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«Dobbiamo ripensare l'imprenditore: è un lavoratore che rischia: basta contrapposizioni»
«E io mai come oggi avverto il bisogno che la politica si immerga nella vita reale dei cittadini. Ho la sensazione devastante di una separazione netta tra la vita delle persone, tra ciò che le angoscia, le spaventa, ne determina l'umore, e ciò di cui parla la politica. La politica pare un acquario, in cui alcuni pesci nuotano, altri si sbranano, ma tutti sono separati sia dalla sofferenza sia dal talento di chi sta fuori. Sarà per il lavoro che faccio, sarà perché parlo con le persone e non guardo la società dai numeri dei sondaggi, fatto sta che ne sono sempre più convinto: la politica è la risposta ai bisogni dei cittadino, è l'elaborazione di un sistema di valori, di una visione del mondo che argini lo spirito del tempo, il nuovo egoismo sociale che si diffonde come un virus. L'idea per cui ognuno è una monade, un piccolo mondo isolato dagli altri. L'idea per cui, se Napoli ha bisogno di un sostegno nell'emergenza, le stesse amministrazioni di centrodestra del Nord che in passato chiesero e ottennero aiuto voltano le spalle. Io preferisco lo spirito dei ragazzi che nel '66 si precipitarono a Firenze. Preferisco l'Italia che nelle grandi tragedie nazionali si mostra solidale».
L'emergenza rifiuti non è una calamità naturale.
«Ma anche in altre tragedie, come il terremoto dell'Irpinia, emersero responsabilità politiche; e la reazione fu certo di denuncia ma anche di solidarietà ».
Lei ha difeso Bassolino, ma ha poi aggiunto che le dimissioni sarebbero inopportune nell'ora dell'emergenza. Questo significa che dopo il presidente della Campania dovrebbe dimettersi?
«Quanto accade non è solo responsabilità di Bassolino e della Iervolino. Se Bassolino si dimettesse ora, commetterebbe un gravissimo errore. Infatti, con senso di responsabilità, resta al suo posto. Conoscendolo, posso immaginare il suo travaglio di queste ore. Quando l'emergenza sarà risolta, insieme affronteremo una discussione serena. Io sono fatto così: quando vedo che tutti danno addosso a qualcuno, lo difendo. A Napoli ho visto manichini appesi dalla destra del presidente della Regione e del sindaco impiccati: scene che evocano i tempi della Repubblica di Salò. Il rischio è che il Paese si sfarini. Che si affermino idee come quella emersa in un municipio romano, sorprendente tanto più perché viene dall'estrema sinistra, di separare sui bus i bambini rom dai bambini non rom. Contro questo arroccamento individualista occorre un nuovo alfabeto della politica. Al quale si è ispirato il documento dei valori che ieri la commissione, dopo una bella discussione, ha sostanzialmente varato smentendo tutte le profezie di incompatibilità tra le culture e le identità del Pd. Il Partito democratico si è già dato alcuni grandi obiettivi. Dimostrare che esiste un ambientalismo del fare: dire sì alle ferrovie, sì ai pannelli ferroviari anziché al petrolio, sì ai termovalorizzatori anziché alle discariche. A febbraio in Sicilia parteciperò con Amato alla manifestazione a fianco degli imprenditori che si sono ribellati al pizzo. E a marzo ci sarà la prima conferenza operaia del Pd, nel ricordo della tragedia della Thyssen e con la convinzione che i lavoratori non vadano lasciati soli oltre i cancelli delle fabbriche».
Veltroni, al governo c'è il centrosinistra. Cosa farete di concreto? Il premier Prodi (Ap)
«Il governo Prodi, come si vedrà meglio quando la storia consentirà una lettura più serena, ha conseguito risultati straordinari. Ha ricevuto dalla destra un'eredità storica devastante, eppure ha già ridotto il deficit all'1,3%, il dato previsto per il 2010. E ha condotto una politica di redistribuzione, attraverso il cuneo fiscale, l'aumento delle pensioni minime, il pacchetto sul welfare».
Le pare sufficiente?
«Il rischio di una recessione americana, i suoi effetti in Europa, il boom del petrolio, la diminuzione dei consumi impongono uno sforzo ulteriore, nuove misure a sostegno dello sviluppo, e anche una svolta culturale per la sinistra. È tempo di uscire dalla contrapposizione tra impresa e lavoro. Dobbiamo ripensare chi è l'imprenditore».
Appunto: chi è l'imprenditore?
