Rocco e i suoi fratelli
di Maurizio Crosetti
Torino - Antonio è morto in fabbrica, subito, mangiato dal fuoco. Gli altri, dentro letti d'ospedale che sembravano culle e ragnatele, leggere trame metalliche attorno alle bende per lasciar circolare l'aria, tutti fasciati ma gli occhi no. Ognuno col suo destino bastardo ad aspettarlo.
Bruno si sarebbe licenziato il giorno dopo per aprire un bar. Rocco, che era salvo, è accorso nella tempesta per aiutare gli altri, ad un mese dalla pensione. Antonio aveva provato a cambiare il turno, inutilmente. Angelo si era fatto trasferire a Terni, ma poi era tornato. Roberto viveva di straordinari, perché è dura tirar su i figli. Rosario aveva fatto un favore ad un compagno ed aveva preso il suo posto. Giuseppe aspettava la sua pella nuova: sarebbe arrivata giovedì.
I più giovani, Bruno Santino e Rosario Rodinò, avevano 26 anni. Invece Rocco Marzo era un vecchio ragazzone di 54, il capoturno, sposato con la sua Rosetta che aveva venduto la panetteria dopo trentacinque anni per stare con lui. Il 29 gennaio avrebbero festeggiato trent'anni di matrimonio insieme ai figli già grandi, Alessandro e Marina. Sognavano una crociera, però avevano deciso di no, per risparmiare e per la famiglia. Dicono, i figli, che Rocco si spaccava la schiena all'acciaieria. Se n'è andato per quinto, il 16 dicembre. Al pronto soccorso era lucido. "Non spaventate i miei, dite bene cos'è successo, che stiano tranquilli". Vide l'onda del fuoco, corse in aiuto e venne inghiottito.
Corpi bruciati dall'80 al 95 per cento: morte quasi certa, oppure un'esistenza vegetale, quasi senza corpo, quasi senza volto. Uno di loro aveva salva solo la pianta del piede. Antonio Schiavone non ha avuto il tempo per nulla. Morto sul colpo, all'una di notte del 6 dicembre. Il più fortunato tra i sette, probabilmente. Gli amici ricorderanno il viso serio e fiero, la passione per il calcio, i tre bambini piccoli (sei anni, quattro anni, due mesi), il suo paesino in provincia di Cuneo, Envie, ed il soprannome, Ragnatela, per via di un tatuaggio sul gomito. Quel mercoledì notte provò in ogni modo a cambiare il turno, per andare alla festa di compleanno del figlio di un amico. Non ci riuscì.
Tutto al contrario il destino di Rosario Rodinò, che in reparto non doveva proprio esserci e tuttavia c'era, gliel'aveva chiesto un amico, in fabbrica i favori si fanno e si rendono, in fondo costa così poco. Costava la vita, inveca. Rosario è stato il penultimo a morire, il 19 dicembre. Suo padre Giovanni aveva lavorato alla Thyssen per 33 anni. Nel 2000 andò in pensione, domandò un posto per il suo Rosario, venne accontentato.
Roberto Scola lo prendevano un pò in giro, perché stava sempre là dentro. La galera degli straordinari. "Finirà che ti porterai anche la branda" gli diceva la moglie Egla, ma lei sapeva benissimo che Roberto non poteva fare altrimenti. Lavorava lui solo. Egla è albanese: "Non tutti ci vedono di buon occhio, come farò adesso che ho perso l'amore della mia vita?". Roberto Scola è stato il secondo operaio a morire, la mattina del 7 dicembre. Arrivò in ospedale cosciente e terrorrizzato di non rivedere mai più Samuele, tre anni, e Gabriele, un anno e mezzo. Non faceva altro che giocarci, lavorare e giocarci. Implorò i medici di salvarlo per loro.
