"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza." Antonio Gramsci

sabato 22 dicembre 2007

SIOUX – LA TRIBU’ TORNA SUL PIEDE DI GUERRA



Inviato di Repubblica

Vittorio Zucconi

WASHINGTON – Lungo il “sentiero dei tradimenti”, il calvario dei trattati di pace calpestati dall’uomo bianco che la Nazione Indiana percorre da 140 anni in una processione di profughi in casa propria, si rialza lo spirito dei guerrieri più temuti, gli Oglala Lakota della Nazione Sioux, i nipoti di Nuvola Rossa, di Cavallo Pazzo, degli sterminatori del Settimo Cavalleria, minacciando non la guerra, ma la secessione.

Gettano i passaporti degli Stati Uniti e le patenti, stracciano quei documenti emessi dal governo federale come quel governo ha ignorato i più di 150 trattati solenni firmati con questo o con quel capo sconfitto dopo le “guerre indiane” di fine Ottocento. Siamo americani quanto voi e prima di voi, comunicano al Dipartimento di Stato, ma non siamo più cittadini degli Stati Uniti d’America.

E’ nata l’ala più militante e più radicale del popolo indiano, lo American Indian Movement che personaggi come il giurista di Harward e gran teorico dell’ammissibilità della tortura Allan Dershowitz ha chiamato “terroristi”, a presentare a Washington il documento di secessione. Lo hanno portato sette ‘capi’ di sette riserve guidati da Oyate Wacinyapi, “Colui che aiuta la gente”, un Oglala Lakota, figlio di quella riserva di Pine Ridge in South Dakota dove vive lo spirito di Cavallo Pazzo e sopravvivono a fatica i due mila discendenti dei guerrieri che per ultimi si arresero per fame ai soldati blu.

Il suo nome in inglese è Russel Means, un attore che ha recitato in film come “L’ultimo dei Mohicani”, un agitatore accusato di avere partecipato ad azioni di rivolta armata, condannato e perdonato poi dal governatore dello Stato, un ciarlatano, secondo i nemici, un guerriero indomito, un cacciatore di pubblicità, dunque un personaggio scomodo per tutti. Per l’Fbi, che lo sorveglia da quando guidò la rivolta di Wounded Knee, luogo dell’ultimo insensato massacro di donne e bambini indiani, poi la marcia lungo il “sentiero dei trattati calpestati” nel ’72 è un sovversivo.

Per il Bureau of Indian Affaire, che dovrebbe amministrare il pagamento dei risarcimenti previsti da quei trattati è un disturbatore e lo temono gli anziani dei consigli tribali, che sanno per amara esperienza che provocare “il grande nonno”, il presidente ed il governo federale, non porta mai bene alla loro gente.

Ma ciarlatano o cheguevara che sia, Russel Means, che ha datto al proprio figlio il nome di Toro Seduto, “Tatanka Yotanka”, resta a quasi 70 anni l’ombra di una realtà indigesta per lo uasìchu, l’uomo bianco: la violazione dei trattati.

Ha spalancato il tombino di una questione che Washington aveva creduto di risolvere una volta per tutte nel 1926 quando, con un atto del Parlamento, proclamò tutti gli Indiani d’America – come Russel preferisce chiamarli, piuttosto del politically correct “nativi” – cittadini degli Stati Uniti. In un gesto che parve magnanimo, in realtà il governo federale aveva di colpo spazzato via tutti gli impegni, le responsabilità, i limiti e soprattutto le assegnazioni territoriali contenute nelle dozzine di trattati che Washington aveva firmato in quasi 50 anni di reciproci massacri e di spedizioni punitive.

Poiché un “trattato” può essere stipulato soltanto fra governi e Stati sovrani, e non con cittadini del proprio stesso paese, quelle firme apposte mettendo “la mano sulla penna”, come dicevano gli indiani perché i funzionari ed i militari governativi dovevano guidare la mano dei capi analfabeti sulla carta, non avevano più alcun valore.

Nessuna altra nazione soffrì, e fu punita, quanto i Sioux, come i primi trappolatori e cacciatori francesi avevano chiamato la vaga confederazione di popoli nomadi, Lakota, Nakota e Dakota (tre parole che hanno lo stesso significato di “amico”) che spadroneggiavano sulla Grande Prateria dal Minnesota al Nebraska. Come i Mongoli dei Khan dalle steppe all’Europa, così i Sioux dominavano il West grazie a quel fantastico strumento di guerra che essi per primi, e meglio di tutti, avevano saputo padroneggiare approfittando della fuga dei primi invasori spagnoli dai loro accampamenti abbandonati: il cavallo.

