispettivamente dal capo della polizia Fernando Masone e dal capo del Sisde Vittorio Stelo, e inviati al ministro dell’Interno e al Cesis in seguito alla pubblicazione del libro di S. Flamigni “Convergenze parallele”. La relazione di Masone conferma che «[la Fidrev srl, società di consulenza del Sisde] era a sua volta controllata dall’immobiliare Gradoli, nella quale sindaco supplente, dal giugno 1977, era tale Gianfranco Bonori, nato a Roma il 26-7-52. Il Bonori, dal 1988 al 1994, ha assunto l’incarico di commercialista di fiducia del Sisde, subentrando alla Fidrev. [...] Il prefetto Parisi risulta avere acquistato, con atto [notarile] del 10 settembre 1979, un appartamento al civico 75 di via Gradoli e, successivamente, sempre al civico 75, altri due appartamenti e un box. Inoltre nel 1986 acquistò, intestandolo alla figlia Maria Rosaria, un appartamento sito al civico 96, e nel 1987 un altro appartamento sito allo stesso civico intestandolo alla figlia Daniela». L’appunto del prefetto Stelo precisa inoltre che «la società Fidrev, azionista di maggioranza dell’immobiliare Gradoli, risulta aver svolto assistenza tecnico-amministrativa per la Gus e la Gattel [società di copertura del Sisde, ndr], dalla loro costituzione fino al 14 ottobre 1988. In pari data, per incarico dell’amministratore pro tempore delle due società, Maurizio Broccoletti, subentrò in tale consulenza il ragionier Gianfranco Bonori, già sindaco supplente dell’immobiliare Gradoli. Tale attività di consulenza è cessata il 27 luglio 1994».

Dal capo Br Mario Moretti al funzionario del Sisde Maurizio Broccoletti
Fra il materiale trovato nel covo Br di via Gradoli 96 il 18 aprile 1978 c’erano un appunto manoscritto di Moretti: «Marchesi Liva – 659127 – mercoledì 22 ore 21 e un quarto» (la data corrispondeva a mercoledì 22 marzo 1978, sei giorni dopo la strage di via Fani e il sequestro), e un altro «foglietto manoscritto con recapito telefonico 659127 dell’immobiliare Savellia». La sede della Savellia srl era nel Palazzo Orsini di via Monte Savello, vicino al Portico D’Ottavia, la zona del Ghetto ebraico che dista poche centinaia di metri da via Caetani. E il palazzo Orsini era la residenza della «marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, nobildonna romana che si firmava anche Liva». Presidente del collegio sindacale dell’immobiliare Savellia srl era il commercialista Giovanni Colmo. Questi, tempo dopo il delitto Moro, diventerà segretario (e suo figlio Andrea, membro del collegio sindacale della Savellia, ne diventerà amministratore unico) della immobiliare Palestrina III srl, una società di copertura del Sisde. Inoltre, presso lo studio del commercialista Giovanni Colmo, in via Antonelli, avranno sede l’immobiliare Proim srl (dal 1990 con amministratore unico Andrea Colmo e socio il padre Giovanni) e l’immobiliare Kepos srl: due società immobiliari di copertura del Sisde.
Il 14 dicembre 1990 l’assemblea della Palestrina III srl nominerà segretario Giovanni Colmo e amministratore unico il fiduciario del Sisde Mario Ranucci (stretto collaboratore di Maurizio Broccoletti). Il legame fiduciario di Mario Ranucci con il Sisde è certo e collaudato nel tempo: una sua ditta di pulizie, C.R. Servizi srl, ha avuto l’appalto delle pulizie negli appartamenti del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, negli uffici del Sisde, negli uffici del capo della polizia Vincenzo Parisi, e in quelli di molti altri alti funzionari del Viminale. Per anni strettissimo collaboratore di Maurizio Broccoletti, nel processo per i “fondi riservati” del Sisde Ranucci ha confermato di essere stato fiduciario-prestanome per alcune società di copertura del Servizio su mandato del Broccoletti.

Da via Gradoli al Sisde
In via Gradoli 96, l’appartamento attiguo al covo brigatista era abitato dalla studentessa universitaria di origine egiziana: Lucia Mokbel, che era un’informatrice della polizia, e dal suo convivente Gianni Diana. L’appartamento abitato dai due era di proprietà della società Monte Valle Verde srl, che glielo aveva ceduto in uso. Il Diana lavorava nello studio del commercialista Galileo Bianchi, il quale – tre giorni dopo la “scoperta” del covo Br, il 21 aprile 1978 – venne nominato amministratore unico della Monte Valle Verde srl in sostituzione del dimissionario Aldo Bottai. Bottai era il socio fondatore della Nagrafin spa, e la Nagrafin poi darà vita alla Capture Immobiliare srl, una società di copertura del Sisde.