Non c'è una sola fotografia di Angelo Laurino in cui lui non sorrida. Ai funerali, tanta gente ha accarezzato quel volto dentro la cornice, appoggiato sul tavolino delle firme. La sua mamma, dietro la bara, gli diceva aspettami. Anche Angelo non doveva esserci, o almeno poteva non esserci. Si era fatto trasferire alla Thyssen di Terni, ci era rimasto qualche mese ed era rientrato appena da due settimane. Perché mica era vita, così. Lui in Umbria, la moglie Sabina ed i figli a Torino, due ragazzi, Fabrizio ha 12 anni, Noemi 14. Sono due dei nove orfani di questa storia, il più piccolo ha due mesi, la più grande 26 anni. "Spostarci tutti era complicato, lui è tornato ed alla fine me l'hanno ucciso" dice Sabina. Il pomeriggio del 7 dicembre. Angelo aveva un grande amico, Antonio Boccuzzi, l'unico superstite. Antonio decise di attaccare la bocchetta di un idrante (quella del tubo forato, n.d.m.): spostandosi di qualche metro, si salvò.
La mattina dei primi quattro funerali, al Cimitero Monumentale di Torino c'erano altri tre loculi vuoti in fila, ad aspettare. Giuseppe Demasi ha lottato come una tigre per ventiquattro giorni: contro lo scempio sulla sua pelle, contro le statistiche che ripetono come solo 5 su 100, in quelle condizioni, ce la possono fare.. Il più giovane, insieme a Bruno Santino. Ventisei anni. Una tempra formidabile, da grande atleta della vita capace di reggere quattro interventi chirurgici, una tracheotomia e tre rimozioni di cute con innesti da donatore. Scienza e speranza intorno al suo letto, accanto al respiratore che lo teneva in questo mondo bellissimo e tremendo. Il 3 gennaio era previsto un primo innesto cutaneo di materiale realizzato in laboratorio, la pelle nuova doveva arrivare da Milano, ospedale Niguarda. Milano, la vita. Invece Giuseppe è morto ieri. La pelle nuova venne coltivata come un fiore di serra, ma appassì.
Il destino chiama, qualche volta sembra quasi un parente, qualcosa o qualcuno rimasto lì per tanto tempo. Bruno Santino aveva un fratello, Luigi, pure lui operaio alla Thyssen, ed un padre, Antonio, tutta la vita in fabbrica: è il vecchio che al corteo degli operai ha gridato "assassini, bastardi, me la pagherete", sollevando una pagina di giornale con le foto dei morti. Bruno aveva 26 anni ed è stato il quarto cuore a cedere, la sera del 7 dicembre. Il fuoco se l'è preso nel suo ultimo giorno di lavoro. Lui e la fidanzata Anna avevano cenato a lume di candela per festeggiare la nuova avventura, il bar da gestire insieme in provincia di Cuneo. Bruno Santino era poi rientrato in fabbrica a mezzanotte, sapendo che sarebbe stata l'ultima volta ma non immaginando quanto. Prima di entrare mandò un messaggino ad Anna: "Ciao, amore, a domani". "Sono qui", rispose lei.
fonte: la Repubblica 31 dicembre 2007
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I pm: è omicidio volontario plurimo
"L'atto d'accusa nelle carte dell'Axa"
Se la tesi sarà accolta, il processo ai manager tedeschi si svolgerà in Corte d´Assise. La compagnia assicurativa francese aveva declassato il cliente a causa delle mancate misure di sicurezza nell´impianto
di Marco Travaglio
La fiaccolata degli operai ThyssenKrupp
Il processo ai vertici della ThyssenKrupp per la strage di Torino potrebbe svolgersi in Corte d´Assise, per un reato gravissimo: omicidio volontario plurimo. Gli inquirenti ne stanno discutendo in queste ore in Procura, dopo aver esaminato alcune carte sequestrate nella sede di Terni della multinazionale tedesca e ritenute fondamentali per un´agghiacciante e inaspettata svolta nelle indagini, aperte finora per omicidio colposo e altri delitti.
