

(fonte: www.erbamil.it/
...
La         dialettica hegeliana "Problema-Reazione-Soluzione", è         ieri come oggi, messa in atto dal Sistema!
     Quando si vuole realizzare qualcosa, è estremamente funzionale (11         settembre 2001, docet. La ridicola quanto vergognosa epidemia di         meningite in Veneto, ecc.)
     Il Problema è (l'hanno fatto diventare tale) la Monnezza,         la Reazione è (ovviamente) l'indignazione dei cittadini e         la Soluzione (magica) saranno gli "Inceneritori"         o "Termovalorizzatori", che tutti accetteranno con entusiasmo,         pur di risolvere quanto prima la situazione ambientale e umana         indecente.
     Purtroppo grazie a questi Cancrovalorizzatori,         avremo nei prossimi vent'anni un aumento spaventoso di patologie         respiratorie gravissime (nanoparticelle) con inquinamento delle falde         acquifere. 
         Voragini di miliardi di euro per la gioia dei politici (mafie &         massoneria) e le lobbies del farmaco...
         Marcello Pamio
Nel         paese dei monnezzari
     di Carlo Bertani
“Bande di teppisti senza una         strategia complessiva”, ecco come un Ministro dell’Interno ex         socialista, e nominato da un governo di centro-sinistra, definisce il         malessere degli abitanti del napoletano. E, questo, dopo aver         “sentito” il Capo della Polizia Manganelli (basta il nome…) ed         aver nominato De Gennaro (Genova 2001?) Commissario Straordinario per 
     L’Italia è un “paese fotocopia”. Ogni anno che passa, potremmo         “riciclare” le notizie di quello precedente: come nel 2007, 2006,         2005…anche quest’anno è scoppiata “l’emergenza rifiuti”.         Anche le notizie fanno monnezza.
     Come andrà a finire? Come tutte le “emergenze” italiane: dapprima         si criminalizza chi protesta per il sacrosanto diritto alla propria         salute (le cifre sull’incidenza dei tumori riportate da Saviano         parlano chiaro), poi partirà una strategia formata da promesse (tante),         soldi (a chi di dovere), tanto per rientrare in quell’ordinaria         “normalità” che, a Napoli, significa non avere la monnezza che         arriva al primo piano. Poi, spegneranno i riflettori delle TV, e tutto         tornerà “normale”. Fino alla prossima emergenza.
Intanto,         montagne di rifiuti s’accumulano nelle strade, mentre colonne di         camion cariche di spazzatura s’avventurano – scortate dalla Polizia         – fra paesi in guerra e popolazioni al limite della sopportazione.         Dove vanno? Tentano di raggiungere l’ennesima discarica         “temporanea”, nell’attesa che si trovi l’ennesimo “sito” per         l’interramento definitivo: ovviamente, nell’attesa che sia definito         dove e se costruire un inceneritore, un termovalorizzatore o comunque lo         si voglia chiamare. Intervistati dai solerti TG nazionali, sudaticci         funzionari affermano di “lottare contro il tempo”, “contro gli         immobilismi”, “contro le eco-mafie”, contro…insomma,         un’emergenza apocalittica!
     Ora, “un’emergenza” deriva – per definizione – da un evento         straordinario ed imprevisto: nessuno prevedeva che, anche quest’anno,         avremmo gettato nella spazzatura le bucce dei mandarini e i cartocci del         latte?
Negli         altri paesi europei, si nominano commissari straordinari per i terremoti         e per le alluvioni; nel Bel Paese, alti funzionari dello Stato sono         insigniti dell’ambita carica: Commissario per 
     Tutto         l’andazzo è finalizzato ad un solo scopo: trovare qualcuno disposto         ad accettare sul suo territorio una discarica, un’amena valletta         (meglio se un po’ nascosta) da riempire di spazzatura. Almeno, per         quest’anno “tiriamo il fiato”. Le riunioni “politiche” si         sprecano: sindaci di quel partito incontrano governatori dell’altro,         ma c’è di mezzo qualche “potente” dell’opposto schieramento, e         si torna da capo. S’interpella Roma, ma Roma ha ben altro cui         pensare…elezioni, fusioni di partiti, grandi riforme         istituzionali…no, Roma nomina il Gran Commissario e…che se la sbucci         lui, fra le bucce delle patate e delle arance!