Foto intimidatorie ai magistrati che cercavano le basi
Br nel Ghetto ebraico
Flamigni ricostruisce la vicenda di Elfino Mortati, latitante a Roma dopo l’omicidio del notaio Gianfranco Spighi (avvenuto a Prato il 10 febbraio 1978), arrestato a Pavia ai primi di luglio del 1978, poche settimane dopo l’uccisione di Moro. Interrogato dal magistrato, Mortati dichiarò di essere stato in contatto con elementi legati alle Brigate rosse durante il sequestro Moro. Nel corso della latitanza romana (dal febbraio ai primi di giugno 1978) Mortati aveva abitato in un appartamento di via dei Bresciani, e aveva pernottato diverse volte in altri due appartamenti “coperti”, situati nella zona del Ghetto, ospite delle Br. Ricorda il giudice istruttore Ferdinando Imposimato: «Io e il collega Priore caricammo Mortati su un pulmino dei carabinieri e girammo in lungo e in largo, anche a piedi, per il Ghetto, ma senza alcun risultato. Pochi giorni dopo il mistero si infittì quando mi vidi recapitare in ufficio una foto scattata quella sera, e nella foto c’eravamo io, Priore e Mortati»; la foto ritraeva i tre mentre erano in via dei Funari-angolo via Caetani. Quella foto venne scattata da un osservatorio dei servizi segreti italiani. Di quell’intimidazione non venne informata la Commissione d’inchiesta sul caso Moro, né le foto risultano agli atti del processo Moro trasmessi alla Commissione.
Dalle dichiarazioni di Mortati, dagli accertamenti svolti dai vigili urbani, dalle notizie delle fonti confidenziali trasmesse, gli inquirenti arrivarono ad individuare un covo brigatista situato nel Ghetto ebraico di Roma durante il sequestro Moro (in via Sant’Elena 8, interno 9). Ma a quel punto tutto si fermò: una speciale immunità protesse le Brigate rosse anche nel Ghetto ebraico.

Una Jaguar, il Ghetto ebraico e un colonnello della P2
Nel covo Br di via Gradoli il 18 aprile 1978 venne trovata la chiave di un’auto con un talloncino di cartone sul quale c’era scritto su un lato «Jaguar 2,8 beige H 52559 via Aurelia 711», e sull’altro «FS 915 FS 927 porte Sermoneta Bruno». Era una traccia che portava nel Ghetto ebraico, dove c’erano alcune basi e punti d’appoggio delle Br che tenevano prigioniero Moro, ma le indagini vennero avviate solo a partire dal 12 ottobre 1978 (cioè 5 mesi dopo l’uccisione del presidente Dc). Bruno Sermoneta era un commerciante di 37 anni che gestiva un ampio negozio di biancheria e tappeti con ingresso in via Arenula e retro in via delle Zoccolette, nei pressi del Ghetto ebraico. Le indagini furono coordinate dal tenente colonnello Antonio Cornacchia (affiliato alla Loggia P2). Dal rapporto finale del piduista Cornacchia traspariva evidente che non era stata svolta alcuna effettiva indagine preliminare nei riguardi di Bruno Sermoneta, il quale anzi era stato messo al corrente del ritrovamento della chiave a suo nome nel covo Br di via Gradoli.

Il passo carraio vicino a via Caetani
Le indagini per individuare i locali adatti ad accogliere la Renault rossa delle Br sulla quale il 9 maggio 1978 era stato fatto ritrovare il cadavere di Aldo Moro diedero «esito negativo». Nella zona del Ghetto da perlustrare era compresa via Monte Savello, dove al 30 c’era un passo carraio con accesso a palazzo Orsini che conduceva a un garage. Le forze di polizia omisero di indagare nei cortili dei palazzi dei nobili casati. Nella zona era compresa anche via Caetani, là dove c’era un passo carraio che immetteva nel cortile dei restauri dell’antico Teatro di Balbo, e nell’altro lato della strada c’era un passo carraio che immetteva in un cortile di palazzo Mattei, confinante con palazzo Caetani; a quest’ultimo edificio si accedeva dal passo carraio di via delle Botteghe Oscure 32. E se palazzo Caetani ospitava diverse sedi diplomatiche coperte da immunità territoriale, non così era per l’attiguo palazzo Mattei, ideale come “luogo di ricetto di autovettura”, che però le forze di polizia omisero di segnalare: la Renault delle Br avrebbe potuto entrare e uscire dall’ampio passo carraio situato in via dei Funari, cioè proprio nei paraggi percorsi a piedi dai giudici Imposimato e Priore insieme a Mortati, quando vennero fotografati a scopo intimidatorio.