«È un lavoratore. Che rischia, che ci mette del suo, che magari non dorme la notte perché ha un mutuo in banca e non sa se potrà pagarlo. In questi giorni, visitando le fabbriche italiane, ho visto storie esemplari. La Carpigiani: due fratelli che nel dopoguerra si sono inventati macchine, esportate in tutto il mondo, da cento milioni di gelati al giorno. La VidiVici, una azienda di famiglia con due giovani ragazzi, che ha avuto l'idea degli occhiali ripiegabili in un astuccio e che in dieci anni è diventata una grande azienda del settore. La Technogym di Nerio Alessandri, uno che ha cominciato sbirciando il laboratorio artigianale sotto casa. C'è una comunità di destini tra imprenditori e lavoratori. Per questo agli imprenditori tocca garantire ai lavoratori salari adeguati, la sicurezza fisica e la serenità, che consenta loro di sentirsi parte dell'impresa. Chi conosce gli operai sa che hanno un grande patriottismo aziendale, talora molto più dei manager che si assegnano le stock-options. È il momento di costruire un'alleanza tra imprese e lavoro, e varare una politica fiscale a sostegno dei salari».
Anche Prodi lo dice, ma Padoa-Schioppa frena. Chi ha ragione?
«Credo che abbia ragione chi sostiene l'urgenza di interventi peraltro previsti dalla legge finanziaria, che al comma 4 dell'articolo 1 destina tutto l'extragettito alla detrazione delle imposte sul lavoro dipendente. Dobbiamo dare ossigeno alle famiglie e alle imprese, e prima lo facciamo meglio è. Le risorse ci sono, e devono produrre un aumento significativo dei redditi, non 15 euro l'anno, che non servono a nessuno. Qui si sta rompendo l'ascensore sociale. Nel dopoguerra, i contadini pensavano che i loro figli avrebbero fatto gli operai, gli operai che avrebbero fatto gli impiegati, gli impiegati che avrebbero fatto i professori. Questo meccanismo, che ha tenuto su l'Italia, è in panne. Sta alla politica ripararlo al più presto. Anche per questo sono convinto, a differenza della sinistra radicale, che la crescita dei salari debba essere accompagnata dalla crescita della produttività, oltre che dal sostegno alle famiglie e agli incapienti».
A dire il vero, le divisioni della maggioranza emerse in questi giorni riguardano soprattutto la legge elettorale.
«Ma la legge elettorale è necessaria per tutto questo, per far funzionare il sistema, per rimettere in moto il Paese. Io posso fare il pieno di benzina, ma se la macchina è guasta il motore non si accende. L'emergenza rifiuti conferma la crisi della politica; e il tempo non è illimitato. Nel suo bel saggio su Weimar, Gian Enrico Rusconi racconta come una democrazia possa implodere».
Siamo dunque a Weimar?
«Non siamo più al tempo delle notti dei cristalli e delle marce su Roma, sono convinto che possa essere la democrazia a risolvere la crisi della politica. Prima del 27 ottobre, Berlusconi rifiutava qualsiasi dialogo e reclamava la spallata, alla testa di una Cdl unita. Oggi siamo a un passo da una soluzione positiva, sollecitata dal presidente Napolitano nel suo appello di fine anno. Nell'ultimo miglio — il più difficile — che attende la riforma elettorale, tutti sono chiamati a un gesto di responsabilità, per ridurre la frammentazione del sistema. Io ho partecipato l'altro giorno a un vertice di 38 persone. Ma non erano meno affollati i vertici del centrodestra nella scorsa legislatura. In quale Paese del mondo accade questo?».
Crede che stavolta Berlusconi sia pronto a un accordo? Lei se ne fida davvero?
«Questa è una domanda che non mi posso porre. Gli interlocutori sono quelli che sono. Non si scelgono. La domanda che mi faccio è: si può pensare di riscrivere la legge elettorale senza Berlusconi, senza il partito che con il nostro è il più grande d'Italia? Non si può. Io voglio passare dalla concezione della destra, per cui le regole del gioco le scrive la maggioranza e poi sulla partita ci si mette d'accordo, alla concezione per cui le regole del gioco si scrivono insieme e poi ognuno gioca la partita per vincere; possibilmente senza colpi bassi».
Il colpo basso rischia di riceverlo il governo. I partiti minori della maggioranza sono in rivolta, il prezzo dell'accordo con l'opposizione potrebbe essere la caduta di Prodi.
«La verità è che, a un anno dalla nascita di un governo, mettere sul suo percorso la mina del referendum — per quanto nato da un'esigenza reale — è stato un errore politico. Pare una situazione da "Comma 22": se l'accordo non si fa, la maggioranza si spacca sul referendum; ma l'alternativa non è stare fermi, è trovare una soluzione. Il Pd considera che il sistema ideale per il futuro sia quello francese, come ho sempre detto; ma nelle condizioni date è importante aver trovato sulla bozza Bianco una convergenza con Forza Italia, Rifondazione, Udc, ora anche An. Cercheremo di allargarla ancora».
Abbassando lo sbarramento sotto il 5%?
«No. Non possiamo fare una legge peggiore di quella che c'è. Alcuni elementi di "disproporzionalità" sono indispensabili: lo sbarramento al 5; il voto congiunto, per cui si sceglie insieme il candidato e il simbolo. Poi si può vedere se organizzare il riporto dei resti su base nazionale o circoscrizionale, se prevedere un piccolo premio di maggioranza per il primo partito. Ci sono forze che avrebbero comunque rappresentanza grazie al loro radicamento nel territorio. Ci sono forze che con Rifondazione condividono il progetto di un partito nuovo, e non si vede perché resistano alla soglia di sbarramento».
