Il 1977 verrà ricordato come il '68 italiano. Ma cosa è stato veramente il '68? E che lezione ci ha lasciato? Ce lo dice Renè Lourau, il grande sociologo libertario, purtroppo scomparso prematuramente nel gennaio del 2000.
Mi chiamo René Lourau e sono attualmente professore di sociologia all'Università di Paris 8, cioè un'università inaugurata nel '68 a Vincennes. Mi occupo ormai da molto tempo di un filone di ricerca denominato "analisi istituzionale", in stretto rapporto con l'autogestione e con le idee libertarie in quanto si tratta di analisi e critica dello Stato.
È appunto nel '68 che ho cominciato queste ricerche, quando ero assistente di Henri Lefevre all'Università di Nanterre. È noto che molti degli eventi del '68 sono cominciati nel dipartimento di sociologia di Nanterre, dove non c'erano soltanto docenti come Henri Lefrevre o Jean Baudrillard, ma c'erano anche degli studenti, come un certo Cohn-Bendit o come Duteuil e qualche altro. Quindi il '68 è per me non un simbolo ma una realtà.
Ora, una delle idee uscite dal movimento del '68, e non soltanto nel campo dell'educazione, è stata l'idea dell'autogestione; idea assolutamente non nuova, ma già messa in pratica dai repubblicani spagnoli nel '36-'38 e da altri movimenti anarchici dall'Ucraina alla stessa Francia, che però appariva nuova perché caduta nell'oblio.
Un'altra cosa che mi ha colpito del '68, nella pratica stessa del movimento - del quale ben preso abbiamo fatto parte anche noi insegnanti, anche se dal punto di vista statutario eravamo diversi dagli studenti - è stata la reinvenzione delle forme sociali. Dico "reinventate" perché non esistono mai nella storia invenzioni pure e semplici e perché ci sono periodi di oblio - più o meno lunghi - che danno l'impressione di scoprire nuove forme sociali di ribellione che invece sono sempre esistite.
Un movimento molto più vasto
Un terzo elemento di cui mi piacerebbe parlare - ma ce ne sarebbero molti di più - è il fatto che non siamo stati subito consapevoli che si trattava di un fenomeno non solo francese. Eravamo naturalmente informati di quanto era successo negli Stati Uniti dal '66, di tutto il movimento della controcultura, nata in parte dalla contestazione politica contro la guerra in Vietnam, di quanto era avvenuto in Germania l'anno prima.
Ma è solo un po' più tardi che ci siamo accorti che si trattava di un movimento veramente mondiale; si è saputo delle forme, certamente molto più militariste, che aveva preso in Giappone con i zengakuren. In Messico c'erano stati più di 200 morti nella Piazza delle Tre Culture: lì non erano militaristi, ma erano stati i militari, il governo, a massacrare la gente. In Italia e in molti altri Paesi europei, in tutti i continenti, perfino in alcune università africane - l'abbiamo saputo soltanto in seguito - erano successe cose. Per la prima volta dopo le rivoluzioni del 1848 ci siamo resi conto che non eravamo soltanto noi francesi a manifestare contro il governo, che - senza saperlo e senza ancor oggi poter analizzare le cause planetarie del fenomeno - facevamo parte di un movimento molto più vasto.
In assenza di un'ideologia precisa - cosa di cui, naturalmente, i politici e in particolare i comunisti e i marxisti si rammaricavano - in assenza di un'ideologia predominante e di uno stato maggiore (cose che vanno insieme) nel movimento, bisogna accettare l'idea che esisteva all'epoca, creata da condizioni che sarebbe troppo lungo analizzare, tutta una produzione di immaginari sulla società - come era, come non doveva essere, come avrebbe dovuto essere - senza che però ci fosse, salvo nei gruppuscoli più organizzati di tipo trotzkista o marx-leninista, un programma "chiavi in mano", una società di sostituzione (nello stesso modo in cui si riceve un'automobile di rimpiazzo quando si è avuto un incidente e si ha una buona assicurazione).
Questa è davvero un'originalità sociologica del movimento del '68: il fatto che per qualche settimana l'immaginazione ha preso il potere, anche se ha poi dovuto cedere il posto, dopo le elezioni di fine giugno, alla dura realtà; che in effetti non era la realtà bensì anche in quel caso l'immaginazione, ma l'immaginazione della paura, cioè della Francia profonda che aveva voglia di ritornare all'ordine e che ha dato un'inaspettata maggioranza alla destra.
È difficile fare un bilancio trent'anni dopo. Ho cercato di mostrare che non era una rivoluzione come le altre: non si è prodotta come le altre, non si è svolta come le altre ed ha avuto, in fondo, conseguenze molto più importanti delle rivoluzioni omologate dalla storia. Le rivoluzioni omologate sono quelle che corrispondono ad un cambiamento degli uomini politici, cioè quelle che iniziano un processo d'istituzionalizzazione, e come Max Weber ed Hegel hanno dimostrato, interviene la negazione, cioè si assiste ad una specie di rinnegamento - programmato ed orchestrato - del progetto rivoluzionario iniziale.
