"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

domenica 20 maggio 2007

A lezione di storia dai poveri


effetti dell'agent orange b, sparso generosamente dagli americani

...........

Un'anonima paginetta pescata in internet in modo quasi.. fortunoso. Quasi. Nulla accade per caso, come non per caso ci giungono queste riflessioni.. Una pagina bella, piena di spunti e stimoli. A noi rifletterci ulteriormente.

.........

(in margine a “La chiesetta al Col del Broco” di E.Beraldin)

ottobre 2006


Fu nel gennaio del 1990. Salivamo il monte detto Dente del Gatto. Un tempo i suoi fianchi erano avvolti da un' immensa foresta tropicale; poi gli americani l'avevano diossinizzata con l'Agent Orange B della Monsanto per cacciarne i vietcong, e la foresta era diventata una enorme cicatrice sul volto verde della regione. Vi crescevano soltanto arbusti e, a quindici anni dalla defoliazione, non vi erano più tornati gli uccelli, né si vedevano altri insetti che le zanzare. Le guide lo confessarono soltanto dopo che eravamo tornati al sicuro, a Da Nang: animali in quella zona? Cobra, soltanto cobra.

Da una svolta del sentiero ci giunsero voci allegre, eccitate; un gruppo di vietnamiti ci venne incontro. Erano poverissimi contadini, ma mostravano con larghi sorrisi un loro tesoro: portavano sulle spalle una grande quantità di rottami di metallo, trovati in quello che era stato un avamposto americano. “Vivono di questo”, spiegarono le guide. “Ricercano e raccolgono residuati bellici; e molti muoiono su mine o per bombe che ancora esplodono: e moltissimi sono i mutilati”. Ermanno Olmi mi aveva raccontato, vent'anni prima, un incontro del genere, sull'altipiano di Asiago, e il suo sconvolgimento nel vedere che la prima guerra mondiale uccideva ancora dopo che la seconda era ormai terminata da tempo; e come si fosse sentito costretto a girare un film bellissimo (e trascurato dalla critica), “I recuperanti”: un piccolo poema in onore di questi spigolatori di strumenti di morte in quelle orrende ferite della Terra che sono le trincee.

Le figurine dei recuperanti vietnamiti mi sono apparse quasi in filigrana nelle cronache della chiesetta al “Col del Brocco” amorosamente raccolte dal mio amico Elvio Beraldin. Anche lassù, infatti, sulla montagna di Cismon, ebbe spazio la tragedia di poveri per i quali le guerre non finiscono mai e i trattati di pace hanno ben poco effetto. I preti della zona, notai oltre che sacerdoti, registrano più volte: “ucciso da un esplosione”. Ecco una realtà che indica come la follìa dei potenti non abbia confini e non ne abbia il dolore degli umili. E non solo: proprio nei recuperanti, nel loro lavoro che li portava a rischi mortali, si rende evidente un'altra pazzia vergognosa: lo spreco economico delle guerre. A essere raccolti, come ci mostrarono quella mattina i recuperanti vietnamiti, erano frammenti di leghe preziose, testimonianze di immensi capitali spesi per dare morte invece che vita. Dalle chiesette sul Grappa al tropico del Sud Est, i luoghi, le lingue, gli aspetti delle persone sono diversissimi ma la storia è identica.

*****

Invecchiando sono andato sempre più convincendomi che la nostra civiltà va guardata e misurata con gli occhi dei poveri. Quella dei ricchi, raccontata dai loro scrittori, è storia abbellita, ornata di svolazzi come certe pergamene, con lettere d'oro e immagini di santi. Contiene poesie, considerazioni filosofiche anche eccelse; ma la storia dei poveri, quando si riesce a fargliela raccontare contiene anch'essa poesie ma è fatta soprattutto di sudore, fame e sangue. È bene che sia raccontata perché tutti ci ricordiamo che niente è stato donato ai poveri, tutto ha richiesto dolori, fatiche, lontananze, assenze ribellioni. La storia degli italiani poveri andrebbe insegnata nelle scuole come parte integrante di un'educazione civica. Cominciamo a capirlo, grazie ai tanti Elvio Beraldin che ci aiutano a questa attenzione. Le “piccole” cronache danno sostanza di verità alla Storia “grande” dalla quale l'eroismo dei poveri è ricacciato ai margini.

