mercoledì 25 luglio 2007
Quando Antonio Gramsci fu arrestato per essere processato dal tribunale speciale fascista, la moglie Giulia si trovava già a Mosca col piccolo secondogenito di appena tre mesi. Giuliano ha solo undici anni quando affronta la perdita del padre che non ha mai conosciuto, stroncato in carcere dall’arteriosclerosi : <<Ebbi un colpo alla testa come di un badile che ti stacca il cranio — scrive —. Non ti avrei mai visto. A undici anni ti aspettavo, da anni ti aspettavo. Avrei sentito il tuo odore, l'odore del mio papà…>>. Per lui inizia una nuova vita e decide presto di dedicarsi alla passione per la musica, passione che coltiverà con interesse e impegno e che lo porterà a diventare un noto professore di flauto e clarino a Mosca.
E’ straordinario come né le quattro mura di un carcere né la malattia e la privazione siano riuscite a scalfire o incrinare l’amore di una famiglia separata fisicamente; con <<…orribili pennini che grattano la carta e domandano un’attenzione ossessionante alla parte meccanica dello scrivere>> Gramsci scrive alla moglie e ai figli ed è commovente pensare al grande Intellettuale che immagina di vederli crescere, inventa per loro fiabe istruttive e li accarezza da quel luogo freddo e sterile.
Giuliano ha vissuto nel silenzio e lontano dalla politica ma ha saputo allo stesso tempo custodire quel cognome di cui ha portato il peso e i segni. E’ cresciuto con un padre che non ha mai potuto vedere e abbracciare ma del quale ha potuto percepire l’eco affettiva.
In autunno sarà pubblicato il libro scritto da Anna Maria Sgarbi, “Giuliano Gramsci, lettere a mio padre”, che condensa tutta la nostalgia e l’amore per la figura paterna. Riporto un frammento di una lettera che mi ha commosso tantissimo e che non ha bisogno di alcun commento:
Caro papà, sono invecchiato, ho ottant'anni... Tu sei sempre quello, giovane, intelligente, acuto e anche bello... Non ti ho mai toccato con le mani, ma ti ho sempre accarezzato sulla carta e ti ho anche abbracciato nei sogni
Spero non sia una lapide a fermare il prezioso contributo che ci ha lasciato Giuliano.
Gianfranca
Vi racconto mio padre, Antonio Gramsci In un libro le lettere del figlio del fondatore del Pci. «Sotto Stalin sarebbe finito in un Gulag, peccato che l'Italia l'abbia dimenticato» |
Di Antonio Gramsci è stato scritto molto e l'interesse per la sua vita e le sue opere si è particolarmente intensificato negli ultimi mesi, mentre si stava avvicinando il settantesimo anniversario della morte, avvenuta il 27 aprile del '37. Ma la maggior parte degli scritti si è concentrata sulla figura dell'intellettuale e del politico, anche per stabilire l'attualità e validità del suo pensiero e del suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ciò che mancava in questa fluviale produzione letteraria era l'uomo Gramsci, l'umanità di questo piccolo grande sardo, fondatore del Pci, emersa solo timidamente nelle Lettere dal carcere e quasi schiacciata sotto il peso del controverso personaggio pubblico, che aveva tutto sacrificato al suo impegno di leader comunista, militante usque ad mortem.
Ora, col libro di Anna Maria Sgarbi «Giuliano Gramsci, lettere a mio padre», che uscirà in autunno per le edizioni Laterza, questa lacuna è stata colmata. Per oltre tre anni, a cominciare dal settembre del 2003, l'autrice ha frequentato assiduamente a Mosca, dove vive, il figlio superstite di Antonio — Giuliano, appunto —, che ha ora 81 anni e che, avendo preferito la musica alla politica fin dall'infanzia, è professore di flauto e clarino presso il Conservatorio della capitale. «Ho trascorso con lui intere giornate a passeggiare molto lentamente — scrive Anna Maria nella prefazione —, sia per l'instabilità della sua camminata che per il dialogo tanto affascinante quanto esclusivo». Il progetto di un libro in cui Giuliano rievoca, con rimpianto, nostalgia e non di rado angoscia, la figura paterna, nasce proprio al termine di queste lunghe passeggiate per le strade di Mosca quando la signora Sgarbi (di professione avvocato internazionale) gli propose di scrivere a quatto mani delle lettere al padre, un papà che non aveva «mai visto» e che morì in prigione in Italia, quando lui non aveva ancora undici anni.
Le lettere sono venti. Caro papà — scrive nelle prima — «sono invecchiato, ho ottant'anni... Tu sei sempre quello, giovane, intelligente, acuto e anche bello... Non ti ho mai toccato con le mani, ma ti ho sempre accarezzato sulla carta e ti ho anche abbracciato nei sogni» (ed ecco riemergere, in un flash-back, la Russia degli anni Trenta quando in casa Gramsci, a Mosca, ci sono «preoccupazioni per il pane quotidiano» mentre per le strade corre «l'eco delle purghe di massa e della lotta contro i trotzkisti e altri "nemici del popolo"»).
Qualche anno dopo il quotidiano Pravda avrebbe annunciato che l'agente dell'imperialismo mondiale, Trotzkij, e nemico acerrimo del potere sovietico era stato assassinato in Messico. Era il 20 agosto 1940. La notizia, annota Giuliano nel suo diario, «ha fatto felice Baffone». Cioè Stalin, suppongo. Avesse ricevuto in carcere una lettera mai spedita, Antonio Gramsci avrebbe aggiunto una nuova sofferenza alle tante che già l'affliggevano apprendendo che l'infanzia, la fanciullezza e anche l'adolescenza di Giuliano e del fratello maggiore Delio erano trascorse «senza libertà, con la paura di tutto». Una delle poche evasioni era andare al cinema dove proiettavano film come La Corazzata Potëmkin che piacevano a Stalin e anche «ai ragazzi della mia età». E nella stessa lettera Giuliano informava con orgoglio il padre di aver ricevuto al termine della prima elementare «un libro molto bello intitolato "Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice"».
Dopo la morte di Stalin, apprendiamo, a casa Gramsci approdavano spesso gli amici comunisti italiani come Pietro Secchia, Scocimarro, Mario Montagnana (cognato di Togliatti) ed altri: tutti curiosi di sapere come fosse realmente la vita nell'Unione Sovietica. Anche per metterla a confronto con quella descritta da Giuseppe Boffa, primo corrispondente dell'Unità da Mosca, o da Maurizio Ferrara. Ma certo non era quella, avverte Giuliano, «romantica e dolce, equilibrata e serena» proposta in un libro di certo Paolo Robotti, che definiva Mosca «grande, austera, infallibile» .
In una delle lettere, c'è un ricordo affettuoso di Palmiro Togliatti e di una sua visita a Mosca, quando salutò «molto dolcemente» i due fratellini, «accarezzandoci il volto e i capelli». Il leader del Pci li avrebbe poi accompagnati sulla collina dei passeri, perché vedessero la capitale «tutta intera, illuminata e festosa». Ma al ritorno tra le pareti domestiche, la mamma sconvolta e in lacrime diede ai ragazzi la terribile notizia: «papà è morto». «Ebbi un colpo alla testa come di un badile che ti stacca il cranio — scrive Giuliano —. Non ti avrei mai visto. A undici anni ti aspettavo, da anni ti aspettavo. Avrei sentito il tuo odore, l'odore del mio papà...». Mussolini che nella sua rozzezza, lo aveva definito «quel sardo gobbo», riconosceva però al professore di economia e filosofia Antonio Gramsci «un cervello indubbiamente potente» e in un passaggio ampolloso ma indubbiamente ispirato da devozione filiale, Giuliano scrive che «per fare un bel ritratto di te bisognerebbe ricorrere alla penna di un Leopardi e di un Manzoni messe insieme. E aggiunge: «Non si cancelleranno mai le pagine dei libri che ti descrivono, non sbiadiranno mai le parole delle tue lettere e dei tuoi pensieri, non sbiancheranno mai le tue fotografie».
Fosse sopravvissuto alle atrocità del carcere e avesse poi trovato rifugio nella Russia sovietica, è l'accorata considerazione che fa ora Giuliano, Antonio Gramsci non avrebbe avuto vita facile sotto il regime di Stalin e quasi certamente sarebbe morto di stenti in qualche Gulag della Siberia o delle Isole Solovskij, insieme a migliaia di altri sventurati risucchiati nel vortice delle grandi purghe. «Per fortuna — confida Giuliano ad Anna Maria Sgarbi durante una delle tante passeggiate — nessuno di noi è finito nel Gulag».
Nel cimitero degli inglesi, a Roma, accanto alla sua modestissima tomba (che in una visita di tanti anni fa ricordo assediata da erbacce), riposano i grandi poeti romantici Percy B. Shelley e John Keats, «il cui nome — recita un celebre verso di quest'ultimo — è scritto sull'acqua»: quello di Antonio Gramsci — assicura Giuliano, che a suo modo lo scandisce ogni giorno baloccandosi tra i suoi prediletti Bach e Vivaldi — è inciso in rosso nella coscienza di generazioni di uomini ed è impossibile dimenticarlo.
fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Spettacoli/2007/04_Aprile/27/gramsci_mo.shtml
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UN BEL RITRATTO DELL'UOMO GRAMSCI
GRAMSCI A FORMIA
di Mariangela Lombardi
Tre colpi di frusta per salutare il capo del partito: così un vecchio carrettiere salutava ogni giorno Gramsci, rinchiuso nella clinica del dottor Cusumano a Formia. La clinica, ora abitazione civile, è un palazzo a tre piani, in periferia, con la vista sul mare. Gramsci arrivò a Formia il 7 dicembre 1933, trasferito, sempre in stato di detenzione, dal carcere di Turi, dopo una breve sosta nell'infermeria del carcere di Civitavecchia. Le sue condizioni fisiche erano gravi. Già nel 1933 a Turi, il prof. Arcangeli gli aveva riscontrato gravi lesioni tubercolari, la presenza del morbo di Pott, arteriosclerosi e ipertensione: era lucido, ma anche psichicamente era provato...LEGGETE TUTTO
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