Un pacco indirizzato al ministro della Giustizia è stato intercettato in un ufficio postale romano. Sull'involucro, spedito da Bergamo, compare il nome di Elkassim, un cittadino italo-marocchino, detenuto in Marocco perché accusato di terrorismo
Roma, 31 dicembre 2007 - E' arrivato a Roma, all'ufficio postale di via Bravetta, un pacco indirizzato al ministro della Giustizia Clemente Mastella con dentro un manichino incamprettato. Sopra il plico, inviato al Guardasigilli presso il Dap, c'erano etichette in arabo con la scritta in italiano ''www.giustizia e libertà per Kassim.net''. Sul posto è intervenuto il Commissario di polizia della zona, gli artificieri e agenti della polizia penitenziaria, che aperto il pacco hanno trovato il manichino.
Il pacco, un involucro di piccole dimensioni, è stato spedito, questa la data del timbro postale, il 24 dicembre scorso dall'ufficio postale succursale 1 di Bergamo. All'interno c'era, come si è appreso successivamente, un burattino in legno snodabile. Il nome Kassim, a quanto si è appreso da un investigatore, riconduce alla vicenda di Britel Abu Elkassim, il cittadino italo-marocchino, sposato con una donna italiana, detenuto in Marocco.
Elkassim, che abitava a Bergamo e aveva un permesso di soggiorno, viene arrestato nel 2002 in Pakistan, dove si trovava per lavoro, perché accusato di essere un terrorista seguace di Bin Laden e portato nel 2004 in Marocco, dove e' stato condannato a nove anni di carcere per i reati di associazione sovversiva e per tenuta di riunioni non autorizzate.
Il 16 novembre scorso Elkassim ha cominciato uno sciopero della fame per protestare contro la sua illegittima scarcerazione. Il 20 dicembre il sindaco di Bergamo Roberto Bruni si e' appellato al presidente del Consiglio Romano Prodi e al ministro degli Esteri Massimo D'Alema per chiedere un intervento del governo italiano a favore di Elkassim, facendo seguito alla richiesta di grazia presentata da tempo da parlamentari italiani ed europei a re del Marocco Mohammed VI. Alcuni parlamentari avevano fra l'altro fatto riferimento, in interrogazioni sulla sua vicenda, ai voli Cia con i quali i servizi segreti americani in vari Paesi avevano prelevato presunti terroristi.
fonte: http://qn.quotidiano.net/2008/01/01/57197-manichino_incaprettato_recapitato_mastella.shtml
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L'APPROFONDIMENTO
DAL BELLISSIMO BLOG DI MATTEO GHIONE
http://no-racism-news.noblogs.org/
Extraordinary rendition
«Io, musulmano italiano, lasciato marcire in Marocco» Parla dal carcere il concittadino finito nell'incubo dei voli Cia.
Catturato in Pakistan, interrogato dagli americani, trasferito in Marocco, torturato e condannato a 9 anni, Kassim Britel è una vittima collaterale della guerra al terrorismo. Di cui Roma sembra essersi dimenticata
di Stefano Liberti – fonte Il Manifesto
La voce arriva stanca ma distinta dal fondo della cella. «L'Italia mi ha abbandonato. Mi lasciano qui, in carcere a marcire, solo perché sono musulmano». Abou ElKassim Britel, detto Kassim, 40 anni di cui 18 trascorsi in Italia, cittadino italiano dal 1999, ha un tono pacato, nonostante la drammaticità della sua storia. Una storia di abusi e torture, degna del film di Alan Parker Fuga di Mezzanotte, cominciata nel 2002, in Pakistan, quando è stato catturato dai servizi di sicurezza di Islamabad, torturato, interrogato dagli americani, poi trasferito in Marocco (suo paese d'origine), ancora torturato e detenuto in un luogo segreto, liberato e quindi nuovamente incarcerato nel 2003 e condannato a nove anni di carcere per «organizzazione sovversiva e riunioni non autorizzate».
Lo raggiungiamo al telefono nel carcere di Ain Bourja, a Casablanca, dove è stato recentemente trasferito dopo aver trascorso tre anni nella dura prigione di Salé. «Un posto allucinante, dove stavamo in otto in celle di cinque metri per tre, ci era consentita mezz'ora d'aria al giorno, esclusi il sabato e la domenica, il cibo era pessimo e potevi anche non essere visitato da un dottore per un mese e mezzo».