Link utile: Brigate rosse e Aldo Moro

Leggi: articoli e documenti sulle Brigate rosse


fonte: http://www.rifondazione-cinecitta.org/segretigradoli.html


1 commento:

Anonimo ha detto...

Fonte dagospia.it


“NOI ABBIAMO UCCISO ALDO MORO” – IL LIBRO DI STEVE PIECZENIK, L’AMERICANO CHE LAVORÒ CON COSSIGA DURANTE IL SEQUESTRO: “NELLA GUERRA ALLE BR LA SUA VITA ERA IL PREZZO CHE DOVEVAMO PAGARE” – “SE L’AVESSERO LIBERATO, LE BR AVREBBERO VINTO”…





Marco Dolcetta per “l’Unità”


A Parigi, di passaggio dagli Usa, Steve Pieczenik - invitato dal giornalista Emmanuel Amara per intervistarlo per una serie di trasmissioni tv in Francia e la presentazione di un libro - ci permette di avere un colloquio con lui. Durante il sequestro Moro furono molto attivi tre Comitati per la gestione della crisi: ci sono pochi dati per ricostruire con precisione l'attività di questi gruppi, in quanto dagli archivi del Viminale a detta del senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Stragi, sono scomparsi i verbali delle riunioni e altri documenti.


(Aldo Moro prigioniero visto da Tullio Pericoli)


L'americano Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato, era il capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Usa, Ufficio che era stato istituito da Henry Kissinger. Come ci ha confermato l'ex ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, Pieczenik venne invitato subito dopo il rapimento di Aldo Moro a fare parte di un Comitato di esperti cui faceva capo, appunto, Cossiga, per fare fronte all’emergenza. Al suo fianco c'era anche il criminologo Franco Ferracuti, che in seguito risultò far parte della P2.

Era allora il responsabile della cellula antiterrorista del Dipartimento di Stato. Finito il suo incarico alle dipendenze dell'Amministrazione Usa, molto dopo il caso Moro ha incominciato a scrivere numerosi romanzi di spionaggio.

«Ben Reid, che dipendeva da Cyrus Vance, il ministro degli Esteri, mi convocò - racconta Pieczenik - nel suo ufficio. Si rivolsero a me perché avevo studiato ad Harvard e al Mit. Poi Kissinger qualche tempo dopo mi incaricò di dirigere la prima cellula antiterroristica degli Usa. Nel 1978 l'Italia, fino al rapimento Moro, era abbastanza trascurata dai nostri. Quando arrivai mi resi subito conto che il Paese era nel caos.

Scioperi continui, manifestazioni sindacali ed estremisti di sinistra, mentre l'apparato dello Stato rimane in mano a vecchi fascisti che poi mi sono reso conto erano stati infiltrati dalla P2. Fra l'altro ho potuto constatare con il ministro dell'Interno di allora Cossiga che costui non aveva nessuna strategia ne alcun piano d'azione».


(Steve Pieczenik)


Cossiga ha parole forti nei confronti di quanto Pieczenik dice: «È alla ricerca di notorietà, visto che ha intrapreso definitivamente la sua attività di scrittore per i libri e per il cinema... Fa affermazioni quanto meno azzardate».

«Quello che mi aveva sorpreso - chi parla ora è sempre Pieczenik - in quei giorni è che i gruppi fascisti tenevano in permanenza le leve del potere in Italia. Mi resi conto in fretta che anch'io ero poco al sicuro. Mi ero quindi reso conto che le Br avevano degli alleati all'interno della macchina dello Stato. Dopo qualche riunione che consisteva nell'identificare il centro di gravità attorno al quale la storia del rapimento girava, ho subito capito che le forze conservatrici volevano la morte di Moro, le Br lo volevano vivo, i comunisti invece, la loro posizione era quella della fermezza politica.