Se         riduciamo all’osso la questione, siamo come un gatto che deve         “farla” ed osserva con circospezione il terreno: dietro a quel         cespuglio? Sotto l’albero? Sì, sotto l’albero va bene: un po’ di         lavoro con le zampe anteriori – quindi l’atto – e lo zampettare         con quelle posteriori per ricoprire il tutto. Anche per oggi, il         problema è risolto. Nel terzo millennio del silicio e delle tecnologie         spaziali, il Gran Commissario osserva il gatto. E impara.
     Proviamo         a salire di un misero scalino ed osservare altre soluzioni?
     Per prima cosa dobbiamo sfatare il mito che la spazzatura, in discarica,         non inquini: inquina pesantemente e definitivamente il terreno, e non         solo.
     Nonostante ci raccontino che sono state seguite alla lettera le         “norme”, e prese tutte le opportune “precauzioni”, vorremmo         sapere cosa genereranno montagne di spazzatura interrate dopo decenni di         piogge. Nessuno può fermare l’acqua, che s’intrufola, scava,         scende: gutta cavat lapidem         – affermavano i latini, la         goccia scava la pietra – figuriamoci la monnezza.
Risultato:         dopo qualche anno, metalli pesanti e molecole d’ogni forma         s’espandono ben oltre i confini della discarica e vanno ad inquinare         le falde acquifere. La preziosa, e sempre più scarsa acqua che abbiamo         a disposizione, dobbiamo prelevarla sempre più lontano dalle città,         perché le falde più vicine sono inquinate da Cromo, Mercurio, Piombo e         molecole d’ogni tipo sparse a pioggia. Addio agricoltura biologica.         Finito? Manco per idea.
     Le molecole organiche (carta, legno, residui alimentari, materie         plastiche, ecc) sono costituite da lunghissime catene formate da atomi         di Carbonio. Tutto cambia – panta rei, affermavano già i Greci – ed il Carbonio può seguire         due strade per “mutare”: l’unica cosa che non può assolutamente         fare è rimanere così com’è, perché la chimica è un continuo         mutare, trasformare, rinnovare.
     Se il Carbonio si lega con l’Ossigeno (tipicamente, una combustione)         forma l’anidride carbonica – responsabile dell’effetto serra –         mentre se è interrato cambia per fermentazione anaerobica. I batteri,         sempre presenti, spezzano le lunghe catene di atomi e formano metano: a         prima vista, sembrerebbe una buona soluzione.
Invece         no, perché il metano che si forma è difficile da recuperare ed è –         per gli usi energetici – di scarsissima entità, mentre – se         liberato nell’atmosfera – inquina, e parecchio. Una molecola di         metano riflette una quantità di radiazione infrarossa (l’effetto         serra) pari a 21 volte quella riflessa da una molecola d’anidride         carbonica! Quindi, dal punto di vista dell’inquinamento, le discariche         sono la peggior soluzione: incrementano enormemente l’effetto serra ed         inquinano definitivamente terreni e falde acquifere.
     L’altra         soluzione è bruciare i rifiuti in appositi impianti, per ottenere la         miglior combustione possibile e ridurre il rilascio di prodotti di         combustione indesiderati.
     Qui bisogna sfatare un mito: i termovalorizzatori producono sì energia         elettrica, ma è sbagliato pensare ad essi come ad un metodo di         produzione energetica. Più seriamente, dovrebbe essere chiarito che         sono mezzi per eliminare i rifiuti, dai quali è possibile recuperare un         po’ d’energia.
     La distinzione è importante perché, se pensassimo ad essi come al         toccasana della produzione energetica, potremmo cadere nell’errore di         generare più rifiuti: tanto ci penseranno i termovalorizzatori!
I         termovalorizzatori, però, bruciano il materiale più composito che         possiamo immaginare: pur trasformando preventivamente i rifiuti nel CDR         (Combustibile Da Rifiuti) mediante complesse operazioni chimico-fisiche,         rimane un composto formato da legno, plastica, coloranti, vernici, ecc.