Lo sciopero della fame
Kassim paga lo scotto di essere un musulmano ai tempi della guerra globale al terrorismo. Condannato per reati associativi a seguito di un processo farsa durato mezza giornata, è stato dimenticato dal nostro ministero degli esteri, nonostante la strenua battaglia condotta dalla moglie Anna Lucia Pighizzini (convertitasi all'Islam con il nome di Khadija). «Ogni tanto mi viene a far visita il console. Mi dice che si stanno muovendo per farmi avere la grazia, ma io non mi fido più». Così Kassim ha cominciato da un mese uno sciopero della fame ed è fermamente intenzionato ad andare avanti. Ritiene l'Italia direttamente coinvolta nel suo caso, non solo per il disinteresse mostrato dal governo di Roma, ma per quella che definisce «una partecipazione attiva dei servizi di intelligence». «Quando mi hanno preso in Pakistan, nel 2002, ho detto subito sia ai servizi pakistani che agli americani che ero un cittadino italiano e che volevo parlare con la mia rappresentanza consolare. Loro mi hanno risposto che l'ambasciatore di Islamabad aveva dichiarato loro che non voleva saper niente di me perché ero un terrorista». Seguono sessioni infinite di interrogatori e abusi in vari luoghi del Pakistan. «Mi hanno torturato in modo bestiale. Gli americani mi hanno detto: "Non ti crediamo. O parli o ti ammazziamo". Poi mi hanno detto che sarebbero andati a prendere mia moglie e mia madre e avrebbero fatto loro cose che non sarei riuscito neanche a immaginarmi».
Dopo mesi di questo trattamento, gli uomini di Washington decidono di trasferirlo. Lo caricano quindi su un aereo, incappucciato, legato e steso per terra. «Viaggiavo con un altro cittadino arabo, probabilmente siriano o giordano. Lui era ferito. Non so che fine abbia fatto». Kassim non ha la minima idea di dove lo stiano portando. Solo all'arrivo, intendendo parlare l'arabo marocchino, capisce che è stato trasferito nel suo paese d'origine. Chiuso in un bagno, viene fotografato e poi trasportato - sempre bendato - nel famigerato centro di detenzione di Temara. È questo il centro nevralgico dell'esternalizzazione in Marocco della guerra al terrorismo. È qui che, secondo diverse associazioni dei diritti umani marocchine, sono state condotte negli anni le vittime di varie extraordinary rendition, sottoposte poi a tecniche di interrogatorio poco ortodosse. Britel conferma: «Mi hanno tenuto lì otto mesi. I marocchini mi interrogavano. Mi torturavano. Volevano che confessassi presunti legami con gruppi terroristici. Nel cortile, ogni tanto sentivo parlare in inglese con accento americano, anche se non so se durante gli interrogatori gli americani erano presenti. Ero sempre bendato».
Il 16 maggio 2003
Tutta l'operazione - la cattura in Pakistan, il trasferimento in Marocco, gli interrogatori a Temara - sono fatti, secondo Kassim, con la consapevolezza e il consenso delle autorità italiane. «Esisteva una collaborazione strutturale tra i servizi italiani e marocchini: quando ero in quel centro, mi hanno fatto ascoltare una registrazione di una telefonata che avevo fatto dal Pakistan a mio fratello a Bergamo. Solo i servizi italiani potevano aver fornito loro quella registrazione».
Dopo questi mesi d'inferno, l'uomo viene rilasciato. Si reca all'ambasciata di Rabat chiedendo un passaporto per tornare a casa. Gli viene detto che ai non residenti in Marocco potevano solo dare un lascia-passare per rientrare in Italia. Visto il modo «inusuale» con cui era entrato nel regno cherifiano, chiede assistenza all'ambasciata per uscire dal paese. Alla sede consolare non ascoltano le sue richieste e gli dicono di non preoccuparsi.