Francesco Cossiga lo voleva sano e salvo ma mi diede carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l'ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare.

Tutto il sistema italiano era inaffidabile. Negli incontri al vertice, avevo di fronte quella che mi veniva presentata come l'elite dirigente, dei dinosauri dell'epoca mussoliniana e i loro giovani cloni. Erano soprattutto i membri dei Servizi. Anche i Servizi Segreti del Vaticano mi avevano detto di fare molta attenzione. Gli stessi Servizi Segreti del Vaticano ci avevano aiutato molto a capire come le Br si erano infiltrate nello Stato. Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro».

Pieczenik, continua a raccontare anche nel libro dal titolo “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro” scritto con Emmanuel Amara, che sta per uscire in Francia presso l'editore Patrick Robin, decise la strategia per risolvere a modo suo il caso Moro. «Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l'Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare.


(Francesco Cossiga e Aldo Moro - Foto U.Pizzi)


Decidemmo quindi, d'accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti».

Il senatore Sergio Flamigni considera la presenza di Pieczenik di fondamentale importanza per l'esito avuto da tutta la vicenda Moro, identico interesse lo ha sempre dimostrato anche la magistratura italiana che si era interessata della questione. Uno di quei giudici, Rosario Priore, ci ha ricordato come a più riprese anche la Commissione Stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, abbia chiesto la sua testimonianza che però a suo tempo, all'ultimo minuto, ha sempre rifiutato. Rosario Priore però ricorda anche come quei Comitati fossero formati da esperti che in seguito si rilevarono essere «antenne» di servizi di Intelligenza di molte potenze straniere.

«Sono stato io - continua Pieczenik - a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. La mia ricetta per deviare la decisione delle Br era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati dicendo a tutti che ero l'unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto. Un giorno chiesi a Cossiga, guardandolo negli occhi se mi potevo fidare di lui. Lui rispose francamente : «Lei non può»…

Presi in mano la situazione e decisi clinicamente come gestire l'esito finale delle Br, uno scambio mortale in termini di stabilità per il Paese e per i suoi alleati. Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarmi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto, questo non lo so. Avrebbero potuto concludere una trattativa con lo Stato, ottenendo delle pene ridotte liberando Moro ma erano troppo legati alla loro logica terrorista, in cui si preferisce essere più terroristi del terrorismo di Stato che io così bene conosco».

Cossiga vuole ribadire come le affermazioni attuali di Pieczenik non siano coerenti rispetto al suo atteggiamento di un tempo. Dopo aver realizzato il suo piano, Steve Pieczenik, in gran silenzio, come era venuto, se ne ritorna negli Usa. Più volte richiesta la sua testimonianza alle varie Commissioni parlamentari sul sequestro Moro, non si è mai presentato.





1 - NESSUN DUBBIO…
Andrea Purgatori per “Left”

Che sulla pelle di Aldo Moro si sia giocata una partita cruciale per la democrazia in Italia è un fatto incontestabile. Che a giocarla, ma soprattutto a idearla, sia stato l’inviato speciale (e segreto) dell’allora presidente americano Jimmy Carter, lascia allibiti. L’uomo si chiama Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza degli esperti di terrorismo internazionale. E anche di chi, come Sergio Flamigni, al delitto Moro e ai suoi misteri ha dedicato una vita di indagini (parlamentari) e di saggi. L’ultimo - di cui anticipiamo in esclusiva gli estratti essenziali - propone una verità che, per ammissione dello stesso Pieczenik, dice sostanzialmente due cose.

Primo. Che il falso Comunicato numero 7 delle Brigate rosse con cui si annunciava l’esecuzione di Moro e si suggeriva di cercarne il corpo nel lago della Duchessa, fu un’operazione di infowar, cioè di disinformazione mirata a provocare un passo falso delle Brigate rosse (passo che poi ci fu davvero, e certamente accelerò la decisione finale di liquidare la partita e l’ostaggio). Secondo. Che quell’operazione fu concepita al Viminale e realizzata attraverso un personaggio legato alla famigerata Banda della Magliana. Un “falso di Stato” di cui, secondo Pieczenik, l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga era a conoscenza.

Cossiga smentisce. Ma la versione di Pieczenik, oggi scrittore di bestseller, è dettagliata ed elaborata. Persino beffarda nel teorizzare che, siccome «nessun uomo è indispensabile alla sopravvivenza dello Stato», tanto meno lo doveva essere Aldo Moro. Un altro capitolo della nostra sovranità limitata è servito. Dopo quei 55 giorni e dopo ventinove anni, il dubbio che tutto ma proprio tutto di quella tragedia debba essere riscritto è diventato una granitica certezza.