Carte che sembrano dimostrare la piena consapevolezza, da parte dei dirigenti dell´azienda, del pericolo di vita in cui versavano permanentemente gli operai della linea 5: quella devastata dall´incendio che è già costato la vita a sei lavoratori. La ThyssenKrupp è assicurata con la compagnia francese Axa. Lo scorso anno i tecnici dell´assicurazione avevano "declassato" il loro cliente, a causa delle mancate misure di sicurezza nello stabilimento di Torino, portando la franchigia da 30 a 100 milioni di euro.
E avevano stilato un elenco di adempimenti da adottare per tornare alla vecchia e più vantaggiosa franchigia: tra questi, una serie di misure automatiche antincendio proprio sulla linea 5. I responsabili dell´acciaieria, però, avevano fatto orecchi da mercante. Nel carteggi sequestrati dalla polizia giudiziaria della Procura di Torino negli uffici di Terni, si legge che quelle misure erano state posticipate all´anno prossimo, cioè al 2008, quando la linea 5 sarebbe stata trasferita nella fabbrica umbra.
"From Turin", cioè "via da Torino", è l´espressione-chiave messa nero su bianco nei documenti che accompagnano le previsioni di bilancio e di investimento per l´anno in corso. Traduzione: una volta traslocata da Torino a Terni, la linea 5 sarebbe stata finalmente messa a norma. Il che significa che per oltre un anno, nello stabilimento destinato alla dismissione e lasciato in progressivo abbandono, tutto sarebbe rimasto così com´era. La spesa preventivata per ammodernare gli impianti sulla "linea della morte" tutelare la sicurezza dei lavoratori era di appena 800 mila euro, la miseria di un miliardo e mezzo di vecchie lire. Eppure fu ritenuta eccessiva dai vertici operativi del gruppo.
Quando hanno letto le carte, dalle quali trasuda l´assoluta, spensierata trascuratezza di un colosso mondiale come la ThyssenKrupp per la vita dei suoi dipendenti italiani, gli investigatori si sono ritrovati catapultati in un film dell´orrore, in una concezione dell´impresa che si pensava abbandonata dai tempi della Rivoluzione industriale. E ulteriori conferme all´ipotesi di accusa sarebbero giunte dai documenti sequestrati nella sede milanese dell´Axa, dove l´ingegnere che condusse i sopralluoghi alla ThyssenKrupp di Torino ha fornito elementi decisivi agli investigatori. «Se l´azienda avesse seguito le linee guida da noi indicate – ha dichiarato – l´incendio si sarebbe subito estinto in automatico, i lavoratori non si sarebbero avvicinati alle fiamme con le pompe dell´acqua (peraltro scariche o comunque non funzionanti, ndr) e verosimilmente non sarebbe morto nessuno».
Ora il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello (anche ieri al lavoro, nel quarantesimo anniversario del suo ingresso in magistratura) e i sostituti procuratori Laura Longo e Francesca Traverso stanno ultimando le verifiche, prima di decidere l´eventuale modifica del reato contestato. Se la ricostruzione dei fatti che emerge dalle carte sarà confermata, si imporrà il passaggio dai reati colposi (cioè involontari) a quelli dolosi (cioè volontari). Conoscere e accettare il rischio di morte per i lavoratori equivale a provocarla volontariamente. In linguaggio giuridico si parla di «dolo eventuale»: che scatta quando l´«agente» attua una condotta per altri fini, ma sa che vi sono concrete possibilità che dalla ne discendano eventi ulteriori e tuttavia accetta il rischio di provocarli.
Insomma, tira diritto per la sua strada "costi quel che costi". Le conseguenze di una contestazione di omicidio volontario plurimo sarebbero enormi: il processo passerebbe dal Tribunale alla Corte d´assise, dove i vertici della Thyssen Krupp rischierebbero pene altissime, visto anche l´alto numero di vittime nella strage. In pratica, se condannati, finirebbero in carcere per molti anni. E il film horror avrebbe così il suo degno epilogo. Un film intitolato «From Turin».
1 commento:
Nessuna parola, solo lacrime...
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