     All’estero, la tecnologia per bruciare i rifiuti è più avanzata che         in Italia, e si riescono ad ottenere rilasci molto contenuti di sostanze         inquinanti, tanto che gli impianti sorgono anche in aree urbane.
     In Italia – e questo è un altro mistero che dovrebbero spiegarci –         anche i più moderni impianti sono almeno un paio di “generazioni”         indietro rispetto a quelli d’oltralpe.
     I timori delle popolazioni – quindi – sono pienamente giustificati:         perché un sindaco dovrebbe concedere la costruzione di un         termovalorizzatore, quando non ha garanzie sul futuro inquinamento?
Discariche         e termovalorizzatori sono mezzucci per risolvere il breve ed il medio         periodo ma, se vogliamo veramente salire un ulteriore “scalino” e         cercare soluzioni radicali, non possiamo che partire dalla “catena”         del rifiuto: in definitiva, si brucia ciò che s’immette nella         “filiera” del rifiuto.
     I         rifiuti organici naturali (scarti di cucina, ad esempio) non producono         inquinanti: il vero problema sono i materiali prodotti dall’uomo         mediante la manipolazione chimica. Una cassetta di legno può bruciare         tranquillamente: la stessa cassetta, costituita da materiale plastico,         è un problema.
     Qui nasce il problema dei rifiuti: quando s’arriva al cassonetto, la         frittata oramai è fatta.
La         raccolta differenziata dei rifiuti è ottima cosa, ma è lenta ad         affermarsi e sembra non riuscire a superare la metà, forse il 60% della         produzione di rifiuti, anche nelle migliori condizioni.
     Le proposte sono molte: dalla raccolta “porta a porta” (molto         costosa) ad un generale abbattimento della quantità d’imballaggi, che         formano gran parte dei rifiuti.
     Dobbiamo, però, sfatare un mito, ovvero il ritorno al trasporto dei         materiali sfusi: chi ha vissuto nel mondo dove si rifornivano i negozi         con i sacchi di pasta, sa benissimo che quel metodo necessitava di tanta         mano d’opera in più per realizzare la distribuzione.
     In questo senso, la grande distribuzione è un passo in avanti, non         indietro: in termini d’efficienza – sia energetica, sia per le ore         di lavoro necessarie – il mondo “polverizzato” dei piccoli         esercenti condurrebbe a nuovi rincari delle merci. Già oggi è         possibile, non ovunque, ordinare direttamente le merci via Internet, e         questo è un altro progresso: risparmi di tempo e carburanti.
     Va da sé che, se si devono rifornire i supermercati con merci imballate         (giacché chi acquista compra una confezione, mentre un tempo c’era un         addetto che confezionare i pacchi), aumenterà la massa degli         imballaggi.
Gli         imballaggi sono dunque i materiali che generano più problemi per un         loro eventuale uso energetico: enormi masse di materie plastiche, nylon,         coloranti. E’ proprio necessario costruirli con queste sostanze?
     Se i contenitori per il trasporto e l’imballaggio delle merci vengono         recuperati, allora possiamo costruirli con qualsiasi materiale, ma se         vanno a finire nel cassonetto – quante volte abbiamo notato cataste di         cassette per la frutta in plastica accanto ai cassonetti? – sarebbe         meglio farli di legno. E per gli imballaggi, non sarebbe meglio         utilizzare il cartone? Ancora: è proprio necessario colorare il         cartone, cosicché rimane intriso di coloranti chimici che inquinano         pesantemente?
     I sacchetti potrebbero essere di carta, oppure fabbricati con polimeri         dell’amido di mais, i coloranti usati potrebbero essere d’origine         naturale: certo, forse non si riuscirebbe ad ottenere quel meraviglioso         rosa shocking, ma val bene la pena se dopo non si genera diossina!
Ci         sono milioni d’interventi per intervenire nella “filiera” del         rifiuto: perché non viene proibita la vendita delle batterie (pile)         tradizionali, così utilizziamo solo quelle ricaricabili? Se si possono         ricaricare anche solo 200 volte, significa ridurre allo 0,5% la quantità         di batterie esauste! Idem per le lampadine.
     Il         5% del petrolio che importiamo non viene usato per generare energia,         bensì per usi petrolchimici: sono circa 10 milioni di tonnellate         l’anno, il carico di 25 superpetroliere. Con quel petrolio saranno         sintetizzati medicinali, materie plastiche, gomme, fibre tessili,         coloranti, inchiostri, ecc.