2 - OPERAZIONE LAGO DELLA DUCHESSA - Colloquio con Sergio Flamigni
Paola Pentimella Testa per “Left”

«Nell’aprile 1978 si diede vita all’Operazione lago della Duchessa. Consisteva nella diffusione di un falso comunicato nel quale era annunciata la morte di Aldo Moro e il luogo dove il suo corpo poteva essere ritrovato». A rivelare questo retroscena, forse decisivo nel precipitare la tragica conclusione del rapimento del presidente della Dc Aldo Moro, è Steve Pieczenik, all’epoca capo dell’Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato americano. Subito dopo la strage di via Fani, Pieczenik era stato inviato personalmente in Italia dal presidente Jimmy Carter per assistere, in veste di consigliere speciale, l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. A raccontarlo a left è Sergio Flamigni, parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, che ha fatto parte delle commissioni d’inchiesta sul caso Moro e sulla P2, ed è considerato il maggior esperto italiano dell’affaire Moro.

Flamigni, a chi venne in mente l’«Operazione lago della Duchessa»?
Pieczenik ha raccontato a un giornalista francese, Emmanuel Amara, che l’ideatore del piano fu lui. E che ne discusse nel comitato ristretto di esperti di cui faceva parte, che approvò la sua strategia. Il 16 aprile 1978, Pieczenik tornò a Washington. Due giorni dopo, il 18 aprile, venne diffuso il comunicato delle Brigate rosse, in cui si annunciava la morte di Aldo Moro e si indicava il lago della Duchessa.

Intende il falso comunicato poi attribuito a Toni Chicchiarelli, personaggio vicino alla Banda della Magliana?
Sì, il Comunicato numero sette.

Perché venne messa in atto questa operazione?
Per tendere una trappola alle Brigate rosse. Secondo Pieczenik, Moro era disperato, e avrebbe sicuramente fatto rivelazioni importanti su uomini politici come Andreotti. Sono parole sue. È in quel momento preciso che Cossiga e Pieczenik iniziarono a pensare che bisognava tendere una trappola ai brigatisti.

Francesco Cossiga?
Sì, l’allora ministro dell’Interno, l’unico che gestiva l’unità di crisi formata dagli esperti.


(Francesco Cossiga - Foto U.Pizzi)


Vuole dire che Cossiga era a conoscenza di questa operazione?
Lo sostiene lo stesso Pieczenik. Dice che ne aveva discusso con Cossiga e alcuni esponenti fidati dei servizi segreti italiani. E ricorda che era presente anche Franco Ferracuti, il criminologo piduista. Per Pieczenik la strategia consisteva nel preparare l’opinione pubblica italiana ed europea a un eventuale decesso di Moro. Per questo venne definita “operazione psicologica”. Sappiamo dal giudice Rosario Priore, ma anche dagli stessi brigatisti, che il sequestro Moro doveva durare mesi. Sei, forse nove. Troppo. Così Pieczenik racconta di aver messo in atto la manipolazione strategica che ha condotto alla morte di Moro, al fine di stabilizzare la situazione italiana. E, nell’intervista ad Amara, aggiunge che temeva che Moro venisse liberato: così avrebbero vinto le Br.

Cioè venne tesa una trappola per costringere i brigatisti alla mossa successiva, uccidere Moro?
Due giorni dopo il falso comunicato, i brigatisti diedero l’ultimatum allo Stato. Che decise di non trattare. Non a caso Pieczenik dichiara al giornalista francese che mai le parole “ragion di Stato” hanno avuto più senso che durante il sequestro Moro. E aggiunge: «È la prima volta nella storia della mia carriera che mi trovavo in una situazione nella quale dovevo sacrificare la vita di un uomo per la sopravvivenza di uno Stato. Il cuore della mia strategia era, in ogni caso, che nessun uomo è indispensabile allo Stato, ciò mi ha permesso di razionalizzare l’utilizzazione di Moro per garantire la stabilità dello Stato sul piano politico, economico e psicologico».