E ci sono forze che sarebbero cancellate.
«Non vogliamo questo. A fianco delle norme, c'è la politica. Se c'è un processo per cui la sinistra radicale si unifica, dall'altra parte può aprirsi un processo di dialogo e convergenza tra diverse forze del centrosinistra e il Partito democratico».
Sta dicendo che offre un patto a Di Pietro, Boselli, Mastella per garantirne la sopravvivenza politica?
«Sono le loro idee e le loro identità a garantirla. Quello che voglio dire è che a fianco delle norme c'è la politica e la capacità di riconoscere identità differenti, senza integralismi. Ci sono molti modi per far sì che dopo la riforma restino molti meno gruppi parlamentari, senza che per questo i partiti minori siano cancellati».
Si tratta anche sulle regole interne al Pd. Latorre dice no a un «partito del leader».
Sul Corriere, Galli della Loggia le rimprovera di dissipare il patrimonio di voti delle primarie, per dare retta alle neonate correnti.
«Credo che nessun partito nella storia italiana sia stato osservato con simile attenzione da entomologi, sia stato vivisezionato nei suoi aspetti più minuti...».
Giustamente: è un partito nuovo.
«Sì, è un partito nuovo, nato con il concorso di tre milioni e mezzo di persone. Io, com'è noto, ero contrario all'elezione diretta, ma si è voluto questo sistema. Che non è una tecnicalità, è una scelta politica, una forma di investimento popolare del leader. Ovviamente, un leader si dota di strutture di decisione politiche, e un grande partito ha una vita interna articolata. È positivo che nascano centri studi, associazioni, organizzazioni, purché ognuno possa partecipare all'una e, magari nello stesso tempo, all'altra; purché non diventino correnti. Purché non siano strutture di potere, con finanziamenti paralleli, che richiedano un'appartenenza. L'appartenenza dev'essere una sola: al Partito democratico. Che poi all'interno del nuovo partito ci possa essere la propensione a ripetere gli schemi d'un tempo, è fisiologico. Ma il mio unico vincolo sono i tre milioni e mezzo delle primarie. Del resto credo mi sia riconosciuto, accanto alla capacità di decidere, anche il gusto dell'ascolto».
Tra i vecchi schemi è riemerso l'antagonismo con D'Alema.
«Quanto piace a voi giornalisti... quanto vi piace tornare a immergervi nel vostro brodo primordiale, ritrovare la logica conradiana dei duellanti... ».
Pare piaccia anche a D'Alema. Qualche colpo gliel'ha rifilato: quando dice che Veltroni conosce Berlusconi più di lui, quando paventa che lei e Franceschini siate impazziti.
«A me non piace. E, siccome non piace a nessuno di coloro che credono nel Pd, credo non piaccia neppure a Massimo D'Alema».
Gli uomini di Letta hanno proposto che lo statuto imponga al leader sconfitto alle elezioni di dimettersi. È d'accordo?
«Ho detto a Enrico, il quale non sapeva della proposta, che do il contenuto per ovvio. Come avviene in molti altri Paesi, il leader sconfitto si fa da parte. Ovviamente, quel leader deve avere il tempo di espletare il suo mandato, di giocare la sua parte, per andare a elezioni in cui risponde di quel che ha fatto».
«È vero il contrario, il governo deve continuare la sua azione e poi votare subito non avrebbe senso. Perché lo sbarramento è inutile, se non è accompagnato dalla riforma dei regolamenti parlamentari, che vieti di costituire gruppi non collegati a simboli presenti sulla scheda elettorale. Ed è inutile finché restano mille parlamentari e due Camere legislative. Come auspico da tempo, il 2008 può essere davvero l'anno delle riforme».
Quale insegnamento ha tratto dalla vicenda delle critiche del Papa?
«Il Papa ha voluto chiarire qual è il suo giudizio, il suo rapporto con la città, la valutazione positiva sui grandi cambiamenti di un'area urbana che cresce il doppio del Paese in pil e occupazione. Il Comune di Roma ha fatto sforzi significativi per la politica sociale, ha aumentato del 48% gli investimenti per i più deboli, lavora a fianco dei parroci, della comunità di Sant'Egidio, della Caritas. È giusto riconoscere che, come tutte le grandi aree metropolitane, Roma convive con il problema della povertà. Le parole pronunciate ieri (venerdì, nda) da Benedetto XVI, dal cardinal Bertone e dalla sala stampa vaticana sono la migliore risposta a chi voleva strumentalizzare la vicenda. Spero che gli esponenti di An che hanno tentato questa operazione cinica riflettano su se stessi, specialmente se sono uomini di fede».
Aldo Cazzullo
13 gennaio 2008
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1 commento:
Edizione d'epoca de "Das Kapital" svendesi assieme agli ultimi 200 anni di teorie economiche progressiste. Rivolgersi direttamente alla segreteria del Partito Democratico.
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