Nel dominio su territori brulicanti di animali selvatici, dal “dio” bisonte padre dell’economia tribale, ai grossi roditori chiamati “cani della prateria”, in un Eden di erbe e piante medicinali, i Sioux erano signori degli altipiani cha salgono dal Mississippi verso il massiccio delle Rockies, carnivori, fisicamente più grossi (“Colui che aiuta la gente” è alto un metro e 90), prepotenti odiati dai vicini. Ma la dimensione della loro potenza era lo spazio. Quando i binari della prima ferrovia Nortwest Pacific tagliarono i loro territori di caccia ed i fucili dei cacciatori bianchi sterminarono i bisonti, ai Sioux fu strappato il cuore ed il resto fu fatto dalla corsa all’oro nei fiumi e sui monti sacri.

Come si vede oggi, attraversando le Riserve nei cinque Stati dove sono sparsi i 30mila che vi sopravvivono, e soprattutto nel territorio di Pine Ridge, dove nacque Russel Means, i formidabili guerrieri nomadi che per anni tennero testa ai dragoni della cavalleria federale non riuscirono mai a compiere la transizione da un passato troppo orgoglioso per essere superato. Soltanto i Cherokee della Georgia, espulsi con la forza delle armi e con l’ennesimo trattao dai propri territori natali e costretti a percorrere a piedi i mille chilometri che li separavano dai campi destinati a loro dal governo in Oklahoma, conobbero, lungo “Il sentiero delle lacrime”, una sorte altrettanto amara.

Ma ancora più della crudele ingordigia dell’invasore bianco, persuaso che tutto il continente gli appartenesse nel “destino manifesto” della colonizzazione europea, e della desolazione dei territori di scarto assegnati come riserve, la maledizione del popolo indiano fu, ed ancora oggi è, la incapacità di formare una lobby, di guardare oltre le gelosie e le rivalità che ne corrosero sempre la forza.


La immortale risposta di Toro Seduto, la guida spirituale dei Cheyenne e dei Lakota che annientarono Custer al Little Big Horn nel 1876, riassunse la tragedia perfettamente. Quando gli chiesero perché gli indiani fossero stati sconfitti da pionieri e soldati bianchi infinitamente meno numerosi di loro, Toro Seduto rispose: “Perché noi avevamo sempre troppi fottuti capi e mai abbastanza fottuti indiani”. Un equivoco che produsse sconfitte militari subite per individualismo e rivalità tribali e tremende incomprensioni fra i bianchi ed i rossi: gli inviati di Washington facevano firmare i trattai di pace a quello che credevano essere “il grande capo” soltanto perché aveva più penne, figli o pelli indosso, pensando che fra di loro vigesse la stessa gerarchia piramidale della società europea.

Dunque, anche “Colui che aiuta la gente”, Russel Means, che ieri ha portato la dichiarazione della secessione dei Sioux dal “nonno bianco”, dal presidente e dalla sua America, rappresenta tutti e nessuno, ste stesso ed insieme l’anima di tutte le donne, i bambini, gli sciamani, i vecchi ed i guerrieri che furono portati, come i loro bisonti, ad un passo dall’estinzione. E’ difficile credere che i 700mila indiani che ancora vivono sul territorio degli Stati Uniti senza essersi integrati nella società bianca, proclamino, come scozzesi e baschi, un’autonomia territoriale che si estenderebbe dallo Stato di New York agli Apache dell’Arizona.

Ci sono nazioni, come quella dei Navajo nel Sud Ovest, che dallo sfruttamento delle risorse naturali nelle proprie riserve, e dal turismo, ricavano buoni redditi, mentre sulla costa atlantica le piccole comunità che hanno aperto casinò extraterritoriali, come quello colossale di Foxwood nel Connecticut, distribuiscono dividendi e prosperità ai membri della tribù e devono selezionare con attenzione il numero di coloro che si riscoprono improvvisamente Mohicani, Irochesi o Chippewa per partecipare alla festa.

Se la rivolta contro il tradimento dei trattati dovesse davvero accendersi, non potrebbe che essere nella desolazione delle riserve Sioux, nelle miserabili casette prefabbricate di pvc che hanno preso il posto dei tepee, e nell’inverno glaciale che taglia le praterie secche e scalda i ricordi dell’orgoglio.

Soprattutto in quella riserva dove ancora oggi nessuno degli Oglala vuole dire a noi bianchi dove siano sepolte le ossa di colui che ancora vive a tornerà a fare giustizia. Tashunka Uitko, il “Cavallo folle di Dio”.

Vittorio Zucconi


fonte: laRepubblica – 21 dicembre 2007

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