"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

mercoledì 15 agosto 2007

PUNK: "Una rivolta contro il futuro"



CONTROCULTURA
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di
Helena Velena

recensione di “Costretti a sanguinare” di Marco Philopat


Se c'è una cosa che come punk sicuramente non abbiamo mai voluto, era lasciarci studiare, analizzare, disinnescare. Volevamo vivere la nostra vita, crearci la nostra realtà in base alle nostre scelte, i nostri rifiuti, la nostra rabbia e il nostro schifo, anche quello che facevamo a chi voleva studiarci pretendendo di informarci che il punk era morto, come mi disse una poliziotta una notte del 1979, mentre appiccicavamo manifesti di un concerto de CCM, e tentavamo con grande energia e forza di volontà di farlo nascere.

Allora come oggi è inaccettabile che il nostro percorso di vita sia incasellato negli archivi digitali sulle bande giovanili metropolitane, studiato, confrontato magari pure storicizzato in positivo, dall'ennesima generazione di ex-ribelli reintegrati nelle strutture culturali della "sinistra". Perché questo di Philopat è un coagulo di volantino + fanzine + hardcorepunk + lanostrasceltadivita*cazzo*la nostra a scoppio ritardato. Ma che scoppia con la stessa intensità di allora, anche se per molti sembrerà solo un documento, magari da istituzionalizzare, al pari di una versione anni '80 del giovane Holden.


Il punk partì dallo zero assoluto dalla morente cultura settantasettina, dal degrado degli espropri dei proletari sui proletari, al Parco Lambro di "Re Nudo", dal riflusso e dal "Convegno di Settembre" a Bologna; forse meno eroina che a Milano, ma la stessa atmosfera di sconfitta, di voglia di ritornare nella cuccia protettiva di una società che non aveva nulla da offrire se non nuove catene, ma col velluto intorno ai polsi. Noi non conoscevamo nulla o quasi di tutto ciò, e non ne venimmo influenzati, ma fummo costretti a crearci da soli un percorso politico, una nostra dignità di sopravvivenza, una propria scena, un proprio senso dell'esistenza.

Il punk fu un'esperienza radicale totale, adrenalinicamente concentrata in poco più di 5 anni in cui passammo dall'andare a Londra per vedere come erano i punk e come facevano a tenere i capelli dritti in testa, al teorizzare e poi mettere in pratica una struttura completamente autogestita di spazi e produzioni antagoniste, e di vita completamente al di fuori del "sistema". Ai "nuovi sociologi" che recentemente hanno iniziato la cannibalizzazione della "storia del punk", questo libro dimostrerà che invece si trattò di una esperienza totalmente "altra". Questo non era un "disagio giovanile" con boutiques dove comperare abiti di "appartenenza" o cappellini da indossare alla rovescio, o negozi dove trovare montagne di materiale sonoro, o decine di libri/manuali sull'argomento.

La storia del punk fu quella di una manciata di anni gloriosi dimenticati dalla storia, che ricorda lo yuppismo rampante craxiano come atmosfera dominante del periodo. Ed invece fu un deflagrante movimento internazionale, e in Italia l'unico che dal dopo guerra ad oggi sia stato in grado costruire una nuova cultura totalmente autonoma. Punk significò inoltre l'uscita dalle logiche del mercato "giovanilistico". Non ricorderemo quindi, pedantemente, come il Punk abbia pesantemente influenzato la grafica, l'estetica, la poetica espressiva dei videoclips, il look, il concetto di identità giovanile e di tribalità sociale, la musica (dalle varianti del trash e neopunkrock che ora vendono milioni di copie), le relazioni tra i generi, il senso di appartenenza in relazione ad una scena precisa, con tutti i suoi segni e le sue motivazioni.

È importante ricordare invece che il punk fece tutto questo come atto insurrezionale, portandosi dietro (e dentro) violenza (e una intensissima dolcezza!!!) e scatenando intorno a sé distruzione cultura e rifiuto sociale, perché, come ben descrive la canzone dei Fear a fumetti in chiusura del volume, ci si trovava a "rifiutare di vivere una società marcia che nostro malgrado si finisce a ricreare". Ed è proprio nel rapporto tra il degrado rifiutato e quello creato che sta il punto fondamentale, ma anche l'unicità di tutta l'avventura punk.

Sta nell'aver trasformato il rifiuto verso la vita e la famiglia borghese con le sue false speranze e le sue aspettative mediocri, in una consapevolezza in cui "No Future", ma anche "nessuna illusione", "distruggi le tradizioni", "fotti l'autorità", "rifiuta le regole", non erano solo slogan ma le basi di una precisa scelta antimilitarista, anticlericale, e da lì pacifista, antinucleare, vegetariana, che erano condotte sul filo di una lametta davvero insanguinata, con davvero la consapevolezza della mancanza di illusioni, e quindi senza progettualità buoniste. E che terminò nel marciume decomposto e nel dramma dell'impossibilità di una soluzione totale e radicale che, messa a confronto con una capacità analitica realistica, poteva portare solo depressione e implosione (o la morte), anche perché accompagnata dall'invisibile (e allora inconsapevole) guida della critica situazionista.



Il vero progetto vincente del punk però fu di mettere in pratica esperienze di "vita ed economia" alternative realmente funzionanti. Si strutturò un collettivo, PUNKamIN/azione, che produsse una rivista la cui redazione (anche finanziaria) era gestita volta per volta in una città diversa, e da qui si creò una struttura di locali occupati e/o autogestiti, varie situazioni di produzione e distribuzione interna di dischi e materiale di controinformazione, si occuparono appartamenti e palazzine e si mise in pratica una socialità "nostra", totalmente aliena alla logica post-capitalista che fluiva allora e che avrebbe poi gestito il marketing di tutti i "disagi giovanili" successivi. Ma non il nostro. Questo gli scoppiò tra le mani nelle manifestazioni, negli scontri con la polizia e nelle interruzioni dei consigli comunali, nelle occupazioni di case, spazi e perfino nelle mattonate alle vetrine dei negozi di dischi "ufficiali".

Punk fu la dimostrazione che "la musica è politica" e non canzoncine coi testi ribellistici, ma solo quando è un tutto integrale con la scena che la produce e la vive. E tale integralità, compreso il rigore a volte grottesco delle scelte "contro" tutto e a qualunque drammatico prezzo, e la radicalità espressiva che non rese mai consumabile dalle "masse piattomarroni" l'aspetto estetico/espressivo e la musica (quel "rumore perché non si era capaci neppure di copiare", ma che tutti potevano fare) fu un percorso di crescita individuale assolutamente fondamentale per tutti/e quanti/e noi che lo vivemmo.

Fu in pratica la creazione di un anticorpo ai virus della società dello spettacolo, usandogli contro un virus più sporco, allucinato, rovinato e malato del loro, il punk. "Costretti" a sanguinare "per scelta inevitabile", come Syd MGX, o a morire suicidi come Darby Crash che la cantò, una frase che intensissimamente descrive uno stupendo libro che non va analizzato, ma interiorizzato. Non va capito ma "sentito", perché non è un manuale di ribellione giovanile, ma la fondamentale esperienza di chi, contando solo sulla forza del proprio rifiuto e la propria energia propositiva, ha reso ribelle non solo la sua gioventù, ma tutta la vita. Tutto il resto, e men che meno la musica, sinceramente non conta.


fonte: http://www.urla.com/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=41

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CHI E'

Helena Velena, transgender, hackeratrice, agitatrice televisiva, polemista irrefrenabile. E’ autrice di libri come: “Culture contro”, “Dal cybersex al transgender” e “Il popolo di Seattle”.

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