     Questo mare di composti, in gran parte, finirà in discarica nel volgere         di pochi anni. Perché?
     Poiché la monnezza sta diventando il terminale d’ogni attività         umana: senza monnezza, il capitalismo non ha futuro!
Mi         sono piaciuti parecchio alcuni passaggi di un articolo comparso sul Web,         dal titolo “L'impero         della rumenta” di         Gianluca Freda, perché metteva il dito proprio sulla genesi della         monnezza, sul mal primigenio del problema.
     Citando         Maurizio Pallante in “La decrescita felice”         – laddove afferma che “La produzione è un’attività         finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio         intermedio, sempre più breve, allo stato di merci” – Freda         conclude che “La merce,         in quest’accezione, non è altro che monnezza grezza che va raffinata         al più presto, affinché si possano ricavare dal prodotto finito i         meritati e lucrosi profitti imprenditoriali.”
     Correttamente,         Freda identifica nella monnezza il prodotto finito del lavoro         capitalista, perché soltanto dalla distruzione del bene sarà possibile         ottenere la vendita di un nuovo bene! Tragico, ma è così.
Se         spicchiamo un salto nel tempo di parecchi secoli, troviamo artigiani         tessili preoccupati: per i prezzi? Per trovare un acquirente ad una         camicia in ruvida lana?
     No, il problema era avere la lana per filare, per tessere, per         confezionare la camicia! Dopo, c’erano stuoli di pretendenti, pronti a         scucire monete d’oro oppure a barattare il proprio lavoro in cambio.
     Per avere più lana, s’iniziò ad acquistarla in posti sempre più         lontani, in quantità crescenti, con l’impiego di sempre più risorse,         i capitali.
     Il capitale – e tutto la panoplia dei primi mezzi finanziari, lettere         di credito, cambiali, ecc – aveva il precipuo scopo di soddisfare una         impellente necessità umana: non crepare di polmonite.
L’interesse         bancario, richiesto su ogni prestito, aumentò a dismisura le dimensioni         dei capitali originari, tanto che – alla fine del ‘400 – i         banchieri fiorentini si permettevano di finanziare le spedizioni nel         Nuovo Mondo. Mica per interesse filantropico: per trovare altra lana e         spezie, che erano necessarie giacché non erano solo il pepe e la         cannella, bensì tutta la chimica e la farmacopea dell’epoca.
     Finché il lavoro rimase manuale, la quantità d’energia che il         “sistema” poteva gestire era limitata dalle masse muscolari di         uomini ed animali, ma con l’avvento del vapore aumentò         esponenzialmente. Più camicie, più soldi: il problema è che ogni         persona può indossare una sola camicia la volta. Ne potrà tenere 
     Ecco,         allora, che la camicia – per continuare ad incrementare il capitale         – deve durare di meno: non c’è altra soluzione.
La         scrivania sulla quale ho appoggiato il computer è una scrivania “da         soci” (probabilmente da architetto) degli anni ’20: è costruita in         quercia, con incastri a coda di rondine e pochi inserti metallici. La         pagai 100.000 lire da un rigattiere, la restaurai e la sto usando da         molti anni: quando me ne sarò andato, potrà rendere gli stessi servigi         a mio figlio, ai miei nipoti, bisnipoti, ecc. Basterà una mano di         vernice e un po’ di cera ogni tanto: la mia scrivania è un minuscolo         soldatino del movimento anti-capitalista.
     Se avessi acquistato, ad un prezzo certo maggiore, una moderna scrivania         in truciolato, oggi l’impiallacciatura inizierebbe a staccarsi, le         gambe ad indebolirsi, i cassetti a perdere i fondi. Accanto ai         cassonetti, ci sono spesso cataste di mobili in truciolato: il         truciolato è un grande alleato del capitalismo.
Un         enorme quantitativo di rifiuti è costituito da mobili: anzi, ex mobili.         Per costruire i mobili, deforestiamo immense aree, scacciamo con la         forza popolazioni che vi abitano da millenni, trituriamo il legno e lo         ricomponiamo con colle sintetiche. Con i pannelli, quindi, costruiamo i         mobili.