Il 18 aprile non c’è solo l’ultimatum delle Br. Si scopre anche il covo di via Gradoli 96.
Quel giorno i brigatisti erano riuniti a Firenze, impegnati in una discussione che riguardava un altro rapimento, quello di Pirelli, da effettuare a Milano, e che doveva avvenire con un’altra strage. Avevano già predisposto la prigione. Questi particolari li ha raccontati Lauro Azzolini che aveva avuto l’incarico di predisporre l’operazione Pirelli. Alle 13 i brigatisti accesero la tv per guardare il telegiornale. Apparve il covo di via Gradoli e Mario Moretti disse: «Quella è casa mia». Poi arrivò la seconda notizia: il Comunicato numero sette. I brigatisti, lo racconta Moretti, si guardarono in faccia perché non era loro. Si chiesero chi avesse interesse a inzuppare il pane nella loro azione. Furono spiazzati, così decisero di soprassedere all’operazione Pirelli: bisognava tirare i remi in barca sul caso Moro. E fecero il comunicato numero 7, autentico. Quello in cui diedero l’ultimatum. L’operazione accelerazione era riuscita.

Perché quel giorno venne scoperto anche il covo di via Gradoli?
Il vigile del fuoco che entrò per primo nell’appartamento scoprì che l’infiltrazione d’acqua al piano di sotto, motivo che aveva indotto i vicini a dare l’allarme, era causata dal telefono della doccia lasciata aperta, poggiato su un manico di scopa messo di traverso sulla vasca, col getto d’acqua rivolto contro le piastrelle sconnesse dove era stato tolto lo strato impermeabile. È evidente che l’infiltrazione era voluta.


(Giulio Andreotti - Foto U.Pizzi)


Quindi?
Come i servizi mettono in moto la banda della Magliana per il falso comunicato, è presumibile che diano le chiavi a qualcuno per l’operazione doccia. Ripeto, per costringere i brigatisti ad accelerare i tempi.

Nella vicenda Moro si è parlato spesso di una talpa. Si è mai chiarito chi fosse?
Il primo a parlarne fu proprio Pieczenik. Nel 1994 raccontò che aveva chiesto di ridurre progressivamente il numero dei partecipanti alle riunioni degli esperti perché temeva appunto che ci fosse una talpa. Lo stesso Cossiga ha poi raccontato che per Pieczenik l’esistenza di un appoggio interno era dimostrata da diversi fattori: perché la borsa più importante che Moro portava con sé non è mai stata ritrovata. Perché il rapimento era avvenuto nell’unico giorno in cui Moro non si era recato in chiesa con il nipote, e perché tutta l’operazione era stata eseguita in maniera “pulita”, il che secondo Pieczenik contrastava con il normale operato di gruppi terroristici, che spesso incappano in un errore, o nell’uccisione di un passante innocente.

E lui queste cose le sa bene. Si è mai scoperta la talpa?
No. Ma Pieczenik ha anche raccontato che, rimasti soli lui e Cossiga, la falla non accennò a richiudersi. Cossiga non ha mai smentito questa dichiarazione, ma ha parlato solo di «cattivo gusto».

In Commissione parlamentare avete mai ascoltato Pieczenik?
La Commissione presieduta da Pellegrino lo voleva fare. Lui si era detto d’accordo e aveva comunicato il giorno del suo arrivo a Roma. Aveva anche posto la condizione che le spese fossero a carico della Commissione. Ma poi Pieczenik spedì un fax in cui diceva di aver cambiato idea.

Quando la Commissione parlamentare è venuta a conoscenza del contributo di Pieczenik nella vicenda Moro?
Quando Cossiga fu ascoltato nel 1980 non parlò di Pieczenik. Disse solo che era arrivato un importante contributo dagli Stati Uniti. Infatti il nome di Pieczenik non compare nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta approvata nel giugno 1984. Quando nel 1992 la Commissione stragi, presieduta dal senatore Gualtieri, chiese, dopo molte insistenze, di acquisire i documenti dell’unità di crisi, arrivarono degli appunti: un contributo di Stefano Silvestri, esperto di strategia militare, un lavoro di Ferracuti e una relazione firmata da Pieczenik intitolata “Strategia e tattica delle Brigate rosse, come fronteggiarle”. In seguito Pieczenik smentì che quella relazione fosse sua. Cossiga dirà poi che aveva fatto bene a negare, in quanto aveva preso accordi con l’ambasciata americana perché rimanesse segreta.

