Sierra Leone, la parola ai cittadini per ripartire dopo la guerra civile
di DOMENICO QUIRICO
Khatib che ha compiuto 19 anni ieri mattina, all’alba si è messo in fila per votare a Brookfields, quartiere di Freetown. Le prime elezioni vere, senza il controllo dei caschi blu, la prova per verificare se i sozzi e crudeli ludibri dell’epoca nera sono davvero finiti: quanto basta per alimentare l’entusiasmo di chi comincia a credere al paradiso perché prima si credeva nell’inferno. Per averlo provato di persona.
Khatib è uscito fumigante ma ancora vivo dalla pentola del demonio. Non ha mai visto «Blood Diamond», ignora le avventure che Zwick e Di Caprio, astuti bracconieri in celluloide del dolore africano, hanno ambientato nel suo paese. Non ha soldi per andare al cinema, con 10 mila «leon» al giorno, circa 2 euro, che gli danno per andare a caccia di clienti con il suo mini taxi, spreme appena quanto basta per mangiare. Il taxi non è suo, è di una «compagnia», un uomo d’affari che durante gli 11 anni della guerra civile trafficava in pietre preziose e poi ha investito i guadagni. Khatib, dunque, non ha gioito per la compunta indignazione che la storia dei diamanti insanguinati ha sollevato in Occidente. Ci sono davvero molte cose che Khatib non sa. Perché vivere in Sierra Leone è come essere dimenticati in un labirinto quando il bigliettaio se n’è andato. Ad esempio: perché in un paese ricco di diamanti, bauxite, oro, lui e i suoi connazionali sono in stracci come se fossero usciti da un romanzo di Dickens? Ah, sono bravi davvero a non morire di fame con un dollaro al giorno, come dice l’Onu che li piazza al penultimo posto nelle classifiche dei paesi con il peggiore tenore di vita.
Khatib e gli altri 2,6 milioni di elettori non sono andati a scegliere tra Soloma Berewa del «Partito del popolo», abbonato al potere dai tempi dell’indipendenza, e Ernest Koroma del «Congresso di tutto il popolo», l’eterna opposizione (gli altri cinque aspiranti sono coreografia senza speranze). Loro votano per avere l’acqua corrente, l’energia elettrica e un lavoro. Chi gliele darà è il loro presidente. Come fai a spiegare che da quando è finita la guerra civile nel 2001, governo contro ribelli dell’est guidati da un Pol Pot africano di nome Foday Sankoh, ex caporale diventato lo Spartaco dei diamanti, la crescita è stata del 7,4 per cento. Lo dicono le statistiche! Le stesse che assicurano che per il 60 per cento la sopravvivenza del paese dipende dagli aiuti Onu.
E la produzione dei diamanti? È cresciuta, con la pace, da 10 a 164 milioni di dollari, ma allo Stato, per dar loro quel rubinetto e quell'interruttore, resta solo il 6 per cento. Il resto? Rubato, come i milioni degli aiuti dell’Onu, ingoiati nei mille rivoli del contrabbando. Un’altra bella storia per Di Caprio. Khatib non sa perché vive in una città che si chiama, dall’800, «città degli uomini liberi» e dall’indipendenza ha visto scorrere solo ciurmerie di partiti unici voraci, tribalismi, e rivoluzioni più sozze del potere che volevano dissellare. E poi: perché nella capitale c’è la più antica università del continente (1827) e il 60 per cento della popolazione è analfabeta? Perché ti portano ad ammirare i centri di rieducazione per bambini soldato, la fanteria della guerra civile, ti spiattellano, orgogliosi, le cifre del ritorno di questi inconsapevoli killer alla «normalità»; e poi ci sono 900 mila bambini rapiti alle famiglie che sgobbano nelle miniere, merce per i trafficanti di essere umani?
Perché l’Onu e la comunità internazionale, gran pedagoghi, che hanno assistito indifferenti per 10 anni al massacro di 50 mila persone, a stupri, amputazioni e saccheggi, adesso sono in estasi sostenendo che la Sierra Leone, con il voto, è la più riuscita operazione di esportazione della democrazia in Africa? E i morti? Quelli che non potranno mai andare a votare? Khatib non osa dirlo ma i tre condannati in tutto e per di più gregari del delitto, incastrati dal tribunale internazionale per la Sierra Leone gli sembrano pochi, per chiudere il conto della memoria con 50 mila morti. E gli altri? i capi? i mandanti? quelli che hanno riempito i conti in banca con i diamanti e la vendita di armi, anche in Occidente? La vita in Sierra Leone ha perso contro la morte, ma la memoria non ha diritto di vincere nella sua lotta contro il nulla?
Anche Kenneth è andato a votare, è soddisfatto perché si torna a «lavorare». Ufficialmente si definisce «un uomo di affari», si occupa di «sicurezza», per i candidati del Partito del popolo, al potere oggi e quasi certamente anche domani e dopodomani. Le accuse di brogli e violenze che già lancia l’opposizione non lo turbano, quelli sono dei «frustrati» che sanno di aver perso. Lavora con i suoi commilitoni dei tempi di guerra, non si sono mai persi di vista neppure quando, con la pace, la gente si era fatta aggressiva, li chiamava con odio «sobel» e metteva insieme i miliziani del governo e i ribelli. Sono stati quieti per qualche anno, con tutto quel parlare di processi, di tribunali internazionali, di punizioni esemplari. Senza i kalashnikov in mano da onnipotenti erano diventati equilibristi del bordo del marciapiede, i non bevitori dei caffè perché non c’era un leon per una birra; o per una tirata di «kali», marijuana buona e non quella schifezza fatta con i solventi e la polvere da sparo che si dava ai ragazzini per trasformarli in reclute obbedienti. Quando si andava in un villaggio, si stupravano le donne e poi si trascinavano gli altri davanti a un’oscena corte di giustizia.
«Vuoi la manica lunga o la manica corta?» sghignazzavano i «giudici». E a seconda della risposta il machete tagliava il braccio all’altezza del polso o del gomito. E poi li spedivano via con il moncherino sanguinante, tra lazzi e sputi. Crudeltà pura? No, il pianificato marchio del terrore perché la gente sapesse chi comandava, a chi appartenevano le miniere. Questa «giustizia» ha sconciato decine di migliaia di persone. Erano i tempi di Sankhoi e del suo alleato liberiano Taylor, un esportatore di massacri dalla vicina Liberia. Khennet e i suoi «sobel» si sono messi in coda ai seggi, allegrissimi: trastulliamoci con questa democrazia, ma alla fine l’Africa è sempre quella, chi ha i diamanti ha il potere, e viceversa.
fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200708articoli/24644girata.asp
...
Nessun commento:
Posta un commento