Si reca quindi da solo alla frontiera terrestre di Melilla. Qui i gendarmi marocchini gli chiedono come ha fatto a entrare in Marocco, dal momento che il suo ingresso non risulta dai terminali. Lui racconta la sua storia. I poliziotti si allarmano. Gli dicono di aspettare e lo chiudono in una stanza. È il 16 maggio del 2003. Poche ore dopo a Casablanca, un gruppo di attentatori suicidi si farà esplodere, provocando 42 morti. Il regno piomba nel panico più totale. La reazione è violentissima: vengono effettuate retate e arresti nei quartieri popolari di Casablanca. Migliaia di islamisti sono fermati e rinchiusi in prigione. Ogni sospetto viene gettato in carcere. In questo clima, Britel è arrestato di nuovo. Viene portato per la seconda volta nel centro di Temara, dove trascorre quattro mesi. Poi è trasferito in carcere a Salé. Il 3 ottobre del 2003, è sottoposto a un processo farsa durato appena un giorno, al termine del quale viene condannato a quindici anni (ridotti poi a nove in appello) per «associazione sovversiva e riunioni non autorizzate». «Ma io non vivo in Marocco dal 1989. Dove mai avrei tenuto queste riunioni non autorizzate?», chiede al telefono. Gli elementi di indagine sembrano forniti dalle autorità italiane, che nel giugno 2001 avevano aperto un'indagine su Kassim e la moglie, a causa di una «segnalazione» arrivata alla Digos di Bergamo per presunte attività di fiancheggiamento a gruppi terroristici. Un'indagine chiusa senza rinvio a giudizio nel settembre 2006, perché non era emersa alcuna prova a suffragare l'accusa. Ma intanto, in base a quelle stesse carte che hanno spinto il giudice italiano ad archiviare il caso, Kassim è stato condannato in Marocco a nove anni.
In tutta questa storia, le autorità italiane mantengono un silenzio imbarazzante. Non una protesta ufficiale con i pakistani e gli americani per il sequestro di un cittadino italiano in Pakistan e il suo trasferimento illegale in Marocco. Non una pressione su Rabat per avere chiarimenti sulle carte processuali e sulle prove che hanno condotto alla condanna di Britel. Nessuna richiesta ufficiale di liberazione, come invece hanno fatto i francesi e i britannici in casi analoghi sia in Marocco che nel centro di detenzione Usa di Guantanamo.
La domanda di grazia
I servizi consolari ripetono che «l'unica strada è una domanda di grazia». Ma Kassim è scettico. «La grazia si dà a chi ha commesso un reato e lo ha ammesso. Io sono innocente. E poi conosco il Marocco: so che se il ministero degli esteri italiano facesse le debite pressioni, mi libererebbero».
Ma queste pressioni non pare siano state fatte, almeno per il momento. Intanto il re Mohammed VI, dopo aver ammesso nel 2005 in un'intervista a El Pais, che «il suo paese aveva commesso abusi dopo il 16 maggio 2003», ha bloccato ogni provvedimento di grazia nei confronti di islamisti dal marzo 2007, quando nuovi attentati hanno scosso il reame.
Così, schiacciato tra l'incudine della guerra al terrorismo globale e il martello della paranoia anti-islamista marocchina del post-2003, Britel rimane chiuso in cella, in attesa di una soluzione che non arriva, nel disinteresse più totale delle autorità del paese di cui è almeno formalmente cittadino.
Dal Pakistan a Casablanca. Un calvario lungo cinque anni
L'arresto
Kassim Britel viene fermato in Pakistan il 10 marzo 2002. Qui viene interrogato dai servizi pakistani e da uomini dell'intelligence statunitense. La famiglia ignora dove si trovi.
Il viaggio bendato
Il 25 maggio 2002, è caricato su un aereo e trasferito in Marocco. Qui viene portato nel centro di detenzione di Temara, dove è sottoposto a nuovi, durissimi interrogatori. La famiglia continua a non avere notizie.
La liberazione
L'11 febbraio 2003, Kassim viene rilasciato. Dopo qualche tempo passato in famiglia, chiede assistenza all'ambasciata italiana per lasciare il Marocco. Non ottenendo altro che un lascia-passare, va al confine di Melilla.
Il nuovo arresto
Arrivato alla frontiera il 16 maggio 2003, giorno degli attentati di Casablanca, è arrestato e incarcerato di nuovo a Temara. Dopo quattro mesi è trasferito nel carcere di Salé.
La sentenza
Il 3 ottobre 2003 è condannato a 15 anni di carcere, ridotti poi a nove in appello.
