di Pasquale Colizzi
Per capire quanto dirompente e lontana dall’immaginario fu la nascita delle grandi fabbriche nel nostro paese, quelle che accompagnarono il boom del dopoguerra e cambiarono per sempre i gesti, le ambizioni, persino l’aspetto di milioni di italiani, sarebbe bastata la figura quel ragazzino calabrese pescato tra le immagini di una delle tante inchieste che la Rai di allora conduceva. E che ha smesso di fare negli anni ottanta, testimoni gli archivi. Raccontava di essere appena arrivato a Milano e che lo avevano preso in una officina per montare motori. In paese invece come lavoro raccoglieva gelsomini per i profumi. Quel volto deciso, timido ma fiero, è uno dei centinaia che scorrono nella piccola, emozionante storia d’Italia incarnata dagli operai dell’industria che Francesca Comencini ha montato insieme a Massimo Fiocchi utilizzando l’ampio materiale delle teche Rai. Un doc che ha riscaldato il pubblico di Torino vincendo il Premio Cipputi e che la regista ha presentato in una serata all'Auditorium di via della Conciliazione. Vi consigliamo di non perderlo nel passaggio su RaiTre giovedì 14 febbraio, in seconda serata.
Bellissime le parole che ha usato la regista per inquadrare In fabbrica: «Ho cercato di non essere animata dalla nostalgia, che secondo me è un’ossessione, un rovello, un sentimento dominante nel nostro paese. La nostalgia è un modo di scagliare il passato contro il presente. Ci consente di sfuggire al dovere di pensare il nostro tempo, di agirlo». E infatti c’è una sensazione di concretezza, di grande etica del lavoro, di consapevolezza e voglia di progresso in questa lunga carrellata che parte dagli anni cinquanta, con le immagini delle prime transumanze sud-nord e arriva ai nostri giorni, nello stabilimento d’eccellenza della Brembo, con le parole di un operaio di colore che testimonia e spiega perchè i fenomeni migratori esisteranno sempre. Gesti, abitudini, percorsi personali, vezzi dei compagni di lavoro catturati spesso da grandi registi (uno per tutti, Ugo Gregoretti) raccontano più dei numeri cosa significò ricostruire il paese con il sacrificio delle braccia e cosa sia ancora adesso, nonostante certa latitanza dei media, al di là del parolaio politico su astruse architetture parlamentari.
Enrico Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat
In un continuo parallelo tra gli esterni assolati del sud e gli interni incandescenti, fumosi o tuonanti degli impianti industriali delle città del nord, il doc mostra come lo spirito nazionale si fece anche grazie ai luoghi di lavoro. Perché negli anni cinquanta i “terroni” arrivavano come marziani in ambienti sconosciuti e venivano risucchiati nella catena di montaggio. Ma all’interno delle fabbriche trovavano colleghi “polentoni” che pativano le stesse condizioni. Fu saldando lo scontento per le reciproche rivendicazioni e con grazie al collante sindacale che nacque una piena coscienza di classe: diritto alla casa (c’è chi dormiva sistematicamente in stazione e la mattina timbrava il cartellino), all’assistenza sanitaria, alla sicurezza sul luogo di lavoro, il rifiuto delle mansioni ripetitive per una visione responsabile e produttiva della propria attività. La disoccupazione al 3% del 1962, il dato trionfante di un’economia orgogliosa del proprio sviluppo, viene così contestualizzato.
All'interno della Brembo
L’evoluzione della Fiat, la fabbrica che può sintetizzare la figura degli altri grandi impianti come Pirelli, Olivetti, Italsider, scandisce le tappe dell’ascesa di un sentimento di comunanza e unità operaia e il suo futuro declino: il primo grande sciopero del ’62 davanti a Mirafiori, con riprese effettuate dall’interno degli uffici e poi l’autunno caldo del ’69, la consapevolezza di contare perché ci si è contati, segnò il punto di avanzamento massimo di quelle battaglie. La cocente sconfitta sindacale dell’80, con l’accettazione del piano di licenziamento per 14mila operai (nel ’69 erano stati 61) e la “contromarcia” dei 40mila colletti bianchi sancì la fine della centralità della questione operaia all’interno di un paese che stava mutando il suo modo di lavorare. Il doc di Francesca Comencini - che nella sua essenzialità e nella giustezza degli accostamenti è un piccolo gioiello – si chiude rilanciando più questioni. Una, fondante, riguarda la centralità della vertenza lavoro in fabbrica: gli operai, che sono ancora tanti, hanno voglia di buona occupazione, di un ambiente sicuro e di una missione da svolgere con orgoglio e soddisfazione come testimoniavano quelli della Brembo. Sull’altro fronte ci sono i media, in primo luogo la Rai col suo ruolo di servizio: negli anni sessanta veniva contestata durante i cortei e qualcuno urlava: "Non ci sono soltanto le Kessler, parlate anche di noi". L’invito a rimettersi al passo del paese reale è ancora valido.
pasquale.colizzi@fastwebnet.it
Pubblicato il: 31.01.08
Modificato il: 31.01.08 alle ore 13.14
fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=72545
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3 commenti:
Bravi i "miei" titolari del blog! Che con questa notizia oltre a rendere omaggio ad una regista attenta e sensibile, mi hanno ricordato un'altro importante film (sottaciuto fin troppo):
Titolo: MI PIACE LAVORARE (MOBBING)
è un film prodotto nel 2003 e diretto da Francesca Comencini.
Prima o poi ci farò un post su questo film, entrando in quei particolari quotidiani che sfuggono ai più e che poi, gli stessi "più" gridano in lungo e in largo il loro desiderio di cambiare il mondo e/o le politiche del lavoro.... ma dico... stamane al tuo collega, gli hai ceduto per qualche minuto il tuo PC? Oppure gli hai detto che non potevi?... stronzo!
...E il cavetto USB che avevi nel tiretto, perché non glielo hai ceduto?... tanto prima o poi cambierà l'hardware e voglio vedere che cosa te ne farai! Aristronzo!
Lavoro-uomo/uomo-lavoro... che casino! Che universo complesso!!
... una piena coscienza di classe:
ecco cosa manca oggi!
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