     I mobili moderni saranno pure lisci e senza la minima fessura, ma dopo         qualche decennio – inevitabilmente – le colle si de-polimerizzano ed         i pannelli di truciolato vanno letteralmente in polvere: perché non         usare il legno?
     Un mobile in legno – se protetto dai tarli – può durare alcuni         secoli: ne sono testimoni i mobili antichi giunti sino a noi. Curandoli         con della semplice cera d’api, i nostri progenitori hanno usato gli         stessi mobili per generazioni: certo, ci sono preferenze dovute alle         mode od agli stili, ma tutto questo cela soltanto la nostra ansia del         dover cambiare tutto ciò che ci circonda, frequentemente, per         mascherare la nostra incapacità di cambiare il nostro pessimo stile di         vita. Dalla produzione al consumo, tutto deve vorticare celermente per         donarci l’illusione della felicità. Effimera.
Ovviamente,         il capitalismo alimenta ad arte – grazie alla pubblicità – la sete         di mutamento: sei depresso? Comprati un paio di scarpe nuove: per un         paio d’ore scaccerai il male ai piedi, osservando le tue nuove zampe         sontuosamente calzate.
     La stessa molla del consumo inconsapevole ci spinge ad acquistare il         cartoccio dei pomodori che ha la confezione più appariscente e         colorata: nastrini dorati, nylon che riflettono la luce, scritte         accattivanti che richiamano paradisi della natura.
     In realtà, quei pomodori sono probabilmente cresciuti sotto una cappa         di concimi chimici e diserbanti, e sono stati raccolti da uno schiavo         nero – che oggi chiamiamo “extracomunitario” – per pochi         centesimi: nell’estate del 2006, le Forze dell’Ordine scoprirono –         in Puglia – una vera holding della schiavitù, con tanto di         “caporali” armati che sorvegliavano i “lavoratori         extracomunitari”. Peggio dei campi di cotone dell’Alabama.
Se         fossimo consapevoli dell’abisso d’infelicità nel quale siamo         precipitati, probabilmente acquisteremmo la metà dei prodotti che         compriamo: perché non si costruiscono automobili che durano trent’anni?         Sarebbe possibile e vantaggioso, sia economicamente e sia per gli         aspetti energetici ed ambientali.
     La risposta è: perché nessuno si terrebbe la stessa auto per trent’anni!         Vorrebbe cambiare, non entrare nella stessa “forma” per tre decenni.         Ci chiediamo perché ci disturba tanto? Perché quel “cambiare”         acquieta la nostra sete di mutamento interiore, perché ci rendiamo         conto che stiamo costruendo un mondo alla rovescia: campagne spopolate e         città invivibili, ricchi straricchi e poveri strapoveri, felicità         effimere e depressioni dilaganti.
Difficile         stabilire dove sia iniziato questo circolo vizioso: possiamo soltanto         affermare che è perfettamente coerente con i desideri di chi guadagna         un euro a camicia, e pare acquietare le ansie di coloro che – se non         acquistano una camicia nuova ogni mese – cadono in depressione.
     Ora, qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto ciò con la         politica spicciola: possiamo discutere all’infinito sulla convenienza         della raccolta differenziata, sugli inceneritori, sul riciclo dei         materiali – ed è giusto farlo – ma se non mutiamo le nostre         abitudini – ovvero se non diminuiamo la colossale quantità di beni         che consumiamo nei paesi ricchi, senza trovare felicità – saranno         soltanto pannicelli caldi per curare un tumore.
Siamo         così fessi, stupidi, inconsapevoli? No: c’è chi alimenta ad arte         questa tendenza e ci campa allegramente. Ovviamente, chi produce un bene         vorrà produrne di più per arricchirsi: la nota teoria dello         “sviluppo senza limiti”, che rischia seriamente di mettere in crisi         l’intera specie umana, ma c’è chi ha trasformato il rifiuto in un         cespite di ricchezza e di potere.
     Tutti paghiamo la tassa sulla spazzatura. Quanto? Dipende, ma una cifra         vicina ai 200 euro a famiglia è vicina alla realtà.