Nell’unità di crisi informativa, quella composta dai vertici dei servizi segreti, erano tutti iscritti alla P2. Pieczenik sapeva della P2?
Nel 1993 ha raccontato che al suo ritorno negli Usa, nel 1978, era avvenuta una cosa curiosa. Lo andarono a trovare esponenti del governo argentino per chiedergli aiuto, per combattere quello che loro definivano terrorismo. Lui rifiutò. Ed ebbe la netta sensazione che sapessero molte cose riguardo al sequestro Moro. Solo in seguito venne a sapere che gli italiani e gli argentini erano legati attraverso la P2. E che alcune persone con le quali aveva lavorato in Italia erano coinvolte nello scandalo della P2. In Italia non si era accorto di nulla, ma ebbe la netta percezione che qualcosa non funzionasse in maniera corretta. Anzi, disse di avere avuto l’impressione che molti generali incontrati al Viminale non volessero la liberazione di Moro. Se così era, quei generali non potevano che sostenere la strategia di Pieczenik.

P2 e servizi. Che ci faceva alle 9 di mattina in via Fani il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, stretto collaboratore del generale piduista Giuseppe Santovito?
Guglielmi ha sempre sostenuto che era lì perché era stato invitato a pranzo da un amico. Alle nove di mattina. I giudici che indagano su Gladio scopriranno poi che Guglielmi era istruttore alla base di Gladio a Capo Marrargiu, in Sardegna, dove insegnava ai gladiatori le tecniche dell’imboscata. Quella di via Fani non fu una mirabile imboscata, applicata per sterminare la scorta e catturare Moro illeso?

Durante la prigionia, Moro parla anche di Gladio.
Ne abbiamo traccia nel secondo memoriale, quello ritrovato in via Montenevoso a Milano nel 1990.

Perché Moro racconta di Gladio ai brigatisti?
Perché colui che lo interroga vuole sapere proprio quello, la struttura di guerriglia antiguerriglia della Nato. E qui che i brigatisti mentono, e dicono di non aver compreso fino in fondo le parole di Moro. Se hanno significato le parole, Moro risponde a domande ben precise, di chi già sa. Ne parla certamente in maniera sfumata, comprendendo la delicatezza dell’argomento. Ma risponde a chi era già a conoscenza dei fatti.

Mario Moretti?
Non credo. Moretti mi risulta che fa da tramite. Anche i brigatisti come Azzolini e Bonisoli, dicono che quando Moretti andava al comitato esecutivo a Firenze aveva il testo dei comunicati già scritto. Qualcuno deve aver aiutato Moretti. Ricordiamoci che le domande non sono mai venute fuori. Le abbiamo dedotte dalle risposte.

Chi elaborava quelle domande?
È rimasto un mistero. Ma che al di sopra di Moretti ci fosse qualcuno è evidente. Sappiamo dei suoi collegamenti con la scuola di lingue Hyperion di Parigi, perché ce lo dicono i brigatisti pentiti. Lo sappiamo dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che racconta alla Commissione che «Moretti va e viene da Parigi, ma non riusciamo a beccarlo». Il 17 aprile, il giorno prima del falso comunicato e dell’Operazione lago della Duchessa, arriva a Roma da Parigi il clandestino Duccio Berio, braccio destro di Corrado Simioni, il quale si reca alla filiale romana dell’Hyperion, in via Nicotera: è una visita-lampo, perché in serata Berio torna a Parigi. Alla vigilia del caso Moro, l’Hyperion apre una sede Mario Moretti e gli altri brigatisti rossi durante il processo per l’uccisione di Aldo Moro a Milano e una a Roma. E a Milano doveva avvenire l’operazione Pirelli.

E a Milano viene trovata la seconda parte del memoriale. Il giorno dell’agguato in via Fani c’è anche un tiratore che mette a segno 49 colpi su 92 che saranno decisivi.
Di cui non conosciamo ancora il nome.

I brigatisti come hanno spiegato quella presenza?
Da sempre sostengono di essere stati loro. Ha ragione Pieczenik quando dice che quell’azione è andata talmente pulita che c’era una talpa all’interno dello Stato.

Perché i brigatisti non raccontano la verità a 29 anni dall’uccisione di Moro?
Perché hanno qualcuno da coprire. Poiché in definitiva quell’operazione ha portato a rafforzare quel centro di potere che loro volevano combattere. E se viene fuori la presenza di uno che conferma quello scopo, magari qualcuno che conosce solo Moretti, tutto il loro sogno rivoluzionario e brigatista crolla.

Laura