Naturalmente anche molti protagonisti del '68 sono "entrati" in questa istituzionalizzazione neo-liberale che ha cominciato a manifestarsi negli anni Settanta. Ma non c'è stato, né in Francia, né in altri Paesi, un processo d'istituzionalizzazione concretizzatosi in una dottrina sociale o in un cambiamento di uomini politici. Quindi, ancora una volta, c'è qui una grande originalità dalla quale discende la difficoltà di fare un bilancio.
Programma anarchico classico
Tenderei però a non ripetere, come tutti, che c'è soprattutto un'eredità culturale. Non ne sono così sicuro, perché la cultura è qualcosa che cambia molto spesso, che possiede una temporalità abbastanza frammentaria, abbastanza rapida, soggetta alle mode. Tra l'altro, la nozione di cultura - che è una nozione da selvaggi, in quanto consiste nel rigettare le altre culture - non mi piace affatto. Ci sono stati, nel campo culturale (senza insistere troppo su questo termine) cambiamenti profondi. Non per niente molti artisti sono stati implicati nel movimento: ricordiamoci dell'occupazione dell'Odéon da parte di Jean-Louis Barrault. Anche in questo caso c'è stata quella che definirei "un'autorizzazione", una libertà data all'immaginazione. In definitiva, si trattava del programma anarchico classico (già ideato da Bakunin, che aveva molta immaginazione e senso estetico), ma non costituiva il nucleo dei programmi anarchici contemporanei agli eventi. Io credo che la vita artistica - definita vita culturale, ma che è soprattutto artistica poiché in letteratura ce ne sono meno tracce - resta ancora oggi largamente tributaria di quel terremoto del '68.
Castoriadis aveva scritto in un articolo che il '68 è soprattutto la critica delle istituzioni. Ci si rende conto che c'è l'istituzione, che non ci sono soltanto i governi, gli uomini politici, i partiti, ma che c'è qualcosa di più profondo, qualcosa di fondamentale che permea tutti gli aspetti dell'esistenza. E l'idea che si possa (traduco alla mia maniera) analizzare l'istituzione - come tanti operai, contadini, studenti hanno fatto nel '68 e anche dopo, sul posto di lavoro o d'attività - è qualcosa che è rimasto, pur se in maniera molto meno netta e visibile. Tuttavia, secondo me è proprio questa la fibra che si può chiamare libertaria (anche se forse si fa troppo onore a certi libertari che non hanno dato l'esempio nella misura in cui si sono anch'essi istituzionalizzati, cosa normale del resto) e che è veramente un'eredità inalienabile, pur se può divenire oggetto di contestazione e di processi, o essere resa completamente invisibile, cosa che avviene in quelle epoche che spingono al pessimismo (non è il mio caso).
Dietro quest'idea, generale e sociologica, secondo la quale c'è qualcosa contro cui ci si può ribellare (il proprio capo, il direttore, la burocrazia o qualsiasi altro organismo), c'è l'altra idea profondamente sociologica - che mi ha fatto dire in precedenza che tutti, in quei momenti, erano sociologi e tutti possono ridiventarlo in qualsiasi momento, perché il '68 ha sparso semi ancora vivi - dell'istituzione-Stato e della critica, sempre più necessaria, dello Stato in tutte le sue metamorfosi. E questo in un pianeta in corso di mondializzazione, dove l'economia sembra regnare su tutto; cosa che scontra continuamente con delle contraddizioni perché assolutamente falsa. Se l'ultima crisi, nata a Hong Kong, è in via di soluzione, lo è per ragioni politiche e non economiche: due frasi di Clinton sono bastate perché questo sedicente flusso economico non si sia esteso e non abbia inondato il pianeta intero. Più che mai, sotto forme che sia gli anarchici che i sociologi dell'analisi istituzionale devono analizzare, è sempre la forma-Stato che - anche se si crede che stia deperendo o che bisogna farne a meno o che ce ne voglia il minimo possibile - è veramente la forma della sovranità, la forma, direi, quasi mistica, in cui tutto finisce per convergere, in cui tutto attraversa le istituzioni. Ed è cercando di capire che cosa rappresenta per noi l'istituzione, il gioco di poteri in cui siamo implicati, che si può capire questa trasversalità statuale, questo vero e proprio modus vivendi, queste modalità con cui lo Stato vive e sopravvive a spese nostre, aggrappandosi a noi, alle nostre vene giugulari come Dracula, e spesso in maniera implicita, invisibile o addirittura inconscia (compresi quegli intellettuali che si credono grandi sociologi, grandi politologi, convinti di conoscere il funzionamento della società).
Ecco, quello che resta del '68 è una grande lezione di sociologia, di cui vedo ancora delle tracce, anche se questa lezione è lungi dall'essere vistosa e squillante come allora. Ma l'estate e la primavera ritornano periodicamente. Non credo assolutamente alla fine della storia, che sia di taglio neoliberale o di taglio nichilista di sinistra: tutto ciò mi è completamente estraneo e se sono portato a pensare così, non è a causa di origini intellettuali specifiche, ma è perché è proprio questa la grande lezione sociologica e politica del '68.
René Lourau
tratto dal Bollettino Archivio G. Pinelli n° 13
fonte: http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/261/29.htm
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