"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

martedì 15 maggio 2007

Storie di "ordinaria" immigrazione





DIEGO ARMANDO SE MARCHO



Diego Armando Estacio di 19 anni morì l’ultimo 30 di dicembre, nell’attentato dell’ETA all’aeroporto madrileno di Barajas.





In quale momento abbiamo stravolto la nostra vita? In quale momento abbiamo attraversato il Rubicone?

In verità, fu per il lavoro. Fu per la ricerca di un benessere, per noi, per la nostra famiglia. Impegnando tutto, vendendo tutto. Puntando sul “tutto o niente”. Non per una opzione, ma per imposizione della vita.

E un giorno partiamo, accompagnati solamente dalle preghiere dei nostri familiari. L’Europa era il nostro destino. Gli inizi furono duri, lavorando dove era possibile. Le cose cambiarono. Si iniziò a far arrivare i familiari, i fratelli, i figli. Pareva che la vita non era tanto ingiusta come dicevamo.

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Jacqeline Sivisapa e Wilson Estasio vivevano nella località ecuadoriana di Machala. Avevano una figlia chiamata Carmen. Quando nacque il loro secondo figlio, non ci misero molto a trovargli il nome. La madre era un’accesa ammiratrice del campione di calcio Diego Armando Maradona. Così decisero: si chiamerà Diego Armando. Era il 1987.

Una crisi difficile. Jacqeline pensò che non c’erano alternative. Era il 1994, suo figlio aveva 7 anni. Non importava, doveva fare quella scelta. Si mise in viaggio per Milano, in Italia.

Pareva che per i suoi figli fosse diverso, che potesse dargli quelle opportunità che il suo paese non poteva offrirgli. Iniziò a lavorare accettando qualunque cosa gli fosse offerta. E iniziò ad inviare denaro alla sua famiglia in Equador. Diego continuò i suoi studi alla scuola navale.

Il 1999 celebrò il ricongiungimento Estasio Sivisapa. Jacqeline fece venire la sua famiglia in Italia; per primi arrivarono i suoi fratelli, poi sua figlia e sua madre, e, in seguito, potè far venire Diego Armando a Milano, che all’epoca aveva 13 anni.

“Lo feci andare a scuola. Studiò fino a 17 anni, senza farlo lavorare, perché volevo che si costruisse un solido futuro” dice Jacqeline.

Diego Armando amava il football, era tifoso del Milan, Era di buon carattere. Iniziò a vestire come tutti i ragazzini della sua età, con enormi pantaloni dalla vita bassissima “Mi diceva: Mamma, comprami tutta la roba di taglia più grande che trovi”. Io gli dicevo: “Però, mio Principe, io lo chiamavo “mio Principe”, perché non ti vesti in modo normale? Mi rispondeva: “Mami, è che io sono fatto così”. Cosa potevo dirgli? Io gli compravo quello che gli piaceva.”.

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L’emigrazione fa parte della storia dei nostri paesi


L’economia dei nostri paesi si sostiene in gran parte grazie alle rimesse inviate dai lavoratori all’estero. L’Equador ha più di tre milioni di emigrati nel mondo.

L’Europa vede l’immigrazione non come alternativa ma come problema, e la riduce ad una questione politica. Parlano di “problema dell’Unione”, e studiano su come blindare le frontiere.

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Il padre Winston si era trasferito a Madrid. Diego Armando era in costante comunicazione con suo padre. Lo visitava con relativa frequenza. Mentre era a Madrid, un giorno conobbe colei che diventò la sua fidanzata, Veronica Arequipa, Si innamorò e non tornò più in Italia.

Diego Armando diceva che sarebbe tornato a Milano, in occasione delle feste: “Per Pasqua, per Ferragosto, per Natale. Lo diceva ma non veniva mai” ricorda sua sorella Carmen.

Dopo gli studi iniziò a lavorare con suo padre nei cantieri edili. Dopo poco tempo, andò ad abitare con Veronica a casa di sua suocera, nel barrio di Vallecas. Sempre a Madrid.

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Diciamo che la ragione era in vacanza. Diciamo che nella vita accade di tutto e tutto può accadere. Diciamo: Cos’è che non può andare storto nella vita? D’accordo. Però chi lo spiega a mio figlio? Viene in cerca di benessere e trova solo dolore e distruzione. Come possiamo comprendere chi cerca di risolvere i problemi con le bombe. E’ la legge della giungla. E’ l’odissea della vita che ci impone un destino molto oscuro.

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Diego Armando e la sua compagna avevano trovato un appartamento, dovevano firmare il contratto in un “giorno di questi”. Diego Armando telefonava costantemente in Italia. Era pieno di sogni e illusioni, gli piaceva l’idea di poter terminare i suoi studi di meccanica, sollecitava la madre e la sorella che venissero a vivere a Madrid, e poter riunire così tutta la famiglia, gli piaceva poter disporre di denaro, amava pensare di poter tornare un giorno a Machala e costruirvi la sua casa.

Il destino cambiò tutto, rovinò tutto. Accadde il 30 dicembre del 2006, un attentato dell’ETA nell’aeroporto madrileno di Barajas causò una serie di distruzioni e di disgrazie. La stampa disse che diverse persone avevano perso la vita, e che si stava procedendo all’identificazione dei corpi. Tutti pregarono che non fosse certo, che Diego Armando non fosse lì. Furono solo illusioni. Alle 9 e 35 della mattina furono ritrovati i resti del suo cadavere tra le macerie. Il sogno di Diego Armando Estacio Sivisapa era finito nel modo peggiore. La sua famiglia arrivò a Madrid nella circostanza peggio desiderata. Un Boeing 747 con 240 posti lo portò a Machala. Sua ultima dimora. “Non è possibile che qualcuno a 19 anni, con tanti sogni, se ne sia andato.. Non crede?” Dice sua madre.

da Las Americas – la revista latina en Italia – abril/2007, Milano

traduzione di mauro

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Ecco, questa è una storia letta da me in una pizzeria di Milano, in attesa di un caffè.. Mi ha colpito per la sua tragicità, ma ha anche provocato amare riflessioni. Lo spazio attorno a me si è popolato di fantasmi, figurine di esseri che ho incontrato, e incontro, a decine, a centinaia, nella vita di tutti i giorni. Figure di contorno, quando va bene mentalmente da allontanare perché estranee al mio, al tuo, al nostro modo di vivere.

Ma non sono figure. Sono “persone”, umili, coraggiose, che affrontano le durezze della vita con spirito di allegra sopportazione. Che lavorano per scopi precisi. Che sono ancora famiglia.

Che affrontano distanze enormi per recarsi in paesi di cui non sanno nulla, ma che possono offrire l’opportunità di una vita migliore, per sé ed i loro cari. Ed una volta di più ho pensato che dobbiamo portare loro rispetto. Perché hanno sogni, perché hanno lacrime, perché hanno dolori, esattamente come i nostri. Molte volte più dei nostri.

mauro

1 commento:

ska ha detto...

Hai ragione, Mauro. Io non oso pensare a come mi sentirei lontana da casa, dai miei affetti, non per scelta ma per necessità.
E' un bel titolo, questo, per il post in questione: perché credo che la maggior parte delle storie degli immigrati siano di questo tipo, nonostante la campagna di demonizzazione degli immigrati non solo da parte della Lega, ma ben più grave anche da parte dei mezzi di informazione, dove l'autore di un reato è sempre contraddistinto dalla sua nazionalità, meglio se albanese o rumena, ad aggettivare il termine "immigrato"...come se fosse una colpa! Come se chi viene qui chiedesse l'elemosina e non si spaccasse la schiena per sopravvivere e provvedere alla propria famiglia. Come se non l'avessere fatto anche e soprattutto gli italiani....quanto si fa presto a sentirsi "signori" e dimenticare le proprie origini...