*****

La storia che andrebbe insegnata nelle scuole andrebbe insegnata con le parole dei poveri. I poveri, quando possono farlo nel loro dialetto e fra loro, cioè davanti a un pubblico di eguali, sono (o erano) dei grandi raccontatori. Forse oggi lo stupidario televisivo gli ha gelato la lingua ma nel mondo contadino vi erano straordinari favolieri e narratori. I racconti delle nonne sull'aia o degli ex emigranti nelle stalle invernali avevano un'altissima carica emotiva; ho fatto in tempo a raccoglierne qualche briciola anch'io, nel mio paese della Valcamonica, e credo che non dimenticherò mai la storia “de Pipò e de Pipù a caccia de ursatì e a caccia de ursatù”). Fortunatamente vi sono stati intellettuali come Calvino e come Rigoni Stern e come Nuto Revelli che hanno estratto qualcuno di questi tesori dalle madie del passato; e oggi sembra che una nuova leva di recuperanti di memorie (un nome per tutti: Ascanio Celestini) stia continuando la loro fatica.

Tuttavia, come ci ha spiegato don Milani, i poveri sono muti o balbettano goffamente se devono usare le parole della gente che “ha studiato”, quelle che servono per parlare col medico, con l'avvocato, col giudice, con il padrone; figuriamoci se dovessero scriverne. Perciò nelle pagine raccolte da Elvio la storia dei poveri è raccontata dai preti.

Questo, naturalmente, segna dolorosamente il racconto, lo amputa di parti essenziali: che ne sanno i sacerdoti dello strazio delle vedovanze “bianche”? Il letto freddo, i materassi di foglie di granturco il cui fruscio sembra sussurrare brutte notizie, quando il marito è lontano, in guerra, o emigrato chissà dove: in città dal nome ostrogoto, in strade di cui è impossibile ricordare l'indirizzo e in cui, se si riesce a decifrare le lettere, anche le stagioni non sembrano le stesse: inverni inesauribili quando invece sulla Montagna di Cismon sono fioriti i colchici e i rododendri o estati prolungate mentre sull'alpe la nebbia o la brina tentano già con dita di ghiaccio le porte e le finestre delle case. Che ne sanno, i preti, dei treni che all'alba portano via, lontanissimo, gli amori con il fazzoletto in mano tra gli sbuffi di fumo delle locomotive che alla prima curva dei binari fischiano un lamento desolato? E dei tavoli d'osteria o degli angoli di cantiere o di baracca in cui l'analfabeta detta, quasi disperatamente, una lettera per la sua amata al compagno che ha avuto la fortuna di poter arrivare in quinta elementare? Che ne sanno delle bestemmie innocenti che sono esclamazioni di solitudine? E delle canzoni scurrili con le quali il lontano cerca di riappropriarsi della sua carnalità ferita dalla lontananza?

*****

Niente ne sanno, niente dovrebbero saperne; e difatti il linguaggio clericale con il quale è compilato il bollettino è di poco vigore e nessun colore; e tuttavia nella sollecitudine che esprime, nell'attenzione con la quale, per esempio, vengono registrate le ore di lavoro offerte dalla povera gente per la costruzione della chiesetta, si intuisce che i preti di Cismon non hanno mai dimenticato di essere figli di montanari, di credenti che più che con le parole sanno – come diceva dei suoi figli un vescovo dell'America Latina – “crede-re con le mani”.

*****

Mi piacerebbe che Elvio allungasse queste pagine cercando di intervistare, qualcuno dei protagonisti di questa storia per poter ascoltare la voce dei poveri. Io, intanto, gli offro un documento trovato in un libro sulla Resistenza; è la lettera di un'anonima madre che nel settembre 1944 da un paese sicuramente vicino a Cismon scrive al figlio partigiano sul Grappa, mandandogliela attraverso la carità di un religioso della zona, padre Nicolini. Dice “Caro Mario, te scrivo co l'anima in man. Te racomando tanto de vardarte dai pericoli, e par questo te dico de racomandarte al Signore. Se parla sempre che la finissa presto e mi a lo spero tanto, ma go un gropo in tel stomego che me fa pensar male e te go sempre in mente. Te racomando de stare a l'erta parchè i pericoli se tanti e a savì con chi a gavì da fare. Anca luni se passà tanti autocari che i andava vero Montebeluna, no so cosa voia dire, ma serto me fa pensare male de voi altri in Grappa. Qua no te si sicuro, là non te si sicuro. Coraggio e confida nel Signore che el po far tuto. Te baso con tuto el core. To mama”.

Era il 22 settembre 1944. Una settimana più tardi Mario era morto insieme ad altri 263 partigiani “rastrellati” nella zona dai nazifascisti. Forse fu uno di quelli che consentirono ai tedeschi di dimostrare che cosa vuol dire capacità organizzativa: nel tempo di un'ora e mezza le SS riuscirono a impiccare 31 prigionieri ad altrettanti pali della luce, a Bassano del Grappa.

Ettore Masina

ettore@ettoremasina.it


Altre lettere di ettore masina: http://www.ettoremasina.it/


Nessun commento: