I prezzi alle stelle hanno acceso la protesta nel paese: anche i monaci in piazza.
Inaspriti i controlli sul premio Nobel Aung San Suu Kyi
dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
RANGOON - "Chi visita la Birmania spesso non può rendersi conto di quanto sia difficile la nostra vita quotidiana. In superficie c'è un'apparenza serena ma chi ha qualche familiarità con gli Stati governati da dittature inefficienti, sa vedere dietro l'apparenza. Prendete un taxi e osservate le automobili che circolano: tutti fanno benzina al mercato nero, benzina rivenduta dai funzionari del governo a dieci o quindici volte il prezzo ufficiale". Così scrive nelle sue Lettere dalla Birmania Aung San Suu Kyi, premio Nobel della pace. La signora Suu Kyi ha passato la maggior parte degli ultimi 17 anni isolata dal mondo, agli arresti domiciliari nella sua casa di Rangoon. Di recente la sorveglianza della giunta militare su di lei è stata inasprita. "Non le consentono più neppure gli incontri informali davanti a casa coi suoi simpatizzanti, come succedeva alcuni anni fa", sussurra la mia guida. Ma i rigori dell'arresto non le hanno impedito di mantenere una rete capillare di contatti nel paese e quella sua lettera sulla benzina sembra profetica.
Al mio arrivo in Birmania la prima cosa che ho notato è il pullulare di bancarelle ai lati delle strade, rivendite di bottigliette di un liquido opaco: è appunto la benzina al mercato nero, l'unica che si trova in abbondanza (in un paese ricco di petrolio!) ma a prezzi proibitivi per la popolazione: il 90% sopravvive con meno di un euro al giorno. Il 19 agosto anche la benzina "legale", rigidamente razionata, è rincarata del 500%. La stessa stangata ha colpito il gas liquido che si usa per cucinare. È un colpo insopportabile per un paese già stremato dalla miseria e oppresso dalla dittatura militare più longeva della storia. Il rialzo della benzina e del gas ha fatto esplodere la più estesa protesta degli ultimi 10 anni.
Da due settimane la capitale Rangoon e molte altre città sono percorse ogni giorno da manifestazioni. Sono piccoli cortei improvvisati, poche centinaia di persone, ma i loro slogan contro l'inflazione raccolgono applausi spontanei della gente. Le proteste durano poco. Sui manifestanti si avventano gruppi di picchiatori, le famigerate milizie in borghese. Sono squadracce a cui l'esercito delega le aggressioni contro i dissidenti, per poterle descrivere come "reazioni spontanee di cittadini onesti e patriottici". Da alcuni giorni agli incroci più importanti di Rangoon sono parcheggiati camion pieni di giovani teppisti che presidiano la città per intervenire rapidamente a soffocare le proteste.
In due settimane sono finite in carcere 150 persone, tra cui i più noti dissidenti che erano ancora in libertà. È in corso una caccia all'uomo in tutto il paese per catturare gli altri. Gli autobus di linea vengono fermati continuamente ai posti di blocco, i passeggeri devono scendere, esibire i documenti d'identità. Le foto dei ricercati sono distribuite negli alberghi e negli ospedali. Gli arrestati hanno lanciato uno sciopero della fame in carcere per protestare contro le violenze: uno dei loro leader, Oh Wai, ha una gamba fratturata dopo un pestaggio ma i poliziotti impediscono ai medici di visitarlo.
Oh Wai è un militante della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Suu Kyi, "la Lady", come la chiamano con venerazione tanti birmani. Un altro militante democratico, Aung Moe Min, ha tentato di organizzare una marcia non violenta, 260 chilometri dalla città di Laputta fino a Rangoon. Doveva partire lunedì, lo stesso giorno in cui la giunta militare ha annunciato di avere concluso i lavori per la nuova Costituzione, la cosiddetta "road-map" verso la democrazia. "Se il governo vuole davvero portare la democrazia al paese - ha dichiarato Aung Moe Min - che cominci a dimostrarci che i cittadini possono esercitare i loro diritti civili e manifestare pacificamente". La maratona non violenta è finita prima di partire, i manifestanti sono stati subito arrestati.
Malgrado i metodi brutali il regime stenta a ristabilire l'ordine. Una contestazione è riuscita a spuntare a Kyaukse, la città natale dell'uomo forte della giunta, il generale Than Shwe. A Pkokku, a nordovest di Rangoon, anche 500 monaci sono scesi in piazza e i soldati, per la prima volta dall'inizio delle dimostrazioni, hanno sparato in aria. Le proteste sono arrivate perfino a Mandalay, la città più turistica, l'antica "vetrina imperiale" del paese dove il regime cerca di offrire un volto presentabile agli stranieri. A Mandalay, in mezzo alla profusione di pagode dorate che affollano le colline lungo il fiume Irrawaddy, in uno dei siti più ricchi di arte buddista nel mondo, i bambini hanno imparato a fare un gesto universale di fronte al turista: uniscono le dita e portano la mano alla bocca, il segno della fame.
A Mandalay quando ho partecipato alla distribuzione di aiuti (privati) agli alluvionati dei monsoni, ho visto formarsi code di interi villaggi, centinaia di famiglie prostrate in ginocchio per un sacchetto di riso da dividere in otto, dieci persone. Sembra impossibile ma mezzo secolo fa, alla vigilia del primo colpo di Stato militare (1962), la Birmania aveva l'agricoltura più fertile del sud-est asiatico, produceva tanto riso da esportarne, superava in ricchezza la Thailandia. Oggi nelle campagne la bellezza dei paesaggi naturali si accompagna a una desolazione primitiva: tanto lavoro manuale di contadini curvi nelle risaie, qualche bufalo d'acqua, rarissimi i trattori.
Più della miseria contadina il regime dovrebbe temere la nuova povertà del popolo urbano. Dopo il rincaro della benzina che ha fatto raddoppiare anche i biglietti degli autobus a Rangoon e Mandalay i mezzi pubblici si sono svuotati. Per tanti lavoratori ormai il biglietto dell'autobus costa la metà del salario quotidiano. Il prezzo del riso è aumentato in una settimana del 10%, le uova del 50%, una minestra di spaghetti locale è triplicata. Ci sono ex-funzionari dello Stato a riposo che non possono più permettersi il taxi una volta al mese per andare a ritirare la pensione. Con discrezione perfino la mia guida - una privilegiata perché lavora a contatto con gli stranieri - mi implora di lasciarle la mancia in dollari: al mercato nero la valuta estera va a ruba, il dollaro è alle stelle. Di recente la neutralissima Croce Rossa internazionale - che in genere evita prese di posizione contro i governi - ha condannato la giunta militare birmana con una durezza che usò solo per il genocidio del Ruanda nel 1994.
La requisitoria della Croce Rossa è un elenco terribile di crimini. Nella loro lotta contro le minoranze etniche (come i Karen di religione cristiana) i militari birmani hanno distrutto più villaggi di quanti ne sono stati rasi al suolo nel Darfur. La giunta continua a imporre i lavori forzati alla popolazione, descrivendoli come "volontariato di tradizione buddista". Il narcotraffico che parte dal Triangolo d'Oro ai confini con Laos e Thailandia, gestito dal "signore della guerra" Khun Sha in accordo con il regime, ha provocato un'epidemia di Aids. Gli unici sprazzi di sviluppo economico e di modernizzazione sono nelle città al confine cinese che lucrano sul commercio dei prodotti made in China. Sempre più numerosi sono i birmani e le birmane costretti a emigrare in Thailandia in condizioni disperate; come clandestini finiscono in semischiavitù nei cantieri edili o nella prostituzione.
Uno degli osservatori più acuti del suo paese è Thant Myint-U, 40 anni, nipote dello scomparso U Thant che fu segretario generale dell'Onu negli anni Sessanta. "La guerra civile birmana - sostiene Thant Myint-U - è il conflitto armato più lungo del mondo contemporaneo e tuttora non può dirsi concluso. In un certo senso qui la seconda guerra mondiale non è mai veramente finita". In lotta contro gli inglesi, poi contro i giapponesi, contro due invasioni cinesi, contro vari focolai di guerriglia comunista e contro la resistenza armata di varie minoranze etniche, questa nazione di 56 milioni di abitanti ha visto crescere nel suo seno uno degli eserciti più numerosi del mondo: 400.000 soldati, un'armata-piovra che succhia le risorse vitali della popolazione.
La casta militare ha i suoi punti deboli. Incompetenza, inefficienza e corruzione stanno portando l'economia al tracollo e il malcontento sociale può saldarsi con la sete di libertà e democrazia. Cominciò così nel 1988, la "primavera birmana". Dapprima ci furono le proteste per il rincaro del riso, e per quel furto di Stato che fu la "conversione" della moneta (i due terzi delle banconote vennero dichiarati non più validi). Di fronte all'esasperazione della gente il dittatore di allora, il generale Ne Win, concesse le elezioni democratiche convinto di poterle manipolare. Fu un errore clamoroso, la prova che l'esercito non aveva il polso del paese reale. Alle urne nel 1990 stravinse la Lega democratica di Aung San Suu Kyi umiliando il partito dei generali. Seguì una repressione feroce, tremila morti, e un nuovo golpe militare.
Ora gli eredi di Ne Win rimettono in scena una tragica farsa. La loro nuova Costituzione dovrebbe spianare la strada alla democrazia. Finora sembra fumo negli occhi per tentare di recuperare qualche credibilità, nel paese e all'estero. Dietro i rincari della benzina qualche oppositore sospetta un disegno diabolico. Forse la giunta militare soffia deliberatamente sul fuoco della protesta. I disordini possono fornire il pretesto per un ennesimo giro di vite, e rinviare a tempo indefinito le libere elezioni che il regime aveva promesso.
(1 - segue)
6 settembre 2007
fonte: http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/esteri/birmania-cortei/birmania-cortei/birmania-cortei.html
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