     Questa tassa (le sole famiglie) genera annualmente un capitale pari a         circa 5 miliardi di euro (altri forniscono cifre ben maggiori, ma non ha         soverchia importanza). Chi lo gestisce? Gli assessori incaricati di         gestire i rifiuti, che si servono d’aziende municipalizzate o private         per “risolvere” il problema.
Qui         entrano in gioco le cosiddette “eco-mafie”, che non sono eserciti         d’individui con coppola e lupara: più semplicemente, sono distinti         signori in doppiopetto che ricevono appalti per la gestione della         spazzatura i quali, a loro volta, li re-distribuiscono in una jungla di         subappalti.
     Sulla monnezza campa un esercito di camionisti, raccoglitori,         funzionari…e su tutti, come un sovrano, regna il nostro assessore che,         con una delibera, può cambiare il destino di centinaia di persone. Le         quali, ovviamente, mostreranno riconoscenza alle elezioni. Proviamo a         riflettere su qualche milione di euro da gestire per raccogliere voti:         la spazzatura può anche fare tre volte il giro dello Stivale (difatti,         la spediscono in Sardegna, che è proprio dietro l’angolo), basta che         alla scadenza elettorale caschi tutta sullo stesso nome!
     Perché, soprattutto al Sud, la raccolta differenziata non decolla?         Poiché manderebbe in crisi il sistema, “l’affare monnezza”. Del         resto, la politica-spazzatura, 
C’è         modo d’uscirne?
     Senza uno Stato che si riappropri di quei poteri che la cosiddetta         “deregulation” ha generato, potremo discutere all’infinito su         discariche e termovalorizzatori, ma rimarremo sempre nella m…pardon         nella monnezza. E non si venga a raccontare che il problema è solo         napoletano; ho visto personalmente intere vallette, al Nord, riempite di         spazzatura, che non hanno ripari a valle: prima o dopo, quella monnezza         finirà inevitabilmente sulla testa di chi sta sotto. Magari fra cent’anni:         e chi se ne frega di cosa avverrà fra cent’anni! Nomineranno un         Commissario per le Monnezze Cadenti.
     Un primo passo verso la decrescita, passa proprio per uno Stato che         torni a difendere la salute ed il buon livello di vita della         popolazione. Come? Stabilendo, per legge, più tutele sulla produzione         dei beni.
Mia         suocera ha un frigorifero Bosch che acquistò nei primi anni ’60:         funziona tuttora, ed è costruito con un acciaio che ci potreste fare         una lama di Toledo. Una cara amica ha ancora un monumentale frigorifero         FIAT, che ha attraversato tutte le stagioni della tecnologia ed oggi ha         già valore nel mercato del modernariato. E funziona.
     Ovvio che, quando la concorrenza scivola nel monopolismo, nel cartello         dei produttori e lo Stato si estingue, l’interesse generale sarebbe         quello di darvi un frigorifero che dura due mesi.
     Perché, un’auto, deve avere soltanto due anni di garanzia?
     Se, ipoteticamente (ma conosco situazioni che si avvicinano parecchio         all’esempio), dopo due anni ed un giorno si rompe la pompa         dell’acqua e si “fonde” il motore? Oppure, il parabrezza –         inspiegabilmente – si fessura (“cancro del vetro”, lo chiamano, ma         facessero il piacere…), una gomma scoppia dopo poche migliaia di         chilometri – eh sì, “capita” – chi vi risarcisce?
L’auto         che avete acquistato – quei 20.000 euro, poniamo – per quanto tempo         deve durare?
     Se dopo pochi anni inizia ad andare letteralmente in pezzi (qualcuno         ricorda le Alfasud che         lasciavano una scia di ruggine dopo pochi anni?), questa è truffa,         soltanto che le leggi non la riconoscono come tale.
     Ovvio, perché andrebbe ad intaccare il comma numero uno: tutto deve         essere funzionale all’accumulazione del capitale. Il comma due,         invece, recita: qualsiasi legge che contrasta con il comma uno è         automaticamente abrogata, e deve essere immediatamente gettata nella         monnezza. Fine.
Carlo         Bertani articoli@carlobertani.it          www.carlobertani.it          http://carlobertani.blogspot.com/         
...
 
 
1 commento:
Ineccepibile...
Posta un commento