La protesta in carcere
Il 16 novembre 2007, Kassim ha cominciato uno sciopero della fame. Le sue condizioni peggiorano di giorno in giorno
Internet per Kassim
Interrogazioni parlamentari, rapporti e notizie sul sito web dedicato al caso
Visto il silenzio dei mezzi di informazione mainstream su Britel (nella foto piccola), sua moglie ha creato un sito web in cui sono raccolte tutte le informazioni e le novità sul caso (www.giustiziaperkassim.net). Nel sito, si pùo trovare una ricca documentazione, dai rapporti su Britel della Commissione del Parlamento Europeo che indaga sui voli illegali della Cia, alle informazioni sulle interrogazioni parlamentari presentate dai deputato Ezio Locatelli e dai senatori Giovanni Russo Spena, Milziade Caprili e Francesco Martone (Prc).
«Se fate pressioni, Britel sarà liberato»
Parla Claudio Fava, già relatore della Commissione del Parlamento Ue sui voli Cia
di Alberto D'Argenzio
Bruxelles. Senza pressioni diplomatiche da parte dell'Italia, Kassim Britel non sarà mai liberato. Un concetto semplice che Claudio Fava, eurodeputato della sinistra arcobaleno, ripete a più riprese nei minuti dell'intervista. Per un anno e mezzo Fava ha diretto i lavori della Commissione del Parlamento europeo sulle attività della Cia in Europa. In questo periodo ha ascoltato per tre volte l'avvocato di Kassim, ha parlato con la moglie. La Commissione ha ricostruito la sua vicenda, Fava ne ha parlato anche con il governo italiano. Massimo D'Alema e la Farnesina tacciono.
Esiste una via d'uscita per Kassim?
L'unico modo per restituirlo alla libertà è una forte pressione diplomatica e politica da parte del governo italiano. Lo abbiamo detto alla Camera ed abbiamo anche inviato un'apposita chiara richiesta al ministro D'Alema. Siamo di fronte ad una extraordinary rendition, di fronte ad un processo senza garanzie, ad una farsa, celebrata in fretta e al di fuori di qualsiasi tutela, d fronte ad un vero e proprio caso di accanimento processuale. Il Marocco ne ha fatta una questione di principio, vuole salvare la faccia dopo aver condannato una persona senza prove e senza garanzie. Non lo rimetterà in libertà se non grazie a delle forti pressioni diplomatiche.
E cosa ha fatto la diplomazia italiana?
Non ho notizie di atti concludenti da parte della Farnesina. Mi auguro che siano stati fatti dei passi, almeno dei contatti, ma credo che questa domanda vada fatta a D'Alema. Quella delle pressioni è l'unica soluzione possibile anche perché il Marocco dà per conclusa la via giudiziaria. Per loro Kassim è colpevole. Ma pur essendo nato in Marocco Kassim è cittadino italiano e come tale va protetto.
Non è che la Farnesina fa il ragionamento inverso, che non si muova proprio perché è nato in Marocco?
Non vorrei pensare che Britel sia un cittadino italiano di rango inferiore solo per aver preso la cittadinanza grazie ad un matrimonio.
Tutto lo lascia pensare visto l'atteggiamento dell'ambasciata di fronte alle sue richieste di aiuto...
Conosciamo alcuni dettagli della sua vicenda che denotano una certa sciatteria da parte del personale diplomatico italiano, un'attenzione quanto meno distratta alle sue preoccupazioni, alle sue richieste di aiuto. E non è l'unico europeo dimenticato. Nei lavori della Commissione temporanea ci siamo imbattuti in numerosi casi di cittadini europei che avevano una macchia fondamentale: non essere nati sul suolo della Ue. Formalmente si trattava di italiani, tedeschi, britannici, ma erano nati in Egitto, Marocco, Siria e ciò ha portato ad atteggiamenti sbadati, distratti. Come il caso del tedesco Kurnaz, incontrato a Guantanamo da funzionari dell'intelligence del suo paese, non per essere liberato, ma per essere interrogarlo. Grazie a questa visita si è fatto 4 anni e mezzo in più a Guantanamo. Ho la sensazione che ciò non sarebbe accaduto se Kurnaz fosse nato a Monaco e lo stesso se Kassim Britel fosse nato a Milano.
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1 commento:
Di questa storia lascia veramente stupefatti l'inerzia della Farnesina e dell'ambasciata italiana
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