"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

mercoledì 5 settembre 2007

"Sotto scorta in una Sicilia senza onore"


RICORDATE LA LEZIONE DI PASOLINI? "IO SO"..
ABBATE LA METTE IN PRATICA A RISCHIO DELLA SUA VITA E QUELLA DEI SUOI CARI.
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Minacce al giornalista Lirio Abbate dopo l'inchiesta sulla mafia. "Ho fatto solo il mio lavoro"
Prima le lettere di avvertimento, poi una bomba incendiaria sotto la macchina

Vita sotto assedio di un cronista a Palermo


di GIUSEPPE D'AVANZO



L'arresto di Bernando Provenzano


Dice Lirio Abbate che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37 anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani "buoni", come tutti i siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della "cosca", ricordava Sciascia. Sarà per questo, che Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei fatti e quindi "prendere atto": prendere atto che quello è indagato per mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la magistratura sempre "indaga a 360 gradi".

Nessuno te ne vorrà. È il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: "Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare".

Deve essere questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina ostinazione a ricostruire la rete di complicità "borghesi" che, per 43 anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli dicono che "non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con discrezione". Lirio si preoccupa, altroché. Cerca di capire. Capisce che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle armi per fare "una sorpresa a quel rompicoglioni". Dice Lirio che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto sproporzionato. "In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina, senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti. Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà".

Non passa invece. Un giorno Lirio trova sulla sua auto "la lettera di un amico". Lo invita "a stare attento". In questura dicono che la minaccia è "molto seria", che una scorta armata lo seguirà passo passo durante il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale "fonte" accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al "prendere atto". Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa, decide di "staccare", di venir via dalla Sicilia, di starsene qualche mese a Roma, nella redazione centrale.

Lirio è tornato a Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto. Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona; artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di "solitudine" perché gli sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.

"In quel che mi accade" sostiene Lirio "mi sento fortunato. Sento accanto a me l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli - i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto, parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente "prende atto" di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti - tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. È vero, l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti. Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce ne sono. Basta guardare a Caltanissetta".

Dice Lirio che hanno ragione
il capo dello Stato e il governo a chiedere che "la società civile" faccia la sua parte contro la mafia. È la parte del problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti, oggi. "È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?, ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e, Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che non vale la pena?".

La voce di Lirio sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo qualche secondo, Lirio dice finalmente: "Lo sai perché non decido di andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle, ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti siciliani hanno dimenticato di coltivare".

(5 settembre 2007)

fonte: http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/cronaca/mafia-storia-cronista/mafia-storia-cronista/mafia-storia-cronista.html

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Libri / Bernardo Provenzano & Friends


Lirio Abbate
Peter Gomez
I complici
Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento







Il segretario nazionale dei giovani dell’UDEUR, il nipote dell’ex vicesindaco comunista di Villabate e l’ultimo erede di una famiglia per anni socia del ministro per gli affari Regionali, Enrico La Loggia: a guardarli mentre camminano assieme per le strade del centro di Palermo, sembrano tre ragazzi appena usciti da un convegno sul futuro della Seconda Repubblica. Ma sono tre picciotti. Tre picciotti di Bernardo Provenzano.

Da uno dei maggiori giornalisti d'inchiesta italiani e da un grande esperto di cose siciliane, un libro ricco di materiale inedito (intercettazioni di telefonate tra i figli di Provenzano, documenti tratti da inchieste giudiziarie sui favoreggiatori) su Provenzano, la nuova mafia e i suoi rapporti con la politica. La biografia dell'ultimo capo dei capi letta attraverso le sue alleanze politiche ed economiche: dall'accordo con il Partito Socialista del 1987 fino alla stagione delle bombe di mafia del 1992-93; dall'arresto di Totò Riina fino al patto stretto, secondo i magistrati di Palermo, con i vertici di Forza Italia e dell'Udc siciliana. Un libro esplosivo che ricostruisce, con documenti e testimonianze inedite, la ragnatela di rapporti che hanno permesso a Provenzano di restare libero per quarantatre anni. Un viaggio nella Mafia spa, un'organizzazione criminale che in Sicilia controlla buona parte degli appalti pubblici, lavora con molte cooperative rosse e imprese di dimensione internazionale, ha uomini infiltrati nelle banche, nelle istituzioni economiche, come la Confindustria, e in quelle culturali, come l'università. Quattordici anni dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, l'opera di Peter Gomez e Lirio Abbate racconta come tutto in Sicilia sia tornato come prima, con decine di deputati regionali eletti a Palazzo dei Normanni nonostante i loro evidenti legami con Cosa Nostra, con una serie di parlamentari nazionali arrivati a Roma dopo aver contrattato l'appoggio degli uomini d'onore. Una lenta e inarrestabile riconquista del potere resa possibile dal silenzio delle istituzioni e dei media. In questo quadro l'arresto di Provenzano, più che il segnale della riscossa, diventa solo una tappa nella metamorfosi definitiva verso la mafia del terzo millennio: quella che alla lupara preferisce il doppiopetto.


intervista ad Abbate e Gomez | intervista a Gomez | intervista ad Abbate su Fahrenheit

fonte: http://www.fazieditore.it/scheda_Libro.